Assemblea a Firenze: Le radici del sindacato. La modernità delle lotte.

La relazione di Eliana Como e il documento approvato

Qui il documento approvato. Alla assemblea, nel corso della giornata, hanno partecipato circa un centinaio di compagni e compagne in presenza e altrettanti collegati online.

La relazione introduttiva di Eliana Como

Sono orgogliosa di aprire questa assemblea. Orgogliosa che abbiamo messo da parte i settarismi, che ci siamo fidati gli uni degli altre, orgogliosa anche che abbiamo deciso di non prendere le scorciatoie che mille volte ha percorso la politica, ma di percorrere la strada più lunga. Non abbiamo deciso di metterci insieme al tavolino di un bar, un minuto prima del Congresso. Non abbiamo deciso di fare solo una sommatoria di quello che già eravamo. Abbiamo scelto di costruire un percorso comune e di contaminarci, nelle piazze in cui siamo stati, nelle vertenze, nelle posizioni comuni che abbiamo costruito e sostenuto negli ultimi due anni. È questo che ci ha permesso di essere qui. Credo che tutti e tutte possiamo esserne orgogliosi. Con questo spirito ci ritroveremo in occasione del 9 maggio a Cinisi per l’anniversario della morte di Peppino Impastato. In fondo è da lì che è cominciato questo nostro percorso comune.
Da qui, invece, oggi, come RiconquistiamoTutto e Democrazia e Lavoro proponiamo un documento alternativo al prossimo Congresso della Cgil.
Mi auguro che questa sia la premessa non soltanto per fare un Congresso insieme ma per costruire una opposizione comune domani. E mi auguro che già da questa assemblea e poi, nelle prossime settimane, nelle discussioni che faremo nei territori e nelle categorie e poi ancora nel corso stesso del Congresso si possa allargare questo percorso ad altre aree e esperienze, a delegati e delegate, militanti, che non si riconoscono nella linea della attuale maggioranza.
A tutti e tutte chiediamo solo questo. Primo, di mettersi in gioco, con trasparenza, in un percorso di contaminazione e di avere cura di questo progetto che fin qui abbiamo costruito, lasciando fuori settarismi e opportunisti. Secondo, di condividere, con coerenza, il fatto che, se siamo qui, è perché vogliamo che all’interno della Cgil ci sia un punto di vista e una pratica sindacale radicalmente alternativa a quella della attuale maggioranza.

Il nostro comune denominatore è la convinzione che per affrontare le sfide della modernità e del futuro, bisogna guardare avanti, certo ma anche indietro. Avere l’intelligenza di capire i fenomeni, i cambiamenti organizzativi, le sfide della digitalizzazione, lo smartworking, la gig economy, lo sfruttamento 4.0. Non soltanto capirli, ma anticiparli se possibile.

Ma senza mai smettere di guardare alla nostra storia, alla nostra identità, alle radici del sindacato, cioè al suo ruolo antagonista, conflittuale e di classe. Anche sapendo, che mentre discutiamo di digitalizzazione e di futuro, quotidianamente affrontiamo le piaghe di uno sfruttamento che di moderno non ha proprio niente: la precarietà, lo sfruttamento nelle catene degli appalti, la cancellazione della clausola sociale nella legge delega, il mancato rispetto delle norme di sicurezza. E, soprattutto al Sud, la desertificazione produttiva, la mancanza di infrastrutture e di investimenti, l’emigrazione, il lavoro nero e il caporalato. In questo caso, per la verità, anche nelle ricche campagne del Nord, come ha recentemente svelato la recente condanna in Tribunale ai caporali di Salluzzo, di cui poi ci parleranno i compagni che ne sono stati protagonisti.


Tutto questo significa mettere radicalmente in discussione decenni:
– di responsabilità, di compatibilità, di rassegnazione al meno peggio, di accettazione dei vincoli imposti dalle leggi antisciopero e dai sistemi contrattuali;
– di concertazione a tutti i costi, di sottomissione alla politica, di introiezione della sconfitta, di rassegnazione alla precarietà, alle privatizzazioni, alle chiusure di interi settori produttivi;
– di verticalizzazione e di burocratizzazione dell’organizzazione, di enti bilaterali, di servizi, di patti sociali, di allontanamento dai movimenti sociali;
– di unità sindacale con i vertici di Cisl e Uil, fino ai deliri di sindacato unico che abbiamo sentito anche alla conferenza organizzativa.
Significa mettere in discussione quello che è avvenuto in questi ultimi anni:
– le lotte non fatte (come quelle 3 ore sulle pensioni nel 2011);
– le lotte solo annunciate (come quella sull’articolo 18 nel 2012, quando ci raccontarono che lo avremmo riconquistato nei contratti nazionali e raccogliendo le firme per la carta dei diritti);
– le lotte iniziate tardi, a giochi finiti, per dire che c’eravamo ma al tempo stesso alimentando il senso di sconfitta e di inutilità (come lo sciopero del 2014 contro il Jobs act);
– oppure, ancora, le lotte iniziate e poi mai continuate (come, ad oggi, l’ultimo sciopero del 16 dicembre).
Recuperare le nostre radici per noi significa letteralmente tornare a essere RADICALI.

Per questo abbiamo scelto di tenere questa assemblea a Firenze, testimone il 18 settembre e il 26 marzo e ogni giorno dal 9 luglio in qua di una vertenza esemplare, che ci ha ricordato che un collettivo di fabbrica può avere la meglio su un fondo finanziario internazionale. Ci hanno ricordato che radicalità non significa essere settari, ma al contrario costruire rapporti di forza su obiettivi concreti. E che il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici non è altra cosa da tutti gli altri movimenti che perseguono l’obiettivo di un mondo più giusto: la lotta di un collettivo di fabbrica, dopo decenni, è riuscita a tenere insieme, sotto quell’unica parola d’ordine #INSORGIAMO, il movimento dei lavoratori, il movimento antifascista, il movimento ambientalista, il movimento studentesco, il movimento femminista, il movimento per la pace.
Se qualcuno pensa che sia sufficiente fare un articolo 28 per piegare un fondo finanziario si sbaglia. L’articolo 28, come ogni scelta vertenziale, legale, sindacale è necessaria. Ma quello che fino ad ora ha impedito i licenziamenti in GKN e la chiusura della fabbrica è l’occupazione, la lotta e la straordinaria capacità di creare intorno ad essa non soltanto solidarietà ma convergenza, dicendo a tutti fin dall’inizio non lottate soltanto per noi, lottate soprattutto per voi, il problema non è salvare GKN ma finalmente bloccare il meccanismo, le delocalizzazioni, i licenziamenti, le catene degli appalti, la precarietà, l’ipersfruttamento. Per questo credo che disertare la manifestazione di Firenze sia stata una scelta profondamente sbagliata dei vertici della Cgil e in particolare della Fiom (fa eccezione positiva la Flc). Una vertenza sindacale si appoggia nelle piazze tanto quanto in tribunale e sui tavoli di trattativa.
Ho detto quello che ha fino ad ora impedito i licenziamenti, perché deve essere chiaro a tutti che la vertenza di GKN non è finita, gli operai avranno vinto quando saranno rientrati in fabbrica a lavorare, accontentarsi delle promesse e dei blablabla è un’altra di quelle cose che dobbiamo imparare a rifiutare.


La manifestazione di Firenze ha avuto anche il merito di restituire piazza Santa Croce alla pace, dopo essere stata, suo malgrado, il luogo da cui Zelenskji ha invocato la no-fly zone sull’Ucraina.
Spesso in questi mesi abbiamo detto che il potere ci ruba le parole. In questo momento, ci ruba soprattutto la parola pace. Dicono pace ma intendono guerra, invio di armi e aumento delle spese militari. Infatti, da qualche giorno non dicono più di voler fermare la guerra, ma di voler vincere la guerra.
Non perderò tempo a rassicurare nessuno sul fatto che considero Putin un dittatore e l’aggressione militare all’Ucraina un atto criminale. Lo considero un dato di fatto, esplicito, che non ha ombra di dubbio. Casomai vorrei che si giustificassero quelli che fino a ieri lo acclamavano o piuttosto quelli che in Europa da anni fanno finta di non vedere il regime nazionalista autoritario e sessista di Erdogan, quelli che hanno girato la testa dall’altra parte quando ha invaso il nord della Siria e ogni volta che in questi anni ha usato violenza e repressione contro il popolo curdo.
Si giustifichino quelli che dimenticano la guerra in Yemen o la repressione del popolo palestinese. Si giustifichino quelli che appoggiano Orban e il governo polacco. Quelli che oggi aprono le braccia giustamente alle profughe ucraine ma se ne fregano di chi muore nel Mediterraneo e non hanno mosso un dito quando quest’inverno la Polonia (dentro l’UE) ha respinto con gli idranti i profughi di Siria e Afganistan.
Essere contro la guerra significa per me schierarsi contro l’aggressione di Putin, ma anche impedire quella spirale interventista dei governi europei, bloccare le mire espansionistiche della Nato, manifestare contro l’invio di armi e l’aumento della spesa militare. E anche contro una propaganda infernale che purtroppo non serve a salvare il popolo ucraino ma a gettarlo ancora di più in questa spirale di distruzione.
Non sono contraria per principio ad armare una resistenza. Tra un po’ sarà il 25 aprile. Gli attacchi all’ANPI di questi giorni sono stati offensivi, volgari, inaccettabili. Esprimo a nome di tutte e tutti la nostra solidarietà e, come per tante e tanti di noi, l’orgoglio di essere iscritta all’Anpi. La resistenza è un valore imprescindibile per tutti noi. E vorrei che in questi decenni avessimo aiutato la resistenza palestinese o curda. Non permettiamo a nessuno di inquinare il 25 aprile e torcerlo a logiche guerrafondaie. Inviare oggi armi al governo di Kiev, con le sue derive nazionaliste interne, è una follia e non c’entra niente con il nostro 25 aprile. È una follia destinata a trascinare l’intero continente in una guerra infernale, che come tutte le guerre non sarà pagata dai capi di stato, dagli oligarchi o dagli industriali, comunque vengano chiamati.
Come tutte le guerre, la pagheranno le popolazioni, le donne, i bambini, le classi subalterne, i lavoratori e le lavoratrici. In Ucraina, sotto le bombe. In Russia per effetto delle sanzioni. E in questo paese come negli altri d’Europa per l’aumento del gas e dei prezzi, per la mancanza di materie prime e componentistica che a breve rischia di fermare interi settori produttivi.
A questo serve la propaganda. Quando Draghi dice suvvia, fate a meno dell’aria condizionata, dice una cosa surreale e offensiva, ma precisa. Ci dice che dobbiamo fare sacrifici in nome della pace (dice pace, ma intende guerra) e i sacrifici non saranno l’aria condizionata (che la maggior parte di noi l’aria condizionata non ce l’ha. Si faccia un giro in fabbrica quest’estate e poi ne riparliamo). Tant’è che prima ha detto di spegnere i condizionatori, poi di bloccare i salari. È questo il sacrificio che ci chiede. La Cgil dovrebbe rispondere che non soltanto non se ne parla, ma soprattutto che è da 30 anni che in questo paese c’è la moderazione salariale. L’Italia è l’unico paese in Europa in cui i salari non sono aumentati rispetto all’inflazione.
Il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici deve mobilitarsi in Italia e in tutta Europa, fino allo sciopero generale, per dire no alla guerra, no all’aumento delle spese militari, no a ogni nazionalismo, no a questa spirale guerrafondaia che sacrifica l’Ucraina e costringe la popolazione a fuggire. Una spirale in cui loro si arricchiscono, noi ci impoveriamo. Mentre in Ucraina si muore.


Per questo le ragioni dello sciopero del 16 dicembre sono oggi ancora più urgenti. Le risorse del DEF per la crisi sono briciole e gridano ancora di più vendetta di fronte della decisione scellerata di aumentare la spesa militare.
Decidere finalmente come dare continuità allo sciopero è oggi ancora più necessario. Se non altro perché la promessa del tavolo sulle pensioni è totalmente naufragata, come, a dir la verità, avevamo ampiamente previsto. E stavolta non c’è nemmeno l’alibi del metodo. Se qualcuno dei nostri vertici spera ancora nella concertazione, si rassegni. Questo governo non ha bisogno dei sindacati. Lo dimostra l’incontro a cui ha invitato Cgil, Cisl e Uil il 7 aprile: a DEF già approvato, siamo stati chiamati a prendere atto di decisioni già prese, compreso un niente di fatto sulle pensioni, la riduzione della spesa per la scuola e la vera e propria provocazione di condizionare gli aumenti per i contratti del settore pubblico alla riduzione della spesa sociale. Vuoi l’aumento? Bene, rinuncia allo stato sociale, perché le risorse vanno alla guerra.
La risposta della Cgil non può essere soltanto quella decisa al direttivo nazionale di ieri, cioè assemblee dei delegati e delle delegati nelle piazze con le associazioni e i sindaci. Così, davvero, non ci capisce nessuno. Diciamo con chiarezza: caro Draghi, falli tu i sacrifici. Spegni tu l’aria condizionata. Taglia il tuo reddito e quelli dei ricchi, delle rendite, del mercato finanziario. Tassiamo Eni e Enel che si stanno arricchendo sull’aumento dell’energia. Mobilitiamoci contro un Governo che aumenta le spese militari e riduce quelle per la scuola e lo stato sociale.
Se non lo facciamo, rischiamo di regalare alla destra e all’odio sociale, proprio prima delle elezioni, quei bisogni che invece noi dovremmo rappresentare.


E mobilitiamoci contro CONFINDUSTRIA, altro che patto sociale. La Cgil lanci una campagna salariale vera, a partire dai rinnovi contrattuali pubblici e privati. Strappiamo il patto per la fabbrica e l’IPCA.
Per anni, le nostre richieste salariali sono andate in direzione di agevolazioni fiscali o peggio di sostituzione di parti salariali con istituti detassati, sanità e welfare contrattuale prima di tutto.
Riscoprire le radici del sindacato significa anche riappropriarsi di una politica salariale rivendicativa. Non può funzionare un modello in cui i contratti nazionali non aumentano i minimi (con l’IPCA, non recuperi nemmeno l’inflazione), mentre si demanda alla contrattazione aziendale il compito di redistribuire la ricchezza. Contrattazione di secondo livello che è perlopiù legata a indicatori variabili e peraltro meno diffusa al sud e quasi assente nei settori più femminilizzati, con l’effetto di aumentare i differenziali salariali complessivi, sia territoriali che di genere.
L’aumento dei salari passa dalla riconquista del contratto nazionale e dalle rivendicazioni salariali e non dalla detassazione, che è la strada che principalmente il sindacato ha seguito in questi anni. La detassazione è una illusione, perché significa meno stato sociale e così siamo sempre noi a pagare, peraltro favorendo spesso ampie fasce di evasione fiscale. Gli aumenti pretendiamoli invece dalle imprese. Dal fisco, pretendiamo che si tassino i patrimoni finalmente, una vera lotta all’evasione e all’elusione fiscale, la riduzione appunto delle spese militari.
Per pretendere gli aumenti nel privato bisogna mettere in discussione i vincoli del patto per la fabbrica e cancellare l’IPCA. Probabilmente è anche ora di introdurre un meccanismo di salario minimo, legato alla contrattazione nazionale e al tempo stesso eliminare la piaga degli appalti e dei subappalti, dei contratti pirata e del dumping contrattuale. Anche quando siamo noi stessi a farlo, con la leva di contratti come il multiservizio, per esempio.
In ogni caso, qualunque sia lo strumento, la strada da percorrere non può che passare dalla mobilitazione e dalla riconquista di un ruolo antagonista e di lotta del sindacato. Senza questo, non c’è salario minimo né contratto che tenga. Contratti firmati senza un minuto di sciopero non sono credibili.
Al tempo stesso, non è accettabile che, come è successo in questi anni, le risorse si prendano bloccando la rivalutazione dei pensionati e delle pensionate. Una politica rivendicativa e conflittuale non è guerra tra poveri: le risorse non si prendono da questo o quel settore della nostra classe ma da chi invece le ha.
Altrettanto vale per il settore pubblico: dire se vuoi l’aumento, taglio la spesa sociale, mentre stai spendendo 15 miliardi per la Nato è una provocazione e sfiora l’insulto.
Non soltanto. Io detesto che in una fabbrica metalmeccanica i premi di risultato siano basati su quanti pezzi hai fatto. Ma ancora di più detesto che la misura della produttività venga usata nei settori pubblici e in tutti quei settori che non producono pezzi, ma cura, conoscenza, giustizia, bellezza. Questo è ancora più inaccettabile. Il primo errore che la Cgil ha fatto con il governo Draghi è aver firmato con Brunetta, un anno fa, il Patto per l’innovazione del settore pubblico. Insieme al Patto per la Fabbrica, mettiamo in discussione anche quello.


A proposito dello stato sociale, due anni fa, quando è scoppiata la pandemia, tutti si sono accorti improvvisamente che anche nel ricco nord la sanità pubblica non era in grado di reggere l’urto di una emergenza. Per anni, politiche di privatizzazione, regionalizzazione, aziendalizzazione avevano dirottato risorse alla sanità privata. E mentre si blaterava di autonomia differenziata, ci siamo accorti che persino in Lombardia la sanità pubblica, che fino a quel momento generazioni di politici leghisti avevano sbandierato come una eccellenza, alimentando fratture e disuguaglianze nel paese, ci siamo accorti che crollava, come un gigante dai piedi di argilla, sotto il peso di una pandemia mondiale. Non dimenticherò mai quella primavera del 2020. Non avevamo i medici di base, non avevamo le terapie intensive, il personale sanitario era solo di fronte al Covid, letteralmente a mani nude. All’ospedale di Bergamo anche le mascherine erano un lusso in quelle settimane.
Improvvisamente tutti hanno anche scoperto che le nostre scuole non hanno né spazi né personale. Ci siamo accorti che il trasporto pubblico locale era a pezzi. Abbiamo scoperto che interi settori di lavoro, soprattutto quelli legati a servizi, alla cura, all’assistenza agli anziani, il turismo, l’arte e lo spettacolo stavano strutturalmente in piedi su dosi massicce di precarietà.
L’emergenza sanitaria avrebbe potuto essere uno straordinario spartiacque. Quello dopo il quale tutti sapevano quanto essenziale è il lavoro di cura, soprattutto quello delle donne, negli ospedali, nelle RSA, nella grande distribuzione commerciale. Quello dopo il quale la difesa della sanità pubblica sarebbe stato il primo degli obiettivi. Lo spartiacque dopo il quale non più un euro sarebbe andato ai privati o alla sanità integrativa.
E invece tutta la gestione della pandemia è stata ispirata da una unica filosofia: è il profitto ad essere essenziale e sul suo altare è sacrificato ogni istante delle nostre vite.
Dico con franchezza che non condivido la scelta di chi non si è vaccinato. La considero una scelta individualista e egoista. Ma credo anche che fin dall’inizio le decisioni assunte dai governi in tema di sicurezza sanitaria siano state approssimative e contraddittorie. Per questo, mentre sostengo la necessità di vaccinarsi come scelta solidale e responsabile, non ci sto a criminalizzare chi, secondo me sbagliando, ha deciso di non vaccinarsi. Con il GP si è giocata una partita brutta, anche dal punto di vista normativo, consentendo di derogare ai capisaldi del diritto del lavoro. È stato un errore. Ripeto, non ho nessuna simpatia per chi non si vaccina. E ho profonda rabbia ogni volta che qualcuno imbratta le nostre sedi con scritte novax. Ma vedo anche che aver creato una frattura così profonda nei posti di lavoro, un odio quasi da guerra di religione sul vaccino è servito prima di tutto al potere. Forse per far dimenticare le colpe vere. I camion che portavano via i morti da Bergamo perché il nostro cimitero non poteva più accoglierli non sono erano il frutto di una tragedia imprevedibile e incontrollabile. Erano anche il frutto di scelte sbagliate, a partire dai tagli alla sanità pubblica fino alla scelta criminale di aprire le RSA ai malati di Covid e il #bergamoisrunning con la conseguente e scellerata decisione di non fare mai una vera zona rossa in Val Seriana.
Noi questo non lo dimentichiamo. Loro lo hanno già fatto. Aumentare per la Nato al 2% significa sottrarle, di nuovo, al sistema pubblico, alla sanità, alla sicurezza, alle pensioni, al contrasto alla povertà, alla scuola, alla lotta contro la violenza contro le donne, al contrasto alla sicurezza sul lavoro.


Tre morti al giorno sui posti di lavoro non sono tollerabili. Dopo l’omicidio di Luana in quella fabbrica tessile, poco lontana da dove siamo oggi, si parlo finalmente di sciopero generale sulla sicurezza. La Cgil disse in un documento della Assemblea Generale che lo avrebbe fatto anche da sola, se Cisl e Uil non ci fossero state. Stiamo ancora aspettando.
Tra poco sarà di nuovo il Primo Maggio e di nuovo non sarà cambiato niente. La Cgil deve promuovere una mobilitazione vera e radicale sulla sicurezza, pretendere risorse per i servizi ispettivi, pretendere che aumentino i controlli e le pene, costituirsi ovunque parte civile in caso di omicidi, battersi per ridurre il livello di precarietà e di ricatto, sostenere chiunque abbia il coraggio di denunciare, a partire dagli rls, ricordare ovunque può che non sono mai incidenti. Ci sono sempre dei responsabili. Il primo responsabile è di nuovo il profitto a tutti i costi. Ho detto ieri al direttivo nazionale che sono contenta che il Primo Maggio si faccia ad Assisi e sia dedicato alla pace, ma vorrei tanto che il Concertone parlasse di sicurezza sul lavoro e non perché, come l’anno scorso, lasciamo che sia Fedez a dirlo. Vorrei vedere su quel palco, i lavoratori e le lavoratrici precarie, quelli degli appalti, i familiari delle vittime, gli ispettori e le ispettrici del lavoro che nei giorni scorsi hanno scioperato per i loro diritti e per la sicurezza di tutte e tutti.


Hanno fatto bene gli studenti e le studentesse a ribellarsi all’alternanza scuola-lavoro. Sono scesi in piazza per i loro coetanei morti sul lavoro, rivendicando sicurezza e una idea diversa di scuola. Anche qui, sull’uso delle parole: il potere dice scuola, ma intende imparare un mestiere. Questi giovani dicono scuola e intendono giustamente crescita, conoscenza, capacità critica, futuro. Siamo stati in piazza con loro. Vedere tanti giovani e giovanissime in piazza, convinti e determinati, pieni di carica e – finalmente – pieni di fiducia è stata una delle cose più belle di questi ultimi anni. Anche in questo caso, i vertici della Cgil hanno perso una grande occasione per costruire una vera e diffusa convergenza con il movimento. La Cgil avrebbe dovuto essere in massa in piazza con loro, anche per impedire alle forze dell’ordine l’uso sconsiderato e violento dei manganelli contro ragazzi e ragazze giovanissime.
Anche la crisi climatica e ambientale ha dei responsabili. Di nuovo il maggior indiziato è il profitto. E anche in questo caso, ci rubano le parole. Usano miliardi di miliardi di risorse pubbliche, a debito, anche in questo caso distolte da altre spese, per la transizione energetica delle imprese. Parlano di futuro, di ambiente, di sostenibilità, dicono di voler salvare il pianeta. Ma un minuto dopo, si imbarcano in quella che potrebbe diventare la terza guerra mondiale, cioè la cosa più inquinante al mondo, parlano di energia rinnovabile, ma in caso di emergenza va bene anche il fracking o le centrali a carbone, nel frattempo provano a convincerci che tutto sommato sarebbe meglio riprendere a trivellare il Mediterraneo o costruire nuove centrali nucleari. Io non credo di avere competenze a sufficienza su questo, sicuramente i nostri compagni e compagne della Filctem ne hanno molta più di me. Ma sento, a pelle, che i ragazzi e le ragazze di FFF hanno molte più ragioni di tutti i loro blablabla e soprattutto hanno molta più ragione di chi oggi si sta arricchendo sulla crisi energetica determinata dalla speculazione finanziaria successiva alla guerra.


Tutte queste ragioni e altre che qui non riesco a dire possono diventare le basi di una analisi e di un punto di vista comune, che troverà vita in un documento alternativo a quello della maggioranza nel prossimo Congresso. Chiediamo a questa assemblea di darci il mandato di scrivere il documento, che affronti questi temi, confrontandosi con la necessaria e opportuna capacità di sintesi.
Sapendo che, aldilà di quello che scriviamo in un documento, che non sarà mai abbastanza, perché mancherà sempre qualcosa e ci sarà sempre qualcuno che fa il più uno, c’è una cosa che dobbiamo far uscire da qui: noi proponiamo nella pratica, una posizione alternativa a quella della maggioranza della Cgil. La proponiamo nei fatti, non soltanto nelle analisi, nelle parole o nei punti e virgola, su cui è anche inutile stare a discutere per ore. La differenza la facciamo in quello che siamo in grado di costruire, come quando nella primavera del 2020 riuscimmo a far chiudere tante fabbriche a suon di scioperi, iniziati spontaneamente e soltanto dopo inseguiti dalla sola Fiom. E se oggi siamo qui è perché crediamo in questo modo di fare sindacato, che, non solo a proclami ma nei fatti, è quello che si pratica alla GKN.

Se siamo qui è perché vogliamo riappropriarci delle radici del nostro sindacato. Questo significa riappropriarci di un sindacato che dia davvero centralità ai delegati, che consideri il dissenso un elemento naturale della discussione, valorizzandolo invece che offendendolo. Che consideri il voto e la partecipazione democratica il momento più alto della nostra vita. Imporre attraverso logiche di obbedienza e fedeltà una linea è segno di debolezza, non di forza. Così come è stato un segno di debolezza del segretario generale rimettere in votazione ieri la scheda 6 al direttivo nazionale, dopo che era stata bocciata. Il gruppo dirigente ha imposto ai delegati, senza che mai se ne fosse discusso all’interno della conferenza organizzativa, il vincolo di mandato, sostenendo che le ragioni dell’organizzazione sono superiori a quelle che legano i delegati ai lavoratori e alle lavoratrici che li hanno eletti e svilendo un principio fondamentale del nostro Statuto, cioè la piena legittimità del dissenso. E lo fanno in modo surreale, ripetendo il voto fino a che quel voto non dà loro ragione.


Anche per questo la nostra decisione, non facile, di affrontare un Congresso con una posizione alternativa è necessaria. Non è facile, tanto più per i tempi imposti a questo Congresso, come abbiamo contestato ieri al Direttivo nazionale, che rischiano di costringere la partecipazione democratica, proprio delle assemblee di base, proprio ora che invece bisognerebbe allargarla, anche per le necessarie cautele imposte dal Covid. Non è facile perché non avremo dietro le spalle nessun centro regolatore, nessun segretario, nessuna struttura. Saremo soltanto noi e la strada sarà tutta in salita.
Ma un albero non si cura dalle foglie, si cura dalle radici. Altrettanto un sindacato non si cura e non si autoriforma dal vertice ma soltanto dalla sua base. Abbiamo la responsabilità di provarci.

Se ribaltate l’immagine di questa assemblea, se lo capovolgete, i rami secchi diventano le radici e l’albero fiorisce. La nostra ricchezza è nelle radici, nell’essere radicali. È da qui che proveremo a far sbocciare un fiore.

Eliana Como

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