Green pass e vaccinazioni: alcune riflessioni sindacali.

a cura di Luca Scacchi [Cd CGIL; Università della Valle d’Aosta] e Delia Fratucelli [Cd SLC, RSU Posteitaliane Torino].

QUI IL TESTO IN PDF.

Con questo contributo, rielaborazione della relazione ad una riunione seminariale di RT del Piemonte, vorremmo contribuire ad un dibattito sulle conseguenze della scelta di adottare il green pass per l’accesso al lavoro [prima nella scuola e nell’università, con il DL 111/21 del 6 agosto e il suo necessario completamento con il DL 122/21 del 10 settembre; poi con l’estensione di questa norma all’insieme di lavoratori e lavoratrici, con il DL 127/21 del 21 settembre 2021].

Sappiamo bene che la questione generale di come tutelarsi dall’attuale pandemia covid19, le questioni della vaccinazione di massa e dell’uso del Green Pass, hanno aperto un’accesa discussione nella popolazione, tra lavoratori e lavoratrici, nella sinistra, in tutto il sindacato (compreso quello conflittuale e di base) ed anche tra noi. E’ una discussione in primo luogo di carattere sanitario e di carattere politico, in cui come Area sindacale abbiamo anche espresso delle valutazioni generali [ad esempio, con l’intervento in direttivo CGIL o con un comunicato in FLC]: l’utilità e la necessità di una vaccinazione di massa [non solo in questo paese, ma nel mondo, quindi con la necessità di render i vaccini disponibili e gratuiti per tutti/e i paesi e non solo l’Italia]; l’importanza che il sindacato si impegni in prima persona per convincere le persone a vaccinarsi [con assemblee e campagne]; la consapevolezza che sono governo e Parlamento, anche per la nostra Costituzione, che devono valutare e decidere l’introduzione di eventuali obblighi vaccinali; la positività della scelta del Green Pass per accedere a locali ed eventi pubblici [come strumento di sicurezza in luoghi affollati e spinta alla vaccinazione, pur non essendo proprio per le sue caratteristiche intrinseche una spinta gentile, dal momento che introduce divieti e opzioni costose]; l’errore politico ad imporlo per accedere al lavoro e a servizi universali [per di più, allentando nel contempo altre misure di sicurezza, come il metro di distanza nelle scuole o i tassi di affollamento sui traporti, portati ovunque dal 50 all’80%, compresi i Frecciarossa].

L’intento particolare di questo contributo, però, è quello di esaminare alcuni aspetti sindacali di questa vicenda, cioè relativi ai rapporti di lavoro, alla difesa dei diritti di lavoratori e lavoratrici, alle condizioni normative e contrattuali che li riguardano. Per noi è infatti chiaro che, qualunque sia la posizione sui vaccini, è importante tenere presente la diversità dei differenti strumenti che sono stati utilizzati (o che potrebbero esserlo), ognuno dei quali ha differenti profili, specifiche articolazioni e determinate conseguenze anche sul fronte delle relazioni di classe: l’eventuale obbligo vaccinale generalizzato all’intera popolazione; l’obbligo vaccinale settoriale su alcuni settori, come i lavoratori e le lavoratrici della sanità; il green pass per accedere a bar, musei, cinema, teatri, concerti e luoghi pubblici; il Green Pass per accedere a specifici contesti di lavoro [scuola, università, servizi pubblici] o per fruire di servizi universali essenziali [come l’istruzione universitaria in presenza o i traporti]; il Green Pass generalizzato per l’accesso a tutti i luoghi di lavoro. Le scelte assunte dal governo in alcuni Decreti Legge e in queste settimane ratificate dal Parlamento, infatti, incidono in modo particolare proprio sulle condizioni di lavoro [limitazioni o condizioni di accesso, sanzioni, mansioni, salario diretto e indiretto, ecc]. Per questo, secondo noi, è utile sviluppare non solo un posizionamento generale, ma anche approfondire una riflessione specifica su come queste scelte sono state articolate. Un approfondimento che può esser utile, o persino necessario, per arrivare a definire risposte appropriate alle questioni che concretamente si pongono nelle aziende e nei posti di lavoro, da parte di colleghi/e, iscritti, delegati/e e anche strutture sindacali.

È importante partire da una piccola premessa: forse per molti sarà scontato, ma noi viviamo nel quadro di un modo di produzione capitalista, che in-forma non solo la grande maggioranza dei rapporti di lavoro, ma anche più in generale le strutture sociali, gli apparati dello Stato e le normative vigenti. Il capitalismo usa da sempre tutti i mezzi a disposizione per modificare i rapporti di forza tra le classi e portarli ulteriormente a suo favore, cercando di aumentare il controllo sul lavoro e quindi lo sfruttamento della forza lavoro. Usa cioè a questo scopo anche l’organizzazione della produzione [la divisione tecnica del lavoro e il suo coordinamento], le identità collettive che caratterizzano il vivere sociale [genere, età, lingua, cultura], i processi di ridefinizione e ristrutturazione sospinti dai cicli economici [innovazioni tecnologiche, delocalizzazioni, distruzioni creatici con crisi e chiusure aziendali]. Usa, talvolta con modalità innovative e sperimentali, anche le occasioni che gli eventi gli mettono a disposizione: nella nostra situazione le norme che le autorità pubbliche hanno assunto e stanno assumendo per il contrasto a questa pandemia/sindemia da covid19 [dallo smartworking sui generis che abbiamo conosciuto durante i lockdown ad, appunto, il green pass]. Da questo punto di vista, ogni provvedimento che viene assunto, anche importante se non necessario [come, ad esempio, il lavoro agile generalizzato che abbiamo conosciuto dal marzo 2020], deve esser riletto in questa luce, monitorato nella sua applicazione ed eventualmente contrastato nel suo uso capitalista [in alcuni suoi punti specifici o in generale, a seconda della sua concreta applicazione].

La controparte, cioè, che controlla l’organizzazione del lavoro, non ha remora a sfruttare anche i contrasti d’interesse, valoriali e ideologici nella classe. Certo, differenze sulle strategie, i regimi di accumulazione, gli interessi e le ideologie di riferimento esistono anche nelle classi dominanti. È emerso con evidenza proprio nei mesi precedenti alla pandemia, quando l’offensiva contrattuale lanciata da Bonomi e Confindustria si è incagliata nelle divisioni padronali, portando alla scelta di alcune multinazionali e grandi aziende dell’alimentare di firmare un contratto separato con le organizzazioni sindacali. Le classi dominanti, però, proprio gestendo il potere ed i suoi apparati, hanno spesso la possibilità di comporre i propri diversi punti di vista. I contrasti, le lacerazioni, i risentimenti sono invece comuni nelle file di chi non ha il potere, particolarmente in questa fase storica, caratterizzata da decenni di arretramenti economici e sociali. La cifra di quest’ultimo decennio è stata infatti proprio quella della divisione del lavoro, con una frammentazione delle resistenze tra diverse composizioni di classe e differenti cicli di lotta. Ogni realtà ed ogni settore, ogni stabilimento ed ogni condizione (di carattere contrattuale o professionale), è cioè spesso diventata un perimetro all’azione collettiva, occasione di rivendicazione della propria specificità e talvolta persino di definizione di una propria particolare identità sociale.

In questo quadro, sono inevitabili i timori di discussioni o scelte divisive tra le nostre fila. Come abbiamo visto negli ultimi due mesi, le spaccature sulla questione dei vaccini hanno visto proprio tra lavoratori e lavoratrici prodursi dialettiche aspre ed acute, nelle discussioni informali come nelle assemblee sindacali, divise talvolta da dinamiche polarizzanti. Un confronto in cui spesso, più che il merito della questione [la valutazione sulle migliori risposte all’emergenza sanitaria, l’attenzione collettiva rispetto alle propensioni padronali], sono sembrate prevalere retoriche ideologiche e semplici appartenenze di campo [novax o ultravax]. La capacità di una direzione sindacale, nei prossimi mesi e anni, si misurerà proprio nella comprensione dell’intreccio tra vecchi e nuovi strumenti di oppressione, nella capacità di affrontare la scomposizione della classe, nel saper proporre parole d’ordine, rivendicazioni, piattaforme al contempo ricompositive, coerenti, radicali e credibili. Nella consapevolezza che i rapporti di forza non ci sono favorevoli, che non esistono oggi nuclei centrali della classe e gerarchie tra le lotte, solo concatenazioni tra diverse esperienze. Ci sembra quindi utile approfondire le scelte che il governo ha articolato sul green pass, che riguardano in ogni caso la quasi totalità dei lavoratori dipendenti, anche per poi elaborare le necessarie strategie difensive.

Il covid e la sua classificazione. Il covid19, acronimo dell’inglese COronaVIrus Disease 19, è una malattia respiratoria acuta prodotta dal virus SARS-CoV-2 [un coronavirus, a base di RNA e tra i più grandi in grado di sviluppare malattie nell’uomo, di cui sono conosciuti ad oggi 7 ceppi principali]. Per il suo rischio biologico, secondo il Titolo X del D.Lgs. 81/08 [il Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro o TUSL] è classificato come patogeno del gruppo 3: cioè, in una scala che va da 1 [scarse probabilità di causare malattie nell’uomo, come l’Escherichia coli] a 4 [agenti che possono produrre gravi malattie, propagarsi nella comunità e senza efficaci misure profilattiche o terapeutiche, come l’Ebola], è inserito in un livello di rischio che comprende microrganismi patogeni che possono causare malattie nell’uomo e costituire un serio rischio per i lavoratori; possono propagarsi nella comunità ma, di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche [come Tubercolosis e Y. Pestis].

Infortunio sul lavoro. Le infezioni da Covid-19, se avvenute nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, sono tutelate a tutti gli effetti come infortuni sul lavoro e possono quindi accedere alla relativa denuncia [art 42 DL n.18 del 17 marzo 2020, circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020]. Cioè, secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie (come appunto il Covid-19, ma anche ad esempio l’Aids, la tubercolosi, il tetano, la malaria, le epatiti virali), l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. Per il personale sociosanitario, in genere, la tutela è automatica [stante le caratteristiche generali della loro attività], mentre per le altre categorie di dipendenti è presente una valutazione specifica in cui sono considerate in particolare mansioni front-office [cioè prestazioni svolte in ambienti dove è evidente il rischio di contagio per contatti con il pubblico], mentre negli altri casi spesso prevalgono valutazioni più escludenti.

Alcuni dati. A giugno 2021 l’INAIL ha fornito questi dati: 177.000 denunce accolte (che non sono quindi i casi accertati di covid19 tra i lavoratori dipendenti, ma quelli che sono risultati riconoscibili come contagi avvenuti nel posto di lavoro), di cui il 69% presentate da donne, con un’età media di 46 anni [gli italiani sono l’86% del totale]. Di queste 177mila denunce, il 97% riguarda lavoratori dell’industria e dei servizi, 2800 il personale scolastico, 1600 le poste. Il personale sanitario è passato dall’80% del totale nel primo anno di pandemia al 50% degli ultimi mesi. Una diminuzione probabilmente dovuta all’effetto combinato dei vaccini e dall’uso di DPI maggiormente adeguati. Le denunce accolte con esito mortale sono state 682, con età media dei decessi di 59 anni. Non abbiamo ancora trovato dati sulla durata media dell’infortunio e su quante richieste sono pervenute in relazione al cosiddetto long covid [manifestazioni di sintomatologie cliniche che persistono nel tempo, anche per molti mesi].

Un primo elemento: infortunio o malattia? A partire da questi dati, si può aprire una nostra prima riflessione sindacale. E’ importante che i casi di covid19 tra i lavoratori e le lavoratrici siano denunciati come infortuni? Non è una questione tecnica o una domanda retorica, perché la denuncia come infortunio o malattia apre scenari abbastanza diversi.

La malattia, nei vari contratti e nelle normative, offre di solito meno garanzie. Ad esempio, nel pubblico impiego l’art. 71 del Decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 [la cosiddetta Brunetta, convertita con la Legge 133/2008] prevede che nei primi 10 giorni di assenza dal lavoro per malattia, lo stipendio sia privato di ogni indennità o emolumento e di ogni altro trattamento economico accessorio. Le uniche assenze in cui non si applica la decurtazione sono quelle per gli infortuni sul lavoro, il ricovero ospedaliero, quelle dovute a gravi patologie che richiedono terapie salvavita. L’art.19 del Decreto Legge 2 marzo 2020, n. 9 prevede però che il periodo trascorso in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, dai dipendenti delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 [tutte le amministrazioni pubbliche], dovuta al COVID-19, è equiparato al periodo di ricovero ospedaliero. Di conseguenza non viene applicata la decurtazione. Però è utile considerare anche il periodo di comporto [cioè, il massimo numero di giorni di assenza per malattia di cui si può usufruire, senza che questa diventi causa legittima di licenziamento]. Secondo quanto in genere previsto in tutti i CCNL, e comunque ribadito dalla Sentenza 28 del 2021 della Corte Costituzionale, sono esentati da questo periodo i 30 gg. di congedo per cure per invalidi ex art. 7, D.Lgs. n. 119/2011 e tutte le assenze dovute ad infortuni sul lavoro, da “malattie determinate da gravidanza” (INAIL, circolari n. 48/1993 e n. 51/2001), da gravi patologie che richiedono terapie salvavita. Quindi, ad esempio, sono esclusi dai periodo di comporto i ricoveri ospedalieri per covid19, ma non la semplice degenza a casa per la stessa malattia. I lavoratori e le lavoratrici del pubblico impiego, però, per il succitato art. 19 del DL n° 9 del 2 marzo 2020, non computano nel periodo i loro giorni di malattia covid19 (essendo appunto equiparati a ricovero ospedaliero per covid19]. Per i lavoratori e le lavoratrici del settore privato la situazione è invece differente, non essendoci alcuna disposizione che lo preveda [colpisce quindi questa evidente divisione e discriminazione tra lavoratori e lavoratrici!]. Le uniche eccezioni, che valgono per tutti/e, sono le due previste all’articolo 26, comma 1 del DL 18 del 17 marzo 2020: il periodo trascorso in quarantena o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva [assenza paragonata a ricovero ospedaliero covid19, anche se non si è malati ma solo isolati in casa per evitare il contagio]; l’assenza dei lavoratori immunodepressi affetti da patologie oncologiche o da disabilità ex L. 104/1992, dal 17.03.2021.

L’infortunio nei vari contratti ha invece sempre caratteristiche di maggior garanzia, e questo ha salvato il posto di lavoro a molti. In questo quadro, la configurazione del contagio da covid19 nei luoghi di lavoro è quindi preferibile, e giustamente in molte realtà si è cercato di sottolineare il rischio covid19 non solo in relazione a specifiche mansioni o professioni, ma più in generale in relazione alle condizioni di qualunque lavoratore o lavoratrice. Tale interpretazione (sebbene spesso si sia scontrata con le prassi restrittive dell’Inail, a cui prima abbiamo fatto riferimento), si basa sostanzialmente sull’art. 12 del D.lgs. n.38 del 23 febbraio 2000, che inserisce tra gli infortuni sul lavoro anche i cosiddetti infortuni in itinere, cioè quelli si verificano lungo “il normale percorso” che il lavoratore o la lavoratrice compie spostandosi dalla sua abitazione al lavoro e viceversa, da un primo luogo di lavoro ad un altro qualora sia impegnato in diversi rapporti lavorativi;, dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti e viceversa, qualora non sia presente una mensa all’interno dell’azienda. A fronte della situazione pandemica e dell’affollamento dei trasporti, è quindi evidente che tutte le condizioni di lavoro (o quasi tutte) prevedevano un’evidente rischio di contagio connesso alla prestazione lavorativa. La disciplina sull’infortunio del lavoro in ogni caso è normata dal TUSL [D.lgs 81/2008], che prevede disposizioni e norme vincolanti sulla prevenzione. In questo quadro, secondo diverse interpretazioni, proprio il TUSL potrebbe permettere l’inserimento del covid19 tra le patologie protette [sebbene ad oggi non risulta che lo sia] e quindi rientrare nel campo di applicazione delle norme previste al suo Capo III, art 15 [soprattutto i punti i) la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale; l) il controllo sanitario dei lavoratori; m) l’allontanamento del lavoratore dall’esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l’adibizione, ove possibile, ad altra mansione]. La previsione di un possibile obbligo vaccinale rivolto a lavoratori e lavoratrici [non generalizzato all’intera popolazione], cioè, potrebbe trovare una sua prima radice proprio nel TUSL e nella prevenzione degli infortuni sul lavoro.

TUSL e obbligo vaccinale. Il D.lgs. 81/08, infatti, prevede la possibilità di considerare il vaccino come condizione di idoneità ad una mansione lavorativa, disciplinando la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, pur garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza [Art. 279. Prevenzione e controllo 1. Qualora l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità i lavoratori esposti ad agenti biologici sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41. (comma così sostituito dall’art. 129 del d.lgs. n. 106 del 2009); 2. Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42 (mansioni inferiori a parità di trattamento precedente)]. Diverse fonti giuslavoriste, vedi ad esempio Natullo [2021], pur ritenendo che non si possa ricavare tout court un obbligo vaccinale da questa norma, ritengono che comunque definisca un modello regolativo che comporti un onere di sottoposizione alla vaccinazione: infatti, pur rimanendo intatta la libertà di scelta, l’eventuale rifiuto può implicare delle conseguenze. In primo luogo, l’adibizione a mansioni diverse [a parità di retribuzione], ma nel caso in cui queste non fossero disponibili [ad esempio, in relazione all’assenza di professioni non di contatto, vedi le conseguenze sistemiche DL 44/2021 sulle professioni non sanitarie sottolineato da Mattei, 2021], si potrebbe anche subire un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Come sottolinea sempre Mattei [2021], però, tale eventuale conseguenza non avrebbe una reale copertura giuridica, in quanto si è prospettata un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008 alla luce dell’art. 3 Cost., in quanto la sospensione senza retribuzione, come extrema ratio per chi è obbligato e non vaccinato ai sensi dell’art. 4 co. 8 del d.l. 44/2021 [operatori sanitari], potrebbe invece rappresentare un rimedio eccessivo per chi, tra i prestatori non rientranti nel campo di applicazione dell’art. 4, non intende sottoporsi alla vaccinazione. Una procedura di questo tipo, secondo lo stesso TUSL, dovrebbe in ogni caso seguire le condizioni e le garanzie previste all’art. 41 della stessa norma, che richiedono il giudizio del medico competente e l’eventuale ricorso alla commissione provinciale medica [cioè una procedura per step, con occasioni di contraddittorio e ricorso].

Codice civile e obblighi contrattuali: le interpretazioni neoliberali. Secondo Pietro Ichino [giuslavorista, già dirigente FIOM, deputato PCI, senatore PD e della lista Monti, noto sostenitore da diversi anni di un punto di vista padronale], il datore di lavoro può condizionare alla vaccinazione non sulla base del TUSL, ma ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile [L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro]. Secondo Ichino, infatti, il datore di lavoro potrebbe adottare misure come modifica delle mansioni, fino anche al demansionamento, e misure sanzionatorie, conservative o financo espulsive (a seconda della valutazione della gravità dell’inadempimento), allo scopo di ottenere sul piano negoziale il più alto livello di profilassi dal datore liberamente ritenuto opportuno e necessario. Questa interpretazione sembra sia stata seguita nel corso dell’estate da due sentenze di tribunale, con le ordinanze n° 2467 del 23 luglio 2021 del Tribunale di Modena e n° 18441/2021 del Tribunale di Roma. La prima sottolinea che il datore di lavoro si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile di adottare tutte le misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica di lavoratori [richiamando a questo proposito la direttiva Ue n. 739 del 3 giugno 2020]. La seconda ha stabilito che quando non ci sono altre mansioni cui destinarlo, è legittima (anzi doverosa) la sospensione dal lavoro del lavoratore che, sottoposto a visita del medico di fabbrica, sia risultato non idoneo a stare a contatto con la clientela perché non sottoposto al vaccino Covid-19. Secondo altre interpretazioni ancor più radicali, vedi Pisani [2021], c’è non solo in qualche modo un vero e proprio potere-dovere in capo al datore di imporre la vaccinazione, se la ritiene una misura utile per ridurre il rischio specifico di trasmissione dell’infezione che può nascere dal contatto tra persone, ma c’è la possibilità di prevedere tale condizione semplicemente all’interno del contratto di lavoro. La vaccinazione, infatti, pur non essendo un obbligo, si configurerebbe come un requisito essenziale per lo svolgimento della prestazione: il comportamento a tutela della salute, entrando nella causa del contratto di lavoro, diverrebbe cioè oggetto della stessa prestazione di lavoro richiesta nella misura in cui il buono o cattivo esito dell’adempimento dipendono per gran parte dal buono o cattivo stato della persona. Insomma, la mancata vaccinazione come motivo oggettivo di licenziamento, senza nemmeno le garanzie del TUSL.

La necessità di un obbligo di legge per i vaccini. Queste interpretazioni neoliberiste [che in ogni caso, come abbiamo visto, hanno già ottenuto ascolto nel corso dell’estate in più di un tribunale] sono in ogni caso ampiamente contrastate da letture più garantiste, vedi ad esempio Gragnoli [2021]. Alla base di queste argomentazioni l’articolo 32 della Costituzione [Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana]. Come sottolinea Mattei [2021], infatti, la riserva di legge che deriva dall’ articolo 32 della Costituzione può essere assolta solo con una norma speciale, smentendo pertanto che essa sia aggirabile tramite contratto individuale o mediante intesa collettiva; e neppure facendo riferimento all’art. 2087 cod. civ. e alle norme in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro ai sensi degli artt. 18, co. 1, lett. d) e f), 20, 41, 42 e 279, co. 2, lett. a), d.lgs. 81/2008. Cioènon può esser l’art. 2087 del codice civile, il contratto o il Testo Unico sulla sicurezza ad imporre un obbligo di vaccinazione generalizzato, tantomeno si può far scaturire da queste norme la sospensione o il licenziamento del lavoratore o della lavoratrice che non si vaccini. Infatti, la Corte Costituzionale [con la sentenza 1990, n°307] ha sicuramente stabilito che è possibile imporre un trattamento sanitario [e nello specifico una vaccinazione], ma ha però posto ad essa alcuni vincoli generali [se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stata di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri e se vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato salvo che per quelle sole conseguenze temporanee e di scarsa entità; se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio sia prevista la corresponsione di un’equa indennità in favore del danneggiato]. Proprio quella sentenza ha quindi ribadito che la legge e solo la legge può interessarsi della disciplina sull’obbligatorietà della vaccinazione.

Il DL 44/2021: l’obbligo vaccinale per le professione sanitarie. Nella considerazione precedente vi è in effetti una ragione importante alla base della posizione che richiede la definizione di un obbligo vaccinale per legge, e non tramite altre forme, come quella assunta dalla CGIL negli ultimi tempi. Non è un caso che, dove si sia effettivamente previsto un obbligo vaccinale, anche se definito come requisito per la prestazione lavorativa, si sia agito per legge. Il DL 44 del 1 aprile 2021, infatti, ha stabilito [art 4] al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza che la vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese.. dagli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario. Da notare che comunque sono esclusi coloro che svolgano prestazioni/mansioni di tipo diverso (ad es., amministrativo, commerciale). Il procedimento, in ogni caso, in coerenza con il D.lgs 165/2001 [la norma che regola i rapporti di lavoro nel pubblico impiego] e seguendo la ratio del CCNL, è disciplinato in più fasi: trasmissione elenchi da parte degli Ordini professionali e dei datori di lavoro; Verifica dello stato vaccinale dei soggetti; Invito delle Asl a presentare la documentazione concernente l’obbligo/adempimento; Invito delle Asl a coloro che non hanno presentato i documenti a vaccinarsi; .Adozione atto di accertamento e sospensione da parte delle Asl. In particolare, sottolineiamo come questo DL [art. 4, comma 6] preveda che ogni procedura di sospensione o anche solo demansionamento debba avvenire previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti: come sottolinea Mattei [2021], considerate le (gravi) conseguenze connesse all’adozione dell’atto di accertamento, si prevede esplicitamente (e giustamente) la necessità di verifiche puntuali e accertamenti scrupolosi. Lo sottolineiamo da una parte per l’importanza di prevedere procedure precise e codificate nel momento in cui si interviene nei rapporti di lavoro, ma dall’altra anche perché queste procedure e attenzioni sono state prese in piena emergenza (ad aprile 2021, durante la terza ondata), in relazione a una rilevante tipologia di personale (sociosanitario) e senza che questo abbia comportato particolari effetti negativi sulla campagna vaccinale [guardando i dati, risulta vaccinato oltre il 99% del personale, con solo 45mila interessati a procedure di ricorso su oltre 2 milioni di operatori pubblici e privati]. Da notare comunque che, diversamente da quanto previsto dal TUSL, a fronte del mancato obbligo vaccinale il trasferimento avviene anche ad un livello professionale inferiore con il trattamento retributivo corrispondente [cioè, in questo caso non si mantiene il precedente livello retributivo, ma si agisce una sorta di sanzione in capo al lavoratore, che vede la riduzione di stipendio]. Sempre come riporta Mattei [2021], con tale previsione si introduce cioè di fatto un «ibrido» tra un inadempimento agli obblighi derivanti dal contratto di lavoro e un’impossibilità sopravvenuta e temporanea alla mansione, che di fatto rappresenta una misura con tratti sanzionatori sui generis [pur escludendo de facto il licenziamento per motivi disciplinari o per giustificato motivo oggettivo].

I vaccini: efficacia, sicurezza e autorizzazioni. Mentre tutte le altre normative, provvedimenti e indicazioni non entrano nel merito della tipologia o delle caratteristiche dei vaccini, il TUSL si riferisce espressamente (nelle sue previsioni all’articolo 279] a vaccini efficaci. Questa dizione tutto sommato generica non fa un riferimento particolare alla sicurezza, perché la legge suppone che un vaccino che ha avuto le autorizzazioni di legge (EMA, AIFA) sia da ritenersi di elevata sicurezza. Gli attuali vaccini previsti in Italia sono quattro [Pfizer-BionTech, Moderna, AstraZeneca e Johnson & Johnson]. La procedura di autorizzazione è stata seguita a livello europeo, con una modalità accelerata per l’emergenza in corso, esitando quindi in un’autorizzazione condizionata su questi vaccini. Cosa vuol dire un’autorizzazione condizionata? Diversamente da quanto sostenuto da pareri o disinformazioni di matrice novax, non si tratta di una procedura affrettata, approssimativa o parziale. La procedura di autorizzazione all’immissione in commercio condizionata (CMA), infatti, è stata specificamente concepita nel 2006 proprio per situazioni di emergenza sanitaria come l’attuale, al fine di rendere utilizzabili nuovi farmaci rapidamente. Il procedimento (ex art. 14 bis Reg. CE 726/2004 e Reg. CE 507/2006), nello specifico, prevede che l’autorizzazione possa essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari. Questa autorizzazione cioè non rende questi vaccini senza prova di efficacia o poco sicuri, avendo comunque regolarmente completato le prime fasi di sperimentazione di un vaccino, ma consente solo di raccogliere ulteriori dati (rolling review) mentre si somministra il farmaco, raccogliendo quindi informazioni su effetti e controindicazioni specifiche nel corso del tempo (concludendo quindi gli studi di fase tre con un costante monitoraggio nella somministrazione del vaccino). Alcuni notizie uscite nelle scorse settimane riportano che l’autorizzazione standard arriverà circa 28 mesi dopo l’immissione del vaccino, quindi intorno al 2023. Detto questo, ci sono controindicazioni a possibili obblighi per un vaccino con un’autorizzazione condizionata? Per alcuni giuristi, l’obbligo potrebbe non reggere a fronte della giurisprudenza della Corte Costituzionale [sentenze n° 307 del 1990, n° 258 del 1994 e n° 5 del 2018], in quanto pur ribadendo la possibilità di introdurre l’obbligo di vaccini per legge (secondo quanto previsto dall’articolo 32 della Costituzione e secondo i tre criteri che abbiamo già sottolineato della sentenza del 1990), si imporrebbe al legislatore il vincolo di rigorosi accertamenti tecnico-scientifici di natura definitiva. Cioè, sarebbe necessaria un’autorizzazione non condizionata. A dimostrazione, viene sottolineato come le precedenti sentenze della Corte Costituzionale riguardano vaccini che avevano avuto un’autorizzazione al commercio di tipo standard. Altrimenti, come sottolinea Di Lieto (2021), si rischierebbe di imporre un obbligo fondato su basi scientifiche incomplete e provvisorie, con tutto quel che ne verrebbe in termini di responsabilità e di indennizzi. È vero, come prosegue Di Lieto, che recentemente la FDA americana è passata da un’autorizzazione d’emergenza per il vaccino Pfizer ad una definitiva, ma [a parte il fatto che le normative e le procedure di USA e UE sono diverse], questo vale comunque solo per gli Stati Uniti e non per l’Europa. Il Tar del Friuli Venezia Giulia, però, con sentenza n° 261 del 10 settembre 2010, ha dato una prima risposta negativa a questo dubbio: il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sulla sicurezza del farmaco, richiamando quanto emerge dal sito dell’Istituto Superiore di Sanità che, a sua volta, richiama quello dell’Agenzia Europea per i Medicinali: questa tipologia di autorizzazione non rappresenta un minus rispetto a quella ordinaria, ma impone al titolare di completare gli studi per confermare che il rapporto rischi/benefici sia favorevole.

Facciamo un passo indietro: i protocolli di sicurezza. Il 14 marzo 2020, dopo lo sviluppo di un’ondata di scioperi nelle fabbriche, organizzazioni sindacali e datoriali hanno firmato un Protocollo sulla sicurezza nei luoghi dì lavoro, che tra le altre cose il governo aveva fatto proprio e inserito nei DPCM di gestione dell’emergenza (dandogli in qualche modo rilevanza normativa, vedi allegato 6 del DPCM 20 aprile 2020 e successivi). Il nostro giudizio fu negativo. Il protocollo è stato poi aggiornato la scorsa primavera (testo del 6 aprile 2021), con un nostro giudizio ugualmente negativo. Quei protocolli in ogni caso hanno prodotto una modifica delle linee guida dei DVR (documenti di valutazione dei rischi). Sorvoliamo ora su come sono applicati i DVR in molte aziende: in ogni caso oggi avrebbero dovuto esser nuovamente aggiornati, a fronte della diffusione della variante Delta e la sua maggior contagiosità, che quindi avrebbe dovuto imporre un significativo adeguamento delle misure di sicurezza (ad esempio, l’introduzione delle mascherine FFP2 al posto di quelle chirurgiche, come suggeriva Ricciardi ad agosto). In larga parte questo non è stato fatto [come non è spesso stato fatto neanche a fronte del cambio di norme imposte dalla scelta del green pass], per una serie di motivi, il principale dei quali è stato che ci si è affidati all’ipotesi di una vaccinazione di massa tra i lavoratori e le lavoratrici. Eppure, la vaccinazione di massa (e anche il Green pass), non esula dalla necessità di prevedere l’uso degli altri strumenti di prevenzione. Un DVR, infatti, dovrebbe in ogni caso tenere in considerazione che possono esserci officine o uffici con il 100% di vaccinati, ma anche quelli con nessun vaccinato [il dato sulla vaccinazione, o sulla data di scadenza di un green pass, è infatti un dato sanitario personale e sensibile, e come tale non solo non può esser usato dal datore di lavoro, ma non può nemmeno esser rilevato o conosciuto, come precisato più volte dal Garante della privacy]. I nuovi protocolli di aprile, inoltre, prevedevano la diffusione di una campagna vaccinale anche nei luoghi di lavoro. Questi protocolli, però esplicitavano in modo chiaro che la vaccinazione era espressione della scelta libera e consapevole di ciascun lavoratore/lavoratrice. In particolare, infatti, nel testo si sottolinea che i datori di lavoro, singolarmente o in forma aggregata e indipendentemente dal numero di lavoratrici e lavoratori occupati, con il supporto o il coordinamento delle associazioni di categoria di riferimento, possono manifestare la disponibilità ad attuare piani aziendali per la predisposizione di punti straordinari di vaccinazione anti-Covid-19 nei luoghi di lavoro destinati alla somministrazione in favore delle lavoratrici e dei lavoratori che ne abbiano fatto volontariamente richiesta e ancora, le procedure finalizzate alla raccolta delle adesioni dei lavoratori interessati alla somministrazione del vaccino dovranno essere realizzate e gestite nel pieno rispetto della scelta volontaria rimessa esclusivamente alla singola lavoratrice e al singolo lavoratore, delle disposizioni in materia di tutela della riservatezza, della sicurezza delle informazioni raccolte ed evitando, altresì, ogni forma di discriminazione delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti. Il protocollo manteneva dunque ferma la concezione secondo la quale la vaccinazione è una scelta volontaria della persona che lavora, pur favorendone la diffusione.

Il Green pass in scuola e università. Il DL 111/21 del 6 agosto [e il suo necessario completamento con il DL 122/21 del 10 settembre] ha stabilito che tutti i dipendenti (e poi tutti i lavoratori e le lavoratrici che si trovano ad operare in queste sedi), devono mostrare un Green pass in corso di validità per accedere alle proprie strutture, Dopo qualche confusione amministrativa e ripetute indicazioni dell’autority per la privacy, si è stabilito che il green pass può esser letto solo con apposite app (che recepiscono solo nome e cognome e ne verificano il corrente stato di validità), senza nessun conferimento al datore di lavoro di dati sensibili come la durata del green pass e il proprio stato vaccinale. Il Garante, infatti, ha sottolineato con forza la necessità di rispettare la dignità e la libertà degli interessati sui luoghi di lavoro, a partire dalla riservatezza dei dati sanitari (art. 88 del Regolamento; art. 113 del Codice in relazione all’art. 8 della l. 20 maggio 1970, n. 300, e all’art. 10 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276; provvedimento di avvertimento nei confronti della Regione Siciliana del 22 luglio 2021, n. 273, doc. web n. 9683814; provvedimento n. 198 del 13 maggio 2021 – Documento di indirizzo “Vaccinazione nei luoghi di lavoro: indicazioni generali per il trattamento dei dati personali”, doc. web n. 9585300; documento di indirizzo “Protezione dei dati – Il ruolo del medico competente in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, anche con riferimento al contesto emergenziale”, doc. web n. 9585367; FAQ in materia di “Trattamento di dati relativi alla vaccinazione anti Covid-19 nel contesto lavorativo”, doc. web n. 9543615). Il rispetto di queste indicazioni non solo non appariva garantito da alcune procedure ipotizzate in prima battuta, ma non è stato seguito nella realtà: ad esempio alcuni atenei italiani hanno raccolto (e ancora oggi detengono) informazioni e dati personali, come la data di scadenza del green pass di tutto il proprio personale dipendente. Ancora oggi, nonostante gli aggiustamenti del DL 111/21 e persino la conversione in legge del decreto [legge 133 del 23 settembre 2021] rimane qualche contraddizione su questi aspetti: per esempio, il decreto e le circolari del ministero stabiliscono che si può non usare la mascherina nelle classi composte da studenti che abbiano tutti completato il ciclo vaccinale o abbiano un  certificato di guarigione in corso di validità; il garante della privacy però ha chiaramente detto che la scuola non può raccogliere questo tipo di informazioni. In ogni caso, per lavoratori e lavoratrici, il DL 111/21 stabilisce che, nel caso non si possieda il Green pass, il lavoratore e la lavoratrice della scuola e dell’università non possano accedere al proprio luogo di lavoro [il DL 122/21 ha quindi precisato che in questa casistica debbano intendersi non semplicemente i dipendenti diretti delle amministrazioni scolastiche o universitarie, ma tutti i lavoratori e le lavoratrici che si trovino a prestare la propria attività di lavoro presso sedi universitarie e che a dover controllare questa condizione siano, in primo luogo, i rispettivi datori di lavoro]. Se trovati senza green pass in sedi scolastiche o universitarie, si procede quindi con una multa dai 400 ai 1.000 euro, in parallelo con la normativa relativa ai locali pubblici, che dovrà esser erogata dal Prefetto su segnalazione del datore di lavoro. Il Green Pass è ottenibile con vaccinazione, tampone molecolare per 72 ore o antigenico rapido per 48 ore. Il test molecolare potrà esser eseguito anche su campione salivare, però solo per le casistiche stabilite con circolare del Ministero della salute 43105 del 24 settembre 2021 [in sostanza, individui fragili con scarsa capacità di collaborazione come anziani, disabili, persone con disturbi dello spettro autistico; screening in bambini, screening programmati in ambito lavorativo per operatori sanitari e socio-sanitari]. Si prevede inoltre (con la conversione in legge, art. 1 comma 6, art. 9-ter, comma 1-ter) che nei casi in cui la certificazione non sia stata generata o rilasciata (per problemi amministrativi o informatici), l’obbligo si intende comunque rispettato con la presentazione di un certificato rilasciato dalla struttura che ha effettuato la vaccinazione o dal medico di medicina generale dell’assistito, che attesti che il soggetto soddisfa una delle condizioni per il rilascio del Green Pass. Il lavoratore o la lavoratrice che non possiede o non esibisce un green pass valido, quindi, non potrà accedere al proprio posto di lavoro, sarà dichiarato assente ingiustificato e dopo cinque giorni di assenza, sospeso dal rapporto di lavoro (a cura dell’amministrazione di appartenenza: Dirigente scolastico, Rettore o datore di lavoro], fino al conseguimento delle condizioni richieste … e alla scadenza del contratto attribuito per la sostituzione che non supera i quindici giorni. Per i lavoratori fragili è stata comunque estesa sino al 31 dicembre 2021 l’equiparazione dell’assenza dal servizio al ricovero ospedaliero, con esclusione dal periodo di comporto, e la possibilità di ricorrere al lavoro in modalità agile, anche attraverso la destinazione a diversi compiti e mansioni secondo le previsioni dei rispettivi CCNL.

Problemi e contraddizioni sindacali su questo green pass. Al di là di una valutazione generale [vedi dopo], emergono con evidenza problemi di carattere procedurale, proprio in relazione a quanto previsto nel TUSL o nel DL 44/08 in relazione agli operatori sanitari [ed assente in questo provvedimento]. Il primo problema è infatti relativo alla totale assenza di ogni verifica e contradditorio, che in relazione al TUSL era garantita dall’espressione del medico competente ed il ricorso alla commissione medica, in relazione al DL 44/21 era garantita dallo scrupoloso controllo dell’effettiva condizione del lavoratore/lavoratrice. In questo caso, invece, non viene prevista nessuna particolare procedura, senza occasioni di verifica e possibile ricorso (rispetto ad eventuali errori, malfunzionamenti dei sistemi, problemi di comunicazione), ad eccezione (come abbiamo visto) della possibile presentazione di una certificazione cartacea dell’autorità sanitaria. Il divieto di entrata e la successiva sospensione dal rapporto di lavoro vengono semplicemente attuate attraverso una direttiva amministrativa. Non entriamo qui nella problematica relativa alle procedure per le certificazioni di chi ha o avrebbe diritto all’esenzione [in carico alle autorità sanitarie vaccinali], che è imponente e complicata: basti considerare la lettera dell’associazione nazionale medici d’aziende e competenti, del 3 settembre 2021, per sottolineare confusioni e ambiguità nelle responsabilità. In ogni caso, è evidente come in queste settimane si siano verificate evidenti lesioni dei diritti di molti/e lavoratori e lavoratrici, che da una parte hanno avuto difficoltà ad accedere alle autorità in grado di produrre le relative certificazioni, dall’altra in diversi e specifici casi hanno avuto problemi ad ottenerle. Questa problematica, comunque, è di fatto conseguenza di questa draconiana scelta di gestione amministrativa (senza alcuna codificazione, senza previsione di contestazioni e contradditori, come invece nel TUSL o nel DL 44/21). Colpisce in ogni caso anche il merito delle disposizioni previste, cioè la scelta di dichiarare il lavoratore “assente ingiustificato” e poi di sospenderlo “dopo cinque giorni di assenza”. In primo luogo, la configurazione dell’assenza ingiustificata è problematica per un dipendente pubblico, in quanto l’articolo 55 del Testo Unico sul Pubblico Impiego (D.lgs 165/2001), recepito ovviamente in tutti i CCNL, prevede la sanzione disciplinare del licenziamento, al comma 1 lettera b) per l’assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio. Cioè, al terzo giorno di assenza ingiustificata, il datore di lavoro dovrebbe procedere a contestazione disciplinare e licenziamento, altro che sospensione al quinto giorno.Per uscire dalla contraddizione di aver previsto, in modo superficiale e affrettato, l’istituto dell’assenza ingiustificata senza evidentemente conoscerne le conseguenze normative, le circolari applicative del Ministero hanno istituito de facto una nuova assenza ingiustificata da green pass, con previsioni diverse da quelle previste da 165/01 e CCNL. In secondo luogo, rimane problematico il conteggio dei cinque giorni (con questa genericità e approssimazione), in quanto nella pubblica amministrazione sono diversi i casi in cui il lavoratore non è tenuto alla presenza in sede di lavoro in modo continuativo (smartworking, weekend, docenti universitari, ecc), determinando evidenti differenze e sperequazioni tra le amministrazioni di riferimento (e le loro diverse interpretazioni). In ogni caso, similmente a quanto considerato in relazione al DL 44/21, possiamo evidenziare come qui si sia istituito una nuova forma ibrida ed eccezionale, né provvedimento disciplinare né condizione di accesso alla mansione, ma una misura sanzionatoria sui generis, attuata però amministrativamente senza possibilità di contradditorio dal datore di lavoro, diversamente da quanto previsto per gli operatori sanitari.

Il green pass nella scuola e nell’università: una valutazione generale. Concordiamo, in generale, con il giudizio espresso dai nostri e dalle nostre compagni/e in FLC: la nostra contrarietà non è dovuta semplicemente al fatto che le sue norme sono contraddittorie, ma all’impianto di questa scelta. Perplime infatti la scelta di limitare o condizionare l’accesso ad un servizio universale (università) o al lavoro, prevedendo due strumenti (vaccinazione o test antigenico/molecolare), di cui uno gratuito e l’altro con un costo a carico del singolo. Teniamo infatti presente che il TUSL chiarisce esplicitamente che i costi relativi alle misure ed alle condizioni di sicurezza non debbano esser a carico del lavoratore o della lavoratrice: l’art. 15 comma 2 del D.lgs 81/08 precisa, infatti, che le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori; mentre il comma precedente ricapitola tutte le misure generali di tutela della salute e della sicurezza [tra cui, tra le altre: a) valutazione dei rischi, b) programmazione della prevenzione, c) l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo; i) la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale; l) il controllo sanitario dei lavoratori; m) l’allontanamento del lavoratore dall’esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l’adibizione, ove possibile, ad altra mansione]. Inoltre, nel momento in cui si prevede questo strumento per non assumere ulteriori provvedimenti (come i cosiddetti smezzamenti delle classi o anche solo l’uso delle mascherine FFP2), nel momento in cui anzi si rivedono gli attuali distanziamenti (riducendo a raccomandazione, cioè a nulla, il metro statico tra rime buccali o aumentando l’affollamento dei mezzi pubblici), questa non diventa certo una misura atta a ridurre il contagio o che ha come finalità la difesa della salute di lavoratori e lavoratrici.

L’estensione del Green Pass alle mense. Le mense aziendali erano evidentemente escluse dal testo del DL 105 del 23 luglio 2021, che introduce il GP per gli eventi e i locali pubblici. A chiarirlo anche formalmente, come noto, una circolare della regione Piemonte, che ai primi di agosto ricordava come il DL 105/21 all’art. 3 comma 1, prevede l’uso del Green pass per i servizi di ristorazione svolti da qualsiasi esercizio per il consumo al tavolo, al chiuso, intervenendo sull’articolo 9-bis del DL 52 del 22 aprile 2021 [Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali], che riportava a suo volta all’art 4 dello stesso DL, dal quale risultano escluse le mense aziendali e i servizi di catering su base contrattuale, la cui attività era già consentita ai sensi dall’art. 27, comma 4, del DPCM del 2 marzo 2021. La mensa sarebbe così dovuta esser equiparata a un’attività di servizio. Il governo invece, tramite FAQ (una pagina internet di chiarimento, senza alcun valore istituzionale) ne ha interpretato liberamente l’estensione. Questa generalizzazione, improvvisata e senza reale base normativa, come sappiamo ha prodotto evidenti discriminazioni nei servizi mensa (ad esempio, la differenziazione dei pasti), oltre che la diffusione di situazioni e prassi di minor sicurezza proprio per i dipendenti non vaccinati (creando spazi mensa all’aperto, ma senza protezioni o sanificazioni).

Il DL 127/21: l’estensione del Green pass a tutti i luoghi di lavoro. Il governo, a settembre, ha voluto quindi intervenire con il quarto provvedimento nel giro di pochi mesi (dopo l’estensione alle mense del DL 105/21, il DL 111/21 e il DL 121/21 su scuole e università), estendendo questa soluzione a tutti i posti di lavoro con il DL 127 del 21 settembre. Da notare, in primo luogo, che questo decreto non assorbe e non si coordina con le norme precedenti, arrivando quindi a codificare tre diverse situazioni nel mondo del lavoro [gli operatori sanitari, pubblici e privati, soggetti al DL 44/21; gli operatori in scuole e università, soggetti ai DL 111 e 121/21; gli altri lavoratori e lavoratrici pubblici e privati soggetti al Dl 127/21]. Come abbiamo visto e come vedremo, tra questi provvedimenti ci sono differenze sostanziali. Nel contempo, il governo non ha tenuto conto dell’esperienza: anzi, per certi versi ci troviamo nella condizione di una progressiva degenerazione normativa, in cui procedure e istituti sono sempre più contradditori e incompleti. Il DL 127/21, infatti, interessa l’insieme del mondo del lavoro, coinvolgendo non solo figure e configurazioni contrattuali tra loro molto diverse, ma anche prestazioni lavorative e luoghi di lavoro assai differenziati, che possono essere anche molto particolari e con condizioni molto specifiche [basti considerare le difficoltà recentemente segnalate nel mondo della marina mercantile]. Il governo ha quindi deciso semplicemente di generalizzare all’insieme del lavoro l’impianto e le procedure previste per la scuola e l’università (con tutte le sue ambiguità e contraddizioni).

Alcune note sulle ambiguità e problemi del DL 127/21. Tralasciando le osservazioni più generali, che comunque mantengono qui la loro validità, è interessante notare alcune particolarità di questo decreto.

L’accesso, lo smartworking e l’impossibilità di autocertificazione. Questo DL specifica e rafforza il principio, enunciato in modo più ambiguo nel DL 111/21, che il controllo del Green pass debba avvenire al momento dell’accesso nei luoghi di lavoro. Diviene così evidente che il GP è previsto [almeno, al momento] solo per i lavoratori e le lavoratrici che si recano in una sede per svolgere l’attività lavorativa (non necessariamente la propria azienda, vedi appalti o servizi), escludendo comunque lo spazio-tempo non riconducibile a tale fine (ad es. il tragitto casa lavoro, lo smartworking; quelli che lavorano senza passare per l’azienda, come per cantieri, controlli sul territorio, ecc; chi si occupa di forniture, ecc). Questa interpretazione era già stata avanzata, rispetto alle formulazioni ambigue del DL 111/21, in alcune circolari ministeriali [ad esempio quella MUR del 31 agosto 2021, prot. 0011592], chiarendo che il controllo avveniva per l’accesso ed escludendo quindi dalla verifica del Green pass alcune tipologie (che invece rientravano per alcuni atenei): chi si collegava on line, studenti universitari o personale; chi era in lavoro agile o non svolgeva necessariamente la propria prestazione in sede come i docenti universitari; chi era in aspettativa, ecc. In ogni caso, la verifica non è esclusivamente all’accesso, ma può avvenire anche dopo, nel corso della giornata lavorativa [elemento da tener presente, in quanto il GP ha un’ora di scadenza e quindi non è sufficiente che sia valido al momento dell’accesso, ma deve esser valido per tutta la permanenza nel luogo di lavoro]. A rafforzare queste indicazioni le Linee guida per le Pubbliche Amministrazioni , emanate dalla PdCM, Ministro della PA e della Salute, sulla base dell’art 1 comma 5 dello stesso DL 127/21.  Le linea guida precisano infatti che l’accesso del lavoratore presso la sede di servizio non è dunque consentito in alcun modo e per alcun motivo a meno che lo stesso non sia in possesso della predetta certificazione e in grado di esibirla. Nel contempo, si prevede implicitamente ma chiaramente che chi è in lavoro agile non è soggetto a verifica del GP (nonostante le uscite sulla stampa di queste settimane): tant’è che si dice che non è consentito in alcun modo, in quanto elusivo del predetto obbligo, individuare i lavoratori da adibire al lavoro agile sulla base del mancato possesso di tale certificazione [cioè, non si può destinare al lavoro agile chi non ha green pass, ma nel momento in cui si è in lavoro agile non si deve comunque possedere un green pass valido]. E’ inoltre chiarito che tutti i lavoratori e le lavoratrici che accedono ai luoghi di lavoro, indipendentemente da quale sia il proprio datore di lavoro, devono avere il GP [qualunque altro soggetto dovrà essere munito di “green pass”,… anche i dipendenti delle imprese che hanno in appalto i servizi di pulizia o quelli di ristorazione, il personale dipendente delle imprese di manutenzione che, anche saltuariamente, accedono alle infrastrutture, il personale addetto alla manutenzione e al rifornimento dei distributori automatici di generi di consumo (caffè e merendine), quello chiamato anche occasionalmente per attività straordinarie, nonché consulenti e collaboratori, nonché i prestatori e i frequentatori di corsi di formazione].

Il controllo. La verifica avviene all’accesso (ma come abbiamo visto non esclusivamente all’accesso) e su richiesta. Cioè ci deve esserci un soggetto che controlla lo stato di validità del GP (o una procedura, ad esempio tramite totem o strumenti elettronici). In primo luogo, si sottolinea così come il datore di lavoro non possa assolutamente chiedere alcuna autocertificazione, detenere alcun elenco, archiviare informazioni in merito [seguendo le indicazioni del Garante della privacy che abbiamo sopra evidenziato]. Il pass, infatti, deve esser mostrato ad ogni accesso. Le Linee guida per le PA precisano non a caso che in ossequio alla disciplina sul trattamento dei dati personali non è comunque consentita la raccolta dei dati relativi alle certificazioni esibite dai lavoratori né la conservazione della loro copia. Questo, nonostante all’ art. 3, comma 6 del DL sia prevista ci si riferisca al caso in cui lavoratori comunichino di non essere in possesso del Green Pass al proprio datore di lavoro: tale previsione non può cioè essere interpretata come un avallo di qualche a poter chiedere in anticipo a lavoratori e lavoratrici se in possesso, o meno, della certificazione. Le Linee guida per le PA, infatti, sottolineano come il possesso del green pass non è, a legislazione vigente, oggetto di autocertificazione. Deve invece intendersi come consegna su spontanea volontà del soggetto di informazioni sullo stato del suo pass, che possono esser già detenute dal lavoratore per controlli in altro contesto lavorativo o su trasporti di lungo percorso. Una precisazione importante del DL, anche in relazione al comportamento di alcuni atenei statali, nei quali è stata chiesta l’autocertificazione (anche con dati sensibili come la data di scadenza del GP), pratica che potrebbe diffondersi in altre amministrazioni pubbliche o realtà private. Diversa invece la situazione della scuola, dove è stata creata una particolare applicazione informatica che procede giornalmente al controllo dello stato del GP (in quell’istante), in diretta connessione con gli applicativi del Ministero della Sanità, senza però accedere alla data di scadenza o ad altri dati del personale dipendente.

Il soggetto controllore. L’esistenza di una verifica pone evidentemente il problema dei soggetti e delle procedure che eseguono questa verifica. In primo luogo, il responsabile è il datore di lavoro. In alcune realtà, per altri impegni o dimensioni, il datore di lavoro ha la necessità di affidare ad altri tale compito. Il primo problema è se si possa affidarlo a persona esterna alla propria organizzazione (ad esempio addetti di portineria o guardie giurate in appalto). In molti atenei viene fatto, mentre in altre università si è ritenuto che tale compito debba esser eseguito da personale alle dirette dipendenze dell’amministrazione. A complicare tale previsione, nell’art.3 di questo DL, la precisazione che l’incaricato ha il compito non solo del controllo e della gestione delle contestazioni (già funzioni rilevanti), ma anche della comunicazione diretta al Prefetto di eventuali violazioni. Un secondo problema è l’uso del termine incarico nel DL, al posto della più generale delega. L’incarico, infatti, è uno strumento previsto dal TUSL e non prevede alcuna accettazione da parte di chi lo riceve, risultando di fatto un ordine di servizio (con relativa aumento dei carichi di lavoro), a differenza della delega che richiede invece l’espressa accettazione da parte del soggetto interessato (in quanto trasferimento di precise responsabilità da parte del dirigente). Le Linee guida per le PA, a tal proposito, fanno esplicito riferimento alla delega [il dirigente apicale può delegare la predetta funzione – con atto scritto – a specifico personale, preferibilmente con qualifica dirigenziale, ove presenti]. Qualche dubbio sindacale si impone sul fatto che possa avvenire un tale passaggio di responsabilità a personale inquadrato ai livelli più bassi dei propri CCNL (ad esempio portinerie e dintorni), non a caso le Linee guida per le PA fanno esplicito riferimento alla preferibilità di una funzione dirigenziale. Un dubbio sindacale ancor più netto sorge se tale passaggio avviene con atto unilaterale e coercitivo. In terzo luogo, considerato che all’incaricato o al delegato sono attribuiti compiti di rilievo (come il controllo di dati personali, affrontare contestazioni, la segnalazione delle violazioni al Prefetto), si pone la questione di un’incentivazione o retribuzione specifica per questa attività [da notare che in diversi atenei, anche su richiesta delle organizzazioni sindacali, è effettivamente stata prevista, sebbene fuori da ogni istituto e previsione contrattuale]. In quarto luogo, si pone il problema di chi non ha presente un datore di lavoro o un incaricato del proprio datore di lavoro [come alcune tipologie di appalto o prestazioni lavorative che si svolgono sul territorio, sedi periferiche, ecc], o anche di quale siano le procedure per il controllo dello stesso datore di lavoro (in alcune università di grandi dimensioni, ad esempio, sono stati emanati astrusi e quasi divertenti decreti rettorali sul complicato processo di verifica incrociata nel quadro della governance dell’ateneo).

Le sanzioni. In analogia con il DL 111/21 e a quanto previsto per i dipendenti di scuola e università, il DL 127/21 estende l’istituto dell’assenza ingiustificata in caso di Green pass non valido all’insieme del lavoro pubblico e privato (anche qui, in maniera ambigua e confusa generalizzando questo nuovo istituto dell’assenza ingiustificata da green pass, evidentemente diversa da quella prevista in CCNL e D.lgs 165/01). Però, dopo cinque giorni, è stata prevista solo l’interruzione delle retribuzione (e di qualsiasi altro compenso o emolumento), non la sospensione dal lavoro (diversamente da operatori della scuola, università e sociosanitari, soggetti alle altre normative). Come precisato nelle Linee guida per le PA, questo vuol dire non solo la mancata erogazione di contributi, TFR e componenti accessorie dello stipendio, ma anche di tutti i conteggi di quelle giornate per anzianità di servizio, maturazione di classi o scatti economici o per l’avanzamento. Si conferma cioè pienamente l’uso di strumenti e procedure sanzionatorie ibride e sui generis, come per operatori sociosanitari e dell’istruzione, per di più ognuna di esse diversa dalle altre. Le Linee guida per le PA, inoltre, precisano che le sanzioni previste dall’art. 9-quinquies del decreto-legge n. 52 del 2021 (le multe dai 400 ai 1.000 euro) sono previste non solo per l’accesso sul luogo di lavoro senza il possesso della certificazione, ma anche per il mancato accesso al luogo di lavoro dovuto al preventivo accertamento del mancato possesso da parte del lavoratore della certificazione [cioè, se qualcuno verifica la tua non validità del GP all’ingresso].

In conclusione. L’uso contro i lavoratori e le lavoratrici dei provvedimenti relativi all’emergenza sanitaria da parte di questo governo è evidente. Basti pensare ai problemi sul mancato rifinanziamento come ricovero ospedaliero della quarantena obbligatoria in caso di covid19 (per i privati, essendo che come abbiamo visto il DL 9 del marzo 2021 copre comunque i dipendenti pubblici). O le motivazioni con cui Brunetta ha annunciato il ritorno dal 15 ottobre al lavoro in presenza per tutta la Pubblica Amministrazione (con orari flessibili anche oltre il contratto nazionale). Così, l’introduzione del Green pass per accedere al lavoro non è semplicemente una misura per sospingere la campagna vaccinale. Come mostrano studi e ricerche (vedi ad esempio Pitts e al, 2014; Larson e al, 2014; Gualano e al, 2019], oltre che pareri di esperti [vedi Salmon e al, 2006 o Spisanti, 2021], l’adesione ad una campagna vaccinale di massa non è il semplice risultato di disposizioni di legge, obblighi e sanzioni. D’altra parte, se guardiamo il quadro internazionale, da una parte i paesi che prevedono vaccinazioni obbligatorie generalizzate sono pochissimi (Città del Vaticano, Indonesia, Kazakistan, Turkmenistan; Arabia Saudita per tutti i lavoratori e le lavoratrici), mentre altri prevedono obblighi solo settoriali (operatori sociosanitari in Australia, Gran Bretagna, Francia, Grecia, Ungheria, Turchia; Stati Uniti e Canada per impiegati federali). Eppure, l’Italia non spicca particolarmente per le sue percentuali di vaccinazione, come gli altri paesi dove ci sono obblighi generalizzati (in Italia siamo solo leggermente sopra quelle di Francia, Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, Giappone, Israele, Malesia, Brasile, Groenlandia, tutte oltre il 70%; inferiori a quelle di Spagna, Portogallo, Cile, Canada, Corea e Cuba, tutte oltre l’80%). Sicuramente c’è un suo uso anche per dividere il lavoro e limitare i rischi di una reazione sociale (vedi il corteo #insorgiamo di Firenze del 18 settembre e le reazioni padronali), come per riprendere a pieno ritmo la produzione, scardinando leggi, contratti e accordi (come appare in alcune parole di Brunetta). La caparbietà di Confindustria per ottenere l’estensione del Green Pass, in ogni caso, evidenzia tutti i rischi di un suo uso massiccio contro il lavoro. La negatività del green pass non è quindi nei suoi limiti, ma sulle sue potenzialità: in diverse aziende, soprattutto metalmeccaniche, ha già fatto saltare accordi per altro stabiliti in conformità a contratti e leggi, mentre il TUSL è semplicemente bypassato. Per quanto ridotte nel tempo come forza e come presenza, in Italia ci sono ancora centinaia di RSU e RLS, che cercano in senso ostinatamente contrario alla logica del capitale, di difendere la salute, la sicurezza e le condizioni di lavoro. Queste rappresentanze, non solamente hanno maturato capacità sindacali ampie, ma godono anche del riconoscimento di lavoratori e lavoratrici. Da qui cerchiamo di ripartire per invertire i rapporti di forza.

Luca Scacchi [Cd CGIL; Università della Valle d’Aosta]
Delia Fratucelli [Cd SLC, RSU Posteitaliane Torino].

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