In mezzo al guado: il XIX congresso CGIL

Un sindacato bloccato dalle sue contraddizioni, la necessità di ritessere un’alternativa. Una riflessione di Luca Scacchi, CD CGIL

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Lo scorso anno è stato segnato un’ulteriore e significativo arretramento nei rapporti di forza tra le classi. Non si è arrestata la lunga deriva iniziata con la Grande Crisi del 2007/08, che ha visto progressivamente disorganizzarsi la classe lavoratrice, diradarsi le mobilitazioni di massa e marginalizzarsi la sinistra politica. La ripresa post pandemica (arrivata in Italia al 6,7% nel 2021, una delle più ampie al mondo insieme a Cina, India, Francia, Gran Bretagna e Turchia) non ha cioè visto una parallela ripresa dell’occupazione a tempo indeterminato, della forza di lavoratori e lavoratrici e della conflittualità sociale. Certo, abbiamo visto diffondersi una nuova consapevolezza sul ruolo del conflitto nei rapporti di produzione, dopo una stagione caratterizzata da lotte sostanzialmente limitate alla logistica padana e ad Amazon, in particolare grazie ad alcune vertenze e soprattutto quella del Collettivo di fabbrica GKN (diventata un riferimento di massa in Toscana e non solo). Certo, abbiamo visto una ripresa di mobilitazioni con un’eco di massa o con la capacità di incidere nel proprio settore: lo sciopero generale di CGIL e UIL a dicembre 2021; quello della scuola il 31 maggio; le giornate di lotta nel trasporto aereo low cost o del coordinamento macchinisti Cargo. Certo, abbiamo visto una stagione di convergenze, tessuta da #insorgiamo, dalle iniziative di studenti e Friday for Future, dalla ricomposizione del sindacalismo di base negli scioperi di maggio e dicembre. Certo, abbiamo visto una radicalizzazione del nuovo movimento ambientalista, sempre più cosciente delle tendenze e delle contraddizioni di questo modo di produzione, a partire dal greenwashing delle nuove economie verdi. E abbiamo anche avuto l’apertura di una nuova stagione contrattuale dopo la pandemia, che avrebbe potuto esser l’occasione di un rilancio dell’iniziativa sul fronte dei salari, degli orari e dei diritti, dopo i precedenti rinnovi di restituzione. Nonostante tutto questo, però, il vento dominante è stato diverso.

Il 2022 si è infatti aperto con la precipitazione della competizione mondiale: lo scoppio della guerra in Ucraina e l’esplosione dell’inflazione, che da tempo maturava sugli squilibri mondiali e sulla liquidità con cui le banche centrali inondavano i mercati. La guerra ha gelato la possibile primavera di speranza. La dimensione globale dello scontro è stata infatti subito evidente: l’invasione russa di un grande paese connesso alla UE ha visto protagonista una potenza nucleare con il retroterra politico ed economico della Cina; l’esercito Ucraino è stato sostenuto, oltre che da un’imprevista risposta nazionalista della popolazione, da una rilevante mobilitazione NATO con un diretto sostegno finanziario e logistico, l’invio di armi e il rapido arruolamento nell’Alleanza di Svezia e Finlandia; le sanzioni e l’interruzione delle vie infrastrutturali euroasiatiche (dalle linee ferroviarie che connettevano Cina e Germania a Nordstream, addirittura fatto saltare nel corso dell’estate) hanno ridisegnato i mercati mondiali; l’inedita neutralità di importanti economie, anche storicamente alleate agli USA, hanno facilitato la tenuta russa e scombinato il quadro geopolitico (India, paesi arabi, Sudafrica, Sudamerica, ecc). Questo profilo interimperialista della guerra ha comunque determinato una profonda incertezza economica, al di là delle sue conseguenze sui mercati (energia, metalli, grano, logistica e integrazione mondiale). L’inflazione, già oltre l’8-9% negli USA e in crescita in Europa sin dagli ultimi mesi del 2021, si è imposta ovunque, superando in Italia il 12% (con un 8,1% nel 2022), incidendo sui costi energetici e sull’insieme dell’economia.

Il sistema produttivo italiano rischia in questo contesto di conoscere ulteriori ristrutturazioni, dopo quelle dell’ultimo decennio di stagnazione, a causa delle nuove spinte depressive, la nuova fragilità dei settori centrati sulle esportazioni, l’approfondirsi delle divisioni tra strategie di accumulazione diverse. La ripresa, nonostante l’avvio del PNRR (e quindi i relativi investimenti), si è infatti fermata: nel 2022 il PIL è cresciuto solo del 3,7%; nell’ultimo trimestre si è visto un calo della produzione; nel 2023 per Italia, Svezia e Germania è prevista una nuova recessione (sebbene solo tra 0,1 e 0,3% per il FMI). Se ci fosse un ulteriore peggioramento del quadro internazionale, Bankitalia ipotizza che questa riduzione possa arrivare all’1% e poi proseguire anche nel 2024. I livelli del PIL pre-pandemia sono stati oggi recuperati, ma il prodotto (sia totale sia pro capite) resta comunque inferiore a quello del 2008 di oltre il 3%. Gli investimenti si sono sostanzialmente congelati, nel quadro di un generale rialzo dei costi per unità di prodotto del 6,7% rispetto al 2021. Commercio, trasporti, attività ricreative e turismo conoscono ora un nuovo rallentamento, mentre alcuni settori energivori (vetro, metalli, fertilizzanti, carta, ceramica, cemento) hanno iniziato a ripensare le proprie strategie, guardando a delocalizzazioni in aree vicine o a profonde ristrutturazioni. Non è un caso che, visti gli interventi in USA e Cina sotto l’etichetta del rinnovamento green, la Commissione UE abbia segnalato il pericolo di una deindustrializzazione nel continente, aprendo al superamento delle norme sulla concorrenza contro gli aiuti pubblici (vedremo se con fondi dell’Unione o nazionali, con conseguenze rilevanti sull’assetto del capitalismo europeo). Di fatto si sta registrando il passaggio ad una stagione di aperta competizione tra blocchi.

Questa dinamica incide sulla classe. Il lavoro era già uscito diviso dalle frammentazioni dell’ultimo decennio e della lunga emergenza covid. La prospettiva della guerra, il calo della produzione, l’inflazione che si è immediatamente riverberata su potere d’acquisto e condizioni di vita hanno sostanzialmente paralizzato la sua azione. L’attuale sistema contrattuale, infatti, non è in grado di difendere i salari reali (disarticolato in tempi di rinnovo diversi, alcuni anche di 4 anni; centrato sull’IPCA, al netto dei costi energetici; strutturato su TEM e TEC, con componenti della retribuzione certe e quindi rivalutabili sempre più ridotte; senza alcun meccanismo generale di adeguamento all’inflazione). In realtà, proprio questa emergenza salariale avrebbe potuto esser il vettore da una parte di una resistenza di massa, dall’altro di una ricomposizione tra territori, categorie e condizioni di lavoro. In altri paesi europei, è infatti iniziata una stagione di scioperi e mobilitazioni (ferrovieri e metalmeccanici in Germania, trasporti e petrolchimici in Francia, porti e sanitari in Gran Bretagna). Per ora questo non è però avvenuto in Italia, né sul piano settoriale né su quello generale. In questa paralisi, certo, hanno pesato le scelte soggettive della CGIL, cioè quelle dell’unica organizzazione che ancora ha un radicamento di massa ed un’esplicita aspirazione a rappresentare l’insieme del lavoro. Una sua azione determinata avrebbe cioè forse potuto incidere sulla realtà, imprimendo una diversa curvatura agli eventi. Quello che però voglio qui sottolineare è che in questi mesi non c’è stata una pressione di massa in questa direzione, e neanche una sollecitazione da parte di quella diffusa avanguardia costituita dalla rete di delegati, attivisti, dirigenti sindacali in aziende, fabbriche, enti, scuole e università. Gli scioperi del sindacalismo di base del 20 maggio e del 2 dicembre sono stati molto limitati, anche nei settori dove di solito hanno un impatto (trasporti e pubblici). La differenza di percezioni, punti di vista e identità sviluppatesi in questi anni, l’incertezza sull’immediato futuro, l’incapacità di darsi una rappresentazione e una prospettiva largamente condivisa, hanno cioè per ora impresso un clima generale di rassegnazione.

Anche perché, nel quadro di un’incipiente nuova economia di guerra, è partita una sorta di mobilitazione nazionale, che ancora perdura nelle istituzioni e nei media (come evidente nella partecipazione di Zelensky a San Remo). Se in Italia, diversamente da altri paesi, questo clima non sembra aver ancora orientato e organizzato l’opinione pubblica (ancora molto scettica su un intervento, anche solo di supporto, nella guerra), in ogni caso ha avuto i suoi effetti nel confondere e sconcertare la coscienza di massa. Il movimento contro la guerra, dopo una prima attivazione (Piazza Duomo a Milano, Piazza Santi Apostoli a Roma, il corteo nazionale del 5 marzo a Roma), ha sostanzialmente faticato a strutturarsi e svilupparsi nei territori, non ha incrociato lo sciopero del 20 maggio dei sindacati di base e si è disperso nell’estate. L’unico segno di vita è stato il corteo del 5 novembre a Roma, con una grande piazza di decine di migliaia di persone, occasionale e sostanzialmente guidata dall’azione congiunta di CGIL e importanti settori cattolici (Sant’Egidio, ACLI, AGESCI, ecc).

Le elezioni anticipate hanno segnato l’arrivo di un lungo inverno, con una larga vittoria parlamentare reazionaria che si è fondata su una ricomposizione politica e sociale della destra, nel quadro di una nuova egemonia di Meloni e Salvini, capace di organizzare i ceti intermedi e di penetrare anche settori popolari e di classe. La reazione a questa vittoria, sia in termini di mobilitazioni di piazza, sia in termini di attivazione di un confronto politico e sociale, è stata inessenziale, in un autunno di mobilitazioni parallele e parziali. Si è registrato qualche guizzo (il corteo CGIL dell’8 ottobre, il corteo bolognese di #Insorgiamo, il corteo del 3 dicembre dell’estrema sinistra politica e sociale), in un quadro sostanzialmente scomposto, nonostante lo sviluppo reazionario dell’azione di governo (decreto rave, stretta sulle ONG nel mediterraneo, legge di bilancio) e l’escalation della guerra.

La CGIL aveva configurato il suo XIX congresso per una stagione diversa, come in qualche modo emergeva tra le righe della premessa alle schede per l’Assemblea organizzativa del febbraio 2022 (Alcune indicazioni di scenario). Si riteneva possibile il proseguo della ripresa economica almeno per qualche tempo (2/3 anni), nel quale si sarebbe potuto consolidare un nuovo spazio di intervento pubblico (dentro e oltre il PNRR), anche per la sospensione delle politiche di austerità sino al 2025, e puntare persino ad un possibile approfondimento dello sviluppo federale europeo intorno ad una strutturalizzazione del PNRR finanziata da eurobond (nel quadro di una competizione internazionale ancora sottotono). Inoltre, il quadro politico sembrava potesse rimanere incerto (vista la forza della nuova alleanza PD-5stelle alle amministrative), nel quale le forze sociali potevano giocare un proprio ruolo, essendo ancora imponderabile la radicale divisione del campo largo e lo sfondamento reazionario di Fratelli d’Italia. In quello scenario, l’impianto proposto dall’ampia maggioranza dell’organizzazione si strutturava intorno a 4 nodi, sulla base del discorso con cui Maurizio Landini si era di fatto candidato alla segreteria nel 2018, di una prima definizione programmatica avanzata dalla segreteria (Dall’emergenza al nuovo modello di sviluppo, assunto senza discussione dal Direttivo nel luglio 2020), della conferenza di organizzazione e anche della riflessione avviata nelle prime settimane dopo la guerra nella Commissione politica. In pratica, si delineava la prospettiva di:

  • una nuova e vera unità sindacale, ritenendo ci sia bisogno di una svolta nella discussione con CISL e UIL, con cui avviare una nuova fase di unità del mondo del lavoro e sindacale ed una nuova capacità di contrattazione, basata su un modello di sindacato democratico, autonomo e pluralista, in grado di garantire il diritto di validare, attraverso il voto, le piattaforme e gli accordi sindacali che li riguardano: aziendali, di gruppo, territoriali, nazionali; una proposta fondata su una lettura della divisione tra CGIL, CISL e UIL sostanzialmente motivata appartenenze e contrapposizioni politiche del secolo scorso, e quindi oramai completamente superate, che ha appunto segnato l’ascesa di Landini alla segreteria generale della CGIL;
  • una rilettura dell’indipendenza della CGIL, in cui si afferma che il compito delle organizzazioni sindacali, nella loro totale autonomia, è quello di sviluppare con forza un’azione di pressione, di critica e di sfida progettuale nei confronti del sistema politico preso nel suo complesso, senza rapporti privilegiati e senza collateralismi e che la concertazione, per ciò che riguarda i rapporti con il Governo ed il sistema delle imprese, rimane un importante metodo che presuppone obiettivi condivisi; in cui cioè si fa largo l’idea che in questa fase di crisi si debba codeterminare le strategie economiche e produttive di qualunque governo, come tentato con il Conte uno e il Conte due, con Draghi e il PNRR;
  • un nuovo modello sindacale partecipativo, basato sulla codeterminazione: cioè su un’idea dell’impresa come sistema sociale complesso nel quale convivono diversi punti di vista, in cui tutti i soggetti possono essere protagonisti attivi, trovando un punto di equilibrio, superando quindi la contrapposizione tra “sindacato conflittuale” e “sindacato partecipativo” come due modelli antitetici perché questi due momenti sono sempre necessariamente intrecciati; così viene archiviata ogni riferimento ad un sindacato di classe, che organizza uno dei due punti di vista antitetici nei rapporti di produzione capitalistici, assumendo invece pienamente la storica prospettiva CISL della composizione degli interessi dei diversi fattori di produzione;
  • un compiuto federalismo europeo, in quanto con la guerra è necessario che l’Europa maturi una propria visione in autonomia, una politica estera e, conseguentemente, una politica di difesa comune fondata sul concetto di sicurezza condivisa; quindi occorre dare potere legislativo al Parlamento europeo, superare il meccanismo decisionale basato sull’unanimità, dotandosi di regole omogenee sul piano fiscale e rafforzando il bilancio europeo, anche con strumenti di mutualizzazione del debito (eurobond) e politiche monetarie non convenzionali a sostegno delle politiche industriali europee in settori strategici; in pratica, nella contesa mondiale, l’assunzione piena del compito di costruzione di un blocco imperialista europeo.

Questo asse riconfigura e rilancia la storica prospettiva riformista e produttivista del gruppo dirigente CGIL, che nei momenti di crisi ha sempre assunto su di sé un compito di moderazione salariale e modernizzazione produttiva in nome degli interessi generali del paese, mettendo di fatto il sindacato a servizio degli equilibri capitalistici e delle classi dominanti del paese (dalla centralizzazione e moderazione salariale nel dopoguerra alla svolta dell’EUR del 1978, dalla concertazione del 1993 al patto di fabbrica del 2016). Dal punto di vista organizzativo quest’asse si collega strettamente alla centralizzazione delineata nell’Assemblea organizzativa dello scorso febbraio (sia nel percorso, sia nelle conclusioni). Nel contempo, proprio perché assume la prospettiva aziendalista della ricerca del punto di equilibrio tra i diversi fattori di produzione, questo asse rilancia nella ricerca di questo punto di equilibrio anche una vertenzialità conflittuale. Così, nella parte conclusiva documento congressuale della maggioranza si propongono in tre capitoli (Lavoro e contrasto della precarietà, Nuovo modello di sviluppo sostenibile, Nuovo stato sociale per la coesione) una serie di indicazioni anche più avanzate che nel passato: sulla riduzione d’orario e la necessità di articolarlo contrattualmente, la difesa dell’ambiente e la necessità di una riduzione dell’impatto climatico, il superamento dell’IPCA e il contenimento del welfare (in qualche modo riconoscendo i limiti del patto di fabbrica), la critica dell’obbligatorietà del PCTO (alternanza scuola-lavoro, quindi rivedendo la posizione che portò a non sostenere il referendum del 2016) e altro ancora. Questa proposta vertenziale si propone(va) di riattivare la partecipazione e l’iniziativa sindacale, di riavviare un complessivo movimento rivendicativo del lavoro intorno ad una sorta di piattaforma generale su precarietà, salari e stato sociale, nel quadro però appunto di quell’asse concertativo, codeterminista e responsabile definito nella prima parte del documento.

Questo asse si è dimostrato sfasato rispetto alla realtà. Come abbiamo visto, la dinamica degli eventi è stata diversa dagli scenari tracciati. Così, la prospettiva di una svolta con CISL e UIL, la costruzione di una nuova e vera unità sindacale, si è scontrata con una differenza di modelli, pratiche e strategie che non è radicata solo nelle appartenenze politiche del dopoguerra. Il rapporto tra CGIL e CISL, in particolare, rimane segnato da differenti aspirazioni (l’orientamento ad una trasformazione della società o la difesa della forza lavoro), diverse concezioni dell’organizzazione (sindacato di lavoratori e lavoratrici o degli iscritti) e quindi anche divergenti propensioni verso gli attuali movimenti politici del paese. Lo si è verificato in diverse occasioni nell’ultimo anno: lo sciopero generale dello scorso dicembre contro il governo Draghi, la piazza del 5 marzo contro la guerra in Ucraina, il rapporto con Lega e UGL (al congresso CISL come nell’estate), lo sciopero contro il governo Meloni. Inoltre, la prospettiva di una CGIL indipendente ma che codetermina le scelte su crisi, ristrutturazioni e transizioni con qualunque governo si è arenata nelle relazioni concrete con il Conte uno (i tavoli con Salvini al Viminale e il patto della scuola con Bussetti), con il Conte due e con Draghi (mai usciti dalle dichiarazioni di intenti, a partire dal PNRR dove nonostante i protocolli non si è partecipato a nessuna decisione). Infine, è stata travolta dal nuovo quadro politico: il governo Meloni ha portato al potere una destra che, al di là delle contrapposizioni ideologiche del Ministro Valditara, ha promosso l’UGL a quarta confederazione e ha riaperto la prassi delle audizioni ampie, con decine di associazioni, in cui evapora ogni spazio cogestionale, anche solo ipotetico o formale. Nello stesso modo, anche la ricerca di un nuovo patto dei produttori è stata travolta dagli eventi: la partecipazione è cioè archiviata dall’incertezza strutturale della nuova normalità determinata dalla guerra, con la precipitazione di una competizione mondiale che obbliga un sistema produttivo centrato sulle esportazioni a riassettarsi; il sistema contrattuale del patto di fabbrica (IPCA, TEM e TEC) è stato di fatto disarticolato, prima dalla pandemia e poi dall’inflazione, lasciando i salari senza difesa, al di là delle elargizione dirette dei datori di lavoro o di un intervento pubblico concertato (bonus e defiscalizzazioni). Mentre l’Europa federale resta prigioniera di rinnovate tendenze antagoniste: da una parte le nuove fratture introdotte dalla guerra, tra propensioni atlantiche e rapporti euroasiatici; dall’altra le pressioni competitive mondiali sul versante del riarmo, dell’energia e del sostegno pubblico alle ristrutturazioni produttive.

L’azione della CGIL si è trovata sospesa nel vuoto. La campagna vertenziale che, secondo alcune interpretazioni (ad esempio Giorgio Airaudo), doveva nelle assemblee congressuali coinvolgere lavoratori e lavoratrici e riattivare un’azione collettiva della CGIL, non si è relazionata con il nuovo scenario e non è mai stata messa a terra in percorsi effettivi. Le assemblee, sospese a luglio, sono infatti iniziate ad ottobre con il nuovo governo. La CGIL ha di fatto aperto quel percorso con la manifestazione nazionale del 8 ottobre, rifiutandosi però di trasformarla nel perno di un’opposizione sociale al nuovo governo reazionario (un nuovo 25 aprile 1994, diciamo), focalizzandola solo sulla propria proposta [ascoltate il lavoro] e dandogli dimensioni limitate (i 20mila, non i 200mila). Lo ha proseguito con un’apertura di credito al governo, rivendicando prima un confronto di merito, nonostante il chiaro profilo programmatico, politico ed ideologico dell’esecutivo. Lo ha concluso, davanti una legge di bilancio antipopolare, con la proclamazione solo a metà dicembre di uno sciopero generale disarticolato nei territori (proclamato dalle singole strutture regionali, in diverse realtà senza la UIL: Friuli Venezia Giulia, Veneto, Abruzzo Molise, Campania e Puglia): uno sciopero sostanzialmente fallito, sia nell’impatto politico e mediatico, sia nella partecipazione di piazza, sia nell’adesione di lavoratori e lavoratrici (nel pubblico con percentuali risicatissime, nel privato limitato a realtà molto sindacalizzate). Uno sciopero che, come l’anno prima, è rimasto occasionale, senza percorso, di fatto una semplice azione di posizionamento (impropria per un sindacato delle dimensioni della CGIL). Così, all’inizio del nuovo anno, ci si è trovati senza prospettiva, tanto da ipotizzare un’incomprensibile ampia consultazione. Così, in questo febbraio, si è stati incapaci di farsi perno di una nuova manifestazione nazionale contro la guerra, di fronte all’escalation in corso e alla ricorrenza dell’invasione russa, in quanto impegnati dal punto di vista economico e organizzativo nella fase finale del congresso. La CGIL si trova cioè oggi nuda e per ora disarmata di fronte alla realtà.

L’unico guizzo di questi mesi lo si è registrato con il corteo del 5 novembre, l’aggancio del mondo cattolico sul terreno del contrasto alla guerra, attraverso una solida relazione con Sant’Egidio. Una dinamica nuova, segnata però dall’improbabile coronamento della costruzione di un rapporto diretto, pubblico, formale con il Vaticano, a partire dall’organizzazione di un’udienza speciale con papa Francesco a cui si è portato 5mila dirigenti di tutte le strutture. Un appuntamento intorno a cui è stata costruita un’iconografia inappropriata, sovrabbondante, quasi surreale (striscioni, spillette, foulard) e che è stata accompagnata anche da dichiarazioni all’Avvenire inopportune e, a mio parere, gravemente sbagliate. Un dialogo comunque proseguito anche oltre il 19 dicembre, nella manifestazione per la pace bolognese o nel dibattito tra Zuppi e Landini a Verona ai primi di gennaio. Nella corso del papato Wojtyla e durante quello Ratzinger, Camillo Ruini costruì dalla Conferenza Episcopale Italiana prima un ri-orentamento e poi un progetto culturale per sviluppare un’egemonia valoriale conservatrice, con l’obbiettivo appunto di orientare gli assetti di fondo della società e della politica italiana, anche con un diretto intervento di movimento (come fu il Family Day). Quel progetto, nonostante il respiro strategico, fu sostanzialmente sconfitto, al di là di aver gonfiato le vele ad alcune soggettività reazionarie che si sono poi intrecciate con le derive politiche del decennio successivo. È difficile capite se la nuova direzione CEI del cardinale Zuppi o il protagonismo di Sant’Egidio sottendano un simile ed opposto tentativo, su un versante sociale e progressista. Non è però un caso se su questo inedito asse iniziano ad accendersi i riflettori della stampa,  anche in funzione dei suoi possibili effetti politici. Rimane il dubbio su quale sia il ruolo, il senso e la prospettiva di una partecipazione della CGIL a queste dinamiche. In ogni caso, proprio dal versante CGIL, questa relazione sembra non cogliere tre questioni: in primo luogo, la contrapposizione diretta con la Chiesa cattolica, la gerarchia ecclesiastica e lo stesso Vaticano, sulla questione dei diritti civili (a partire da aborto, LGTBQ*, sussidiarietà, laicità dell’istruzione, ecc); in secondo luogo, l’esistenza di un corpo cattolico oggi in sintonia con l’onda reazionaria, proprio a partire dai diritti civili oltre che su un piano più generale politico e sociale; in terzo luogo, in una fase di questo papato segnata da spaccature e prospettive incerte, la stesa instabilità di questa relazione.

In ogni caso, la prima fase del congresso si è chiusa. I due mesi di assemblee nei posti di lavoro si sono tenuti dopo le elezioni di settembre. Il clima generale di rassegnazione che abbiamo prima sottolineato le ha largamente permeate, a partire da una scarsa partecipazione trasversale a categorie e territori. Certo, questo dato varia molto a seconda delle condizioni di lavoro, della sindacalizzazione, delle prassi di ogni realtà. In questi mesi, però, ho visto moltissime assemblee con pochissimi lavoratori e lavoratrici, anche dove c’erano moltissimi iscritti, anche dove era attesa un’affluenza significativa. Soprattutto, la maggior parte delle assemblee si sono svolte in silenzio, senza interventi oltre i relatori. Ovviamente, non è stato così dappertutto: ci sono state assemblee partecipate, interventi e discussioni interessanti. L’impressione, però, è che siano state eccezioni. Questa fase del congresso si è comunque focalizzata sulla presentazione e votazione dei documenti alternativi. Quello della maggioranza, Il lavoro crea il futuro, il cui nucleo abbiamo prima ricordato. Quello alternativo, Le radici del sindacato, che come ho già sottolineato (Le radici dell’alternativa in CGIL: l’autonomia e l’indipendenza di classe) ha messo al centro la necessità di una svolta, basata sull’autonomia del lavoro dai governi e dal capitale. Nel quadro degli attuali rapporti capitalistici di produzione, infatti, questo documento ha avanzato l’idea di un sindacato generale che organizza il lavoro nella prospettiva di una trasformazione sociale, radicato nei luoghi di lavoro e nella strada (più che sui servizi) e capace di dispiegare una nuova conflittualità per resistere alle offensive padronali sospinte dalla crisi. Questa dialettica, sulla concezione del lavoro e del sindacato, tesse in realtà la storia della CGIL dal suo nascere e si è organizzata su documenti alternativi e aree programmatiche sin dal 1991 (XII congresso).

La discussione al XIX congresso, oltre che su questo versante programmatico, si è anche giocata sull’interpretazione del pluralismo dell’organizzazione. In una struttura dove è progressivamente cresciuto negli ultimi decenni il peso di pensionati, dei servizi e delle funzioni accessorie alla produzione (come enti bilaterali e fondi assicurativi), in cui oramai molti iscritti arrivano attraverso consulenze individuali e percorsi esterni ai luogo di lavoro (in particolare in alcune categorie), in un contesto in cui il lavoro si è frammentato ed ogni categoria sviluppa prassi sempre più peculiari, si è sviluppata la tendenza a considerare il pluralismo dell’organizzazione soprattutto in relazione ai cosiddetti centri regolatori. Una democrazia cioè di territori e categorie, più che di iscritti e proposte programmatiche, segnata soprattutto da una dialettica interburocratica tra diverse declinazioni della rappresentanza della forza lavoro, mentre viene marginalizzato il confronto tra linee, modelli e impostazioni generali (e, in questo, soprattutto il punto di vista di chi sottolinea l’autonomia del lavoro dal capitale). Tanto che nell’ultimo decennio si sono imposte dialettiche sempre più giocate sul versante degli schieramenti di categorie e territori, anche nel quadro di una stessa maggioranza politica e persino sganciate da qualsivoglia esplicito profilo programmatico. Basta guardare all’evoluzione degli ultimi tre congressi, quello del 2010 caratterizzato da un documento alternativo intorno ai gruppi dirigenti FIOM, FP e FISAC, oltre che alcune camere del lavoro come Brescia, Venezia e Reggio Emilia; quello del 2014 segnato dallo scontro Camusso-Landini nello stesso documento di maggioranza, in cui però questa contrapposizione era accompagnata anche da alcuni emendamenti; quello del 2018, in cui la sfida tra Landini e Colla si tenne unicamente sul terreno della candidatura a segretario generale. Non a caso sempre più spesso, anche all’inizio di questo congresso e nel suo dibattito, si sta avanzando l’ipotesi di un superamento dell’impostazione programmatica del 1991.

Il documento alternativo del XIX congresso ha raccolto un fronte articolato di tre aree programmatiche [RiconquistiamoTutto, DemocraziaeLavoro, GiornatediMarzo], coagulatosi all’assemblea nazionale di Firenze lo scorso aprile. I risultati di un congresso della CGIL, comunque, sono conseguenze di due diverse dinamiche: da una parte la rete di attivisti, delegati/e, dirigenti sindacali che sostengono, presidiano, presentano le proprie posizioni; dall’altra la capacità di intercettare sentimenti e prospettive di massa, in sintonia con lavoratori e lavoratrici. Su entrambi questi fronti l’impegno delle Radici del sindacato è partito in salita. In primo luogo, nonostante la presenza di tre aree programmatiche, la lunga stagione di arretramento ha reso limitate, fragili e occasionali le reti di delegati/e e attivisti/e che hanno strutturato l’azione del documento (cioè attive sono in alcuni territori e alcune realtà). In secondo luogo, il clima di rassegnazione di questi mesi ha pesato sulla possibilità di raccogliere consensi. Anche perché, nell’autunno, è mancato quello che potremmo definire l’effetto #insorgiamo, cioè quella reazione di attivazione che aveva suscitato il Collettivo di fabbrica GKN e le sue convergenze, che si sperava potesse contaminare settori dell’organizzazione e della classe. Nel 2018 la presentazione di RiconquistiamoTutto fu accompagnata da un ampio dissenso rispetto alla stagione contrattuale di arretramento in corso (l’accordo dei metalmeccanici, il patto di fabbrica, l’accordo ponte dei pubblici, l’igiene ambientale): oggi invece è sembrata mancare quella rabbia rispetto all’azione sindacale. Il segno prevalente, appunto, è sembrata la rassegnazione.

I risultati ufficiali hanno visto le Radici del Sindacato al 2,41%, 32.300 voti circa. Questo è in realtà un risultato costruito dall’apparato CGIL, effetto cioè dei voti che sono stati al documento di maggioranza più che di quelli conquistati dal testo alternativo. Non è una dinamica nuova: già nel 2014 erano evidenti alcune palesi distorsioni (come il numero di voti maggiore a Cosenza rispetto a Milano), anche per lo scontro interno alla maggioranza su alcuni emendamenti (in particolare sulle pensioni); questa dinamica si è ripetuta nel 2018, anche se non c’erano più quelle ragioni, e l’abbiamo vista nuovamente oggi. In sede di regolamento congressuale, per di più, era stato imposto l’oramai famoso comma 8.3.3 (che ha impedito a chi non era dirigente sindacale di andare a presentare i documenti nei luoghi di lavoro, proprio per ridurre la nostra agibilità). In ogni caso, al di là dell’evidente sperequazione di forze (un apparato di maggioranza di migliaia di funzionari e un documento sostenuto soprattutto da attivisti e delegati/e), in alcune strutture è stata palese la determinazione di questi risultati: pensiamo alle partecipazioni al voto in FILLEA o FILCAMS Lazio (73% degli iscritti), FIOM Umbria (82%), FILT o FICTEM Lombardia (75%), FLAI Basilicata (93%!!). In alcune province ci sono state partecipazioni ancora più incredibili (FP Caltanisetta 95%, Filctem Varese 97%, FLAI Bergamo 98%, FILT Vicenza 98%, FP Forlì al 100%, Fiom Arezzo 99%, Fillea Frosinone 100%). Persino in FLC, dove pure la delegazione in direttivo aveva messo in discussione il comma. 8.3.3, e dove spesso si sono tenuti congressi corretti, in Campania risulta aver votato il 76% e a Napoli il 90% degli iscritti. Tutte strutture, ovviamente, con risultati per il secondo documento ai minimi termini. Risultati incredibili soprattutto a fronte di altre situazioni, dove erano presenti i nostri compagni e compagne. Una prassi distorta, che non solo influisce sui risultati, ma fa perdere a questa organizzazione il rapporto con la realtà.

Il congresso però non è finito. Subito prima di Natale è iniziata la sua seconda parte, con le assise territoriali di categoria e confederali. In queste settimane sono previsti i congressi regionali CGIL, a metà febbraio quelli nazionali di categoria, infine dal 15 al 18 marzo quello confederale a Rimini. Per la maggioranza la parte più significativa e determinante del congresso inizia solo ora. In primo luogo, dal punto di vista politico: è per tutti oramai evidente che il documento è stato scritto in un’altra stagione e oggi bisogna fare i conti con uno scenario economico, politico e sociale completamente diverso. Qualche esponente lo dice persino apertamente. La segreteria confederale e la maggioranza deve cioè fare i conti con la crisi strategica che ho provato a delineare nella prima parte di questa riflessione: la guerra e la contrapposizione imperialista, la pesante inflazione e una possibile prossima recessione, l’incapacità di reggere del sistema contrattuale, lo scontro aperto con il governo, la rassegnazione di lavoratori e lavoratrici, le divisioni con la CISL, il fallimento dello sciopero di dicembre e l’assenza (per ora) di una prospettiva di ripresa nei prossimi mesi. È cioè necessario cioè ridefinire una linea, in un quadro molto più sfavorevole del previsto.

La maggioranza deve anche fare i conti con nuovi solchi che l’attraversano. La spaccatura del campo largo, la rivendicazione del PD dell’agenda Draghi e i suoi sbandamenti con Calenda, l’improbabile riconfigurazione del Movimento 5 stelle come forza progressista, la nuova disfida tra Bonaccini e Schlein sulla segreteria democratica (e sul profilo di quel partito) hanno riaperto una discussione in CGIL sul rapporto con la politica. Nonostante la scelta della segreteria confederale di non assumere orientamenti in campagna elettorale (con un richiamo in direttivo a non dare indicazione di voto), settori dell’ala più moderata (la cosiddetta destra CGIL) si sono mossi in maniera diversa: sui social, a titolo personale, ma anche come responsabili di strutture (vedi la CdLM di Roma Est). Nei recenti congressi lombardi più di una voce è risuonata a chiedere, addirittura, di sospendere eccezionalmente l’autonomia politica della CGIL nelle prossime elezioni regionali, per la possibilità/necessità di sconfiggere la destra. Tensioni che si sono notate anche nell’organizzazione degli scioperi di dicembre, con curiose scelte organizzative dello SPI. Non è forse un caso che in più di un congresso regionale SPI sia stato sottolineato che bisognerà capire quale documento conclusivo uscirà da Rimini. Il problema non è solo di linea. Se la riconferma dell’attuale segretario generale non è in discussione, meno chiari sono gli assetti complessivi del gruppo dirigente: da una parte la ridefinizione della segreteria confederale (presumibilmente in primavera), dall’altra quella di diversi segretari generali di categoria e di alcune regioni. Quel gruppo dirigente ristretto che, di fatto, sarà chiamato a dare la prima indicazione sul prossimo segretario generale, fra quattro anni. Landini, solo un anno fa, nell’Assemblea organizzativa aveva definitivamente ricomposto le fratture del precedente congresso, a partire dal pieno sostegno delle due principali colonne che avevano allora sostenuto Colla (Emilia-Romagna e SPI). Con questa forza aveva imposto alcune decisioni: le nuove assemblee di delegati/e, la centralizzazione del controllo sul tesseramento, una primissima stretta sull’autonomia delle categorie. Di quanto deciso allora, però, in pratica non è ancora stato concretizzato nulla. La maggioranza presenta oggi nuovi solchi, in un quadro in cui la frammentazione delle condizioni di lavoro tra i diversi settori sta rilanciando una compartimentazione categoriale della confederazione. La dinamica e la conclusione di questo congresso, allora, è ancora oggi indecifrabile, al di là del fatto che con la conferma del secondo mandato l’attuale segretario generale potrà contare su una maggior forza nel portare avanti le proprie convinzioni, almeno nei primi due/tre anni.

Pur nel suo risultato ufficiale limitato, il documento alternativo ha tenuto aperto uno spazio. Certo, è evidente che Le radici del Sindacato non ha avuto un particolare successo, non è cioè avanzato di molto rispetto ai risultati di RT allo scorso congresso (2,01%, 28mila voti), nonostante la convergenza con DemocraziaeLavoro. Nel quadro che abbiamo prima richiamato, sarebbe stato comunque difficile. In ogni caso, come ho sottolineato, è stata la maggioranza che non ha permesso di assegnarli almeno quel 4% che da una parte sarebbe stato più in linea con il suo reale radicamento, dall’altro avrebbe politicamente segnato una sua piena affermazione (anche nel quadro delle soglie statutarie). Il documento alternativo, però, non è stato cancellato: pur con questo risultato limitato tiene infatti una sua presenza effettiva in CGIL. In primo luogo, perché conferma la sua forza in molte realtà, a partire da diverse fabbriche o aziende (Meccaniche Mirafiori, Pirelli di Settimo, Leonardo, Same, Electrolux, Porto di Livorno, Comune di Milano, ex GKN, ecc ecc). In secondo luogo, perché raggiunge risultati più rilevanti in diverse categorie (FIOM 4,82%; FISAC 4,8%; SLC 4,11%, FLC 3,94%) e in diverse strutture (dal 25% circa della CdL di Livorno a diverse categorie provinciali: per esempio, nella mia FLC raggiunge il 34% in Valle d’Aosta, il 17% a Torino, il 13% a Milano, il 7% a Venezia e Genova, il 5% a Bologna e Bari, il 17% a Rimini, intorno al 20% nella Toscana tirrenica, il 10% a Roma Est e Cosenza, la grande maggioranza a Enna e Caltanisetta, quasi il 10% a Palermo, il 12% a Catania. Per Le radici del sindacato, a fronte del risultato limitato che gli è stato assegnato, si pone allora un doppio obbiettivo prioritario: tenere il suo quadro unitario, confermare nel nuovo contesto il suo impianto alternativo.

Tenere un profilo unitario. Nel percorso congressuale, mi sembra che le tre aree programmatiche abbiano confermato le proprie diverse impostazioni. RiconquistiamoTutto è legata al suo percorso decennale di opposizione, proiettata non solo nella dialettica dell’organizzazione ma anche nell’autorganizzazione di classe e nel conflitto sociale, con una composizione articolata e talvolta frammentata, qualche volta poco avvezza alle dinamiche CGIL, con una presenza diffusa anche se spesso limitata. DemocraziaeLavoro, nel quadro della sua storica collocazione nella sinistra sindacale CGIL, è particolarmente concentrata in alcune realtà (Milano, Bologna, Livorno, Sicilia, ecc) e si è confermata maggioranza in più strutture (come FILT Livorno, FLC Enna e Caltanisetta). Giornatedimarzo conferma invece la sua dimensione soprattutto emiliana (Modena, Reggio e parte di Bologna), con alcune proiezioni campane e nella FILT milanese, ma soprattutto il suo esser sostanzialmente la proiezione sindacale di un’organizzazione politica (SCR). Le due aree principali, in ogni caso, sono attraversate trasversalmente da prassi sindacali diverse nelle categorie e nei territori. Questo documento è quindi limitato nelle dimensioni, ma ancor più plurale e diversificato che nel passato. Nell’attuale vuoto strategico della CGIL, nella diversificazione delle sue prassi tra categorie e territori, nei solchi che sembrano emergere dalla maggioranza, ma soprattutto nella necessità di un rilancio di pratiche sindacali conflittuali si confermano allora le ragioni che hanno portato alla sua unità. Questa unità, infatti, non ha solo permesso di presentare un documento alternativo (le altre possibilità statutarie sono in realtà poco perseguibili, come abbiamo sperimentato nel 2006, al XV congresso, quanto tentammo la strada del documento dal basso e non ci riuscimmo, pur in presenza di reti di delegati/e e nuclei di attivisti ben più consistenti di oggi). Proprio la dinamica congressuale che ho prima delineato ha infatti evidenziato che senza questa unità non si sarebbe riusciti a reggere le prassi imposte da questa maggioranza. E questa esigenza non viene meno oggi. Nella CGIL, a fronte di una prassi che sempre più impone il pluralismo delle strutture a scapito di quello programmatico (anche con il rischio di un intervento sulle delibere che regolano le aree congressuali e programmatiche). Nelle dinamiche di classe, in cui si pone con sempre più urgenza la necessità di stimolare la ricomposizione di iniziative e pratiche, convergenze reali in una stagione che spesso le ha invocate, ma ha poi costruito percorsi paralleli di mobilitazione. In questo quadro, la tenuta del documento alternativo è una prima condizione per sviluppare il collegamento e il coordinamento tra realtà, territori ed esperienze diverse. Allora, oggi, diventa prioritario capire come concludere insieme questo percorso congressuale e quindi come riuscire a far vivere, dopo il congresso, un’esperienza collettiva nel quale possano convivere questi pluralismi e queste differenze, trovando forme di regolazione e nel contempo di piena espressione politica e sindacale.

Confermare l’impianto alternativo. Nel contempo, la CGIL è sempre più congelata, la classe lavoratrice sempre più divisa, il conflitto sociale e quello nei rapporti di produzione sempre più arretrato. L’obbiettivo oggi non è allora tanto quello di cambiare questa organizzazione [sempre ammesso che sia possibile farlo], ma quello di tenere aperta una sua impostazione plurale e trasformativa, non completamente schiacciata sulla sua dimensione burocratica, sulla semplice funzione di difesa della forza lavoro nel quadro di una logica di impresa. L’obbiettivo cioè è far vivere nel seno di un sindacato generale di massa, e soprattutto nei suoi interventi e nelle sue proiezioni nel lavoro, un’anima autonoma e indipendente della classe, quell’anticapitalismo che si sviluppa nel conflitto nei rapporti di produzione. Il documento costituisce un primo asse di ragionamento. Oggi abbiamo il compito di far vivere quell’impostazione oltre il congresso, nelle nostre prassi concrete: articolando e supportando questa impostazione in analisi e proposte sindacali (tenendo cioè viva una lettura di classe del conflitto nella produzione e nella società); spingendo ogni qual volta possibile lo sviluppo di dinamiche di resistenza e di lotta del lavoro; supportando la costruzione di esperienze autorganizzate e trasversali di lavoratori e lavoratrici, in grado di farsi carico democraticamente dell’iniziativa e della mobilitazione (comitati di lotta, coordinamenti, assemblee di delegati, come nella tradizione di ogni sinistra sindacale). In un contesto di arretramento e scomposizione, nello sbandamento strategico che oramai attraversa la CGIL, proprio questa ultima azione diventa sempre più fondamentale. L’impegno e l’azione collettiva dei compagni e delle compagne che abbiamo iniziato a eleggere negli organismi dirigenti, cioè, non è solo e per certi versi non è tanto quella di presentare in quegli organismi una propria posizione, quanto soprattutto quella di tenere aperti spazi di autonomia di classe nella CGIL, occasioni di sviluppo delle lotte e quindi della coscienza di massa, esperienze di autorganizzazione e larga attivazione di delegati/e, lavoratori e lavoratrici. Io non credo cioè che l’essere alternativo si concretizzi tanto, o solo, nel votare contro sempre e comunque: il punto nodale è la capacità di presentare e costruire una prassi sindacale capace di tessere un’alternativa all’anima inevitabilmente burocratica, moderata e aristocratica di un sindacato di massa. Così credo che dovremmo provare a fare nei passaggi successivi di questo congresso. Sapendo che, proprio nei congressi nazionali di categoria e in quello confederale, saranno sempre più evidenti le differenze sulle scelte di fondo, consapevoli che l’alternativa vive di coerenza e capacità di mantenere le proprie posizioni.

Il XIX congresso CGIL è allora oggi in mezzo al guado: ancora aperto nelle sue dinamiche e conclusioni, ma soprattutto nella declinazione concreta di una strategia oggi completamente ribaltata dalla realtà. Ai compagni e alle compagne delle Radici del Sindacato il compito difficile di attraversare questa strettoia, sapendo far vivere le proprie differenze e pluralità in un quadro unitario, ma anche e soprattutto confermando la propria alternativa e ritessendola nelle pratiche sindacali dei prossimi mesi.

Luca Scacchi

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