Il ministro si dimette. E il sindacato che fa?
Una nota sulle dimissioni del ministro per l’istruzione, l’università e la ricerca, Lorenzo Fioramonti.
Alla fine, il Ministro si è dimesso. Lorenzo Fioramonti la sera del 23 dicembre ha deciso di spedire la sua lettera a Conte. Proprio il giorno di Natale, dopo alcune indiscrezioni stampa, lo ha rivelato con un lungo messaggio FB. Si dimette perché, a suo parere, non è riuscito ad “invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza” e non è riuscito nemmeno “a garantire quella linea di galleggiamento finanziaria di cui ho sempre parlato, soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca”.
Da diverse settimane lo si prevedeva, dopo le sue ripetute dichiarazioni sulla necessità di almeno uno anzi tre miliardi per istruzione e ricerca, la proposta di una tassazione specifica per questo obbiettivo, le esternazioni sulla sua assoluta estraneità (addirittura ignoranza) rispetto all’istituzione di un Agenzia Nazionale della Ricerca (inserita in Legge di Bilancio da non si sa bene quale manina e poi però confermata, senza tanti problemi, dalla maggioranza parlamentare). Da diversi giorni, in particolare, giravano voci e indiscrezioni su intenzioni, saluti e scatoloni in preparazione al ministero.
I risultati di questi mesi di governo, in fondo, erano evidenti. Non a caso nelle ultime settimane si erano moltiplicate le prese di posizione negative e allarmate, dallo stato di agitazione sindacale a lettere e documenti di soggetti istituzionalmente prudenti come la Corte dei Conti, il Consiglio Universitario Nazionale o la Conferenza dei Rettori.
In molte ricostruzioni di queste ore si dichiara che Fioramonti ha ottenuto due miliardi sui tre richiesti per il galleggiamento (avrebbe ottenuto i due mld per la scuola, non il mld per l’università). Non è proprio così: i circa due miliardi di cui si parla sono sostanzialmente le risorse destinate ai lavoratori e lavoratrici della scuola per il rinnovo del contratto dei pubblici. I dipendenti degli altri settori del comparto, come le università e la ricerca, non sono infatti dipendenti alle dirette dipendenze dello Stato e, come per la sanità o gli enti locali, i loro aumenti stipendiali incidono quindi sui bilanci di quelle strutture (tra le altre cose, da tempo denunciamo come negli ultimi anni queste realtà non ricevono nessun ulteriore finanziamento a questo scopo, quindi con una sostanziale contrazione delle risorse a loro disposizione). Dopo il lungo blocco dei contratti (2010-2018), sarebbe stato necessario un recupero del salario importante per i comparti pubblici per portarli a livelli europei, mentre queste risorse non solo non corrispondono alla promessa di aumenti a tre cifre, ma non consentono neanche di recuperare per intero il potere d’acquisto nel triennio 2019-2021: le organizzazioni sindacali chiedono infatti oggi almeno un altro miliardo di euro. Questi soldi saranno quindi a disposizione della scuola solo quando si firmerà il contratto (nel 2021), senza nessun ulteriore intervento di sviluppo, mentre per l’università e gli enti di ricerca, come segnalato da tutti, non c’è praticamente un euro. Serve quindi ben altro anche solo rispetto alle necessità di galleggiamento.
Per il resto, infatti, nella Legge di Bilancio c’è poco e nulla per l’istruzione e la ricerca. Qualche posto di sostegno (molto molto sotto la necessità), qualche spicciolo per la formazione, poche risorse per l’edilizia scolastica, 30 milioni per garantire i contratti integrativi dei dirigenti scolastici (lì effettivamente, come per l’ultimo rinnovo contrattuale, si copre larga parte della richiesta anche se non tutto). L’unico risultato positivo è lo spostamento delle risorse del cosiddetto bonus docente (la premialità istituita con la Buona scuola di Renzi) alla contrattazione di istituto, senza vincolo ulteriore (anche se meglio sarebbe stato destinarlo al salario di base tabellare).
Però c’è anche l’istituzione dell’Agenzia Nazionale della Ricerca: un ente sotto diretto controllo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con organismi composti a maggioranza per nomina politica ed un comitato scientifico di facciata (nominato esclusivamente dal direttore, a sua volta nominato dalla Presidenza del Consiglio), che per la prima volta in Italia istituisce un controllo gerarchico con un concreto rischio per l’indipendenza e la libertà di ricerca in questo paese. Per di più con l’esplicito obbiettivo di svilupparla in rapporto al sistema produttivo e in relazione con le politiche economiche definite dal governo.
L’altro grande provvedimento di questi mesi è stato il cosiddetto decreto salva precari. Questo testo è il frutto di un’intesa generale (24 aprile 2019) e di un successivo accordo specifico realizzato con il precedente governo Conte (in particolare, con l’allora ministro Bussetti). Il risultato raggiunto con il governo 5 Stelle e Lega affrontava solo parzialmente il problema del precariato (oltre 150mila posti vacanti tra docenti e ATA, oltre 60/70mila precari storici, grande sofferenza per carenze di organico ed esternalizzazioni in corso nel personale ATA): interveniva infatti solo sul fronte docente con meno di 50mila assunzioni (di fatto per coprire l’emergenza dei pensionamenti degli ultimi anni), circa 24mila posti a concorso ordinario e circa 24mila posti riservati ai precari storici (almeno 36 mesi), però con l’istituzione di un percorso di abilitazione straordinario e semplificato (un corso senza selezione in ingresso) che avrebbe garantito in prospettiva una possibile stabilizzazione a tutti i precari storici (anche se in tempi lunghi e in sostanza a pagamento). Il nuovo governo Conte bis aveva però stracciato questa intesa, per le grandi resistenze proprio sui percorsi di stabilizzazione di alcune componenti democratiche, renziane e anche di settori 5 stelle. Dopo una nuova intesa sindacale ed un accidentato percorso parlamentare si è quindi arrivati a ottenere solo il concorso straordinario e ordinario (le 50mila assunzioni), anche se con qualche posto in più (9mila ulteriori pensionamenti per quota 100), la stabilizzazione degli ex lavoratori LSU e dei Dgsa e un’estensione della durata dei 36 mesi (anche al corrente anno scolastico). E scontando però una grave violazione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, come delle relazioni sindacali (l’imposizione di un limite minimo di cinque anni per i trasferimenti, regolando per legge quella che è materia contrattuale). I percorsi abilitanti sono stati stralciati e rimandati ad un’apposita legge collegata (con l’attuale quadro politico nel mese del poi dell’anno del mai), anche se viene garantita l’abilitazione per quelli che supereranno la prova di concorso. Di fatto non solo saranno coperti solo una quota parziale dei posti vacanti (anche perché i 24mila posti a concorso ordinario saranno utilizzati anche per trasferimenti e passaggi di carriere del personale di ruolo), ma solo una quota ridotta dei precari storici potrà stabilizzarsi nel lungo periodo.
In questo quadro, alcuni pensano che Fioramonti abbia fatto un gesto importante e significativo. Da una parte diretto a salvaguardare e rilanciare l’istruzione e la ricerca in questo paese, dall’altro indice di coerenza e disinteresse per i propri tornaconti personali. Altri ritengono che invece abbia per l’ennesima volta dimostrato la sua incompetenza: dopo esser stato un sottosegretario confinato negli sgabuzzini (per sua stessa ammissione), dopo aver pubblicamente dichiarato il suo stupore per la sua elezione a ministro (Credevo che nel corso della trattativa qualcuno mi avrebbe tenuto informato. Niente. Ho pensato avessero scelto altri nomi), dopo esser stato preda di manine misteriose nella stesura della Legge di Bilancio, dopo non aver ottenuto nulla di quanto chiesto, ha tratto le conseguenze della sua irrilevanza nella conduzione del MIUR.
Noi ci limitiamo a notare che si è dimesso a Legge di Bilancio approvata e Parlamento chiuso. Evidente quindi la sua priorità politica: la salvaguardia del governo e della precaria stabilità di questa maggioranza. Fioramonti infatti non ha scelto di aprire questa piccola crisi nel corso della discussione della Legge di Bilancio, quando forse ancora si poteva intervenire in questo indirizzo politico ma con il rischio di innescare discussioni parlamentari e persino imprevisti processi partecipativi (magari persino dei lavoratori e delle lavoratrici dell’istruzione e della ricerca). Lo ha fatto a Natale, quando tutti siamo più buoni, quando le scuole e le università sono chiuse e tutto quindi può tranquillamente risolversi nel Palazzo (senza scomodare reali discussioni pubbliche e magari movimenti che non si sa bene dove alla fine possono condurre). Così tutto può chiudersi velocemente e senza grandi dolori, da una parte con una rapida indicazione del nuovo ministro da parte del Presidente del Consiglio, dall’altra con una rapida ricollocazione dell’ex ministro come esponente di una nuova forza politica della composita e contradditoria compagine di governo.
In ogni caso, le dimissioni del ministro Fioramonti sono un fatto politico, che certifica in modo pubblico ed evidente da una parte che questo governo non intende “invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza” e dall’altro che non si vuole nemmeno “garantire quella linea di galleggiamento finanziaria di cui ho sempre parlato, soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca”.
Il punto, in tutto questo, è cosa ha fatto e cosa intende fare il sindacato ed in particolare la FLC.
Come il ministro, il sindacalismo confederale e la FLC hanno voluto in primo luogo aspettare la conclusione della Legge di Bilancio. Non hanno cioè aperto in tutti i posti di lavoro, nel paese e nelle piazze il problema di invertire in modo radicale le politiche sull’istruzione e la ricerca, con una mobilitazione e magari anche uno sciopero generale sulla base di un chiaro quadro rivendicativo nei confronti del governo e della Legge di Bilancio. Come per il ministro, non si è voluto che una significativa pressione di piazza potesse metter in gioco i delicati e frammentati equilibri di questa maggioranza. Si è quindi voluto segnare questi mesi con qualche stentata assemblea e mettendo in scena la mobilitazione (precari, dgsa, Piazza Santi Apostoli). Solo conclusa la legge di Bilancio, si è indetto uno stato di agitazione: come abbiamo visto al direttivo FLC, con una prospettiva ancora vaga e indistinta di aprire un percorso rivendicativo in funzione del DEF.
Lo stato di agitazione, però, si è chiuso in pochissime ore. La FLC, infatti, insieme agli altri sindacati di categoria ha deciso di firmare un verbale di conciliazione al primo incontro… con Fioramonti. Lo stato di agitazione è stato ritirato sulla base di alcuni impegni politici (più o meno vaghi): tenere fuori il sistema di istruzione e ricerca dai processi di regionalizzazione (anche se la Legge Boccia non dà alcuna garanzia al riguardo), individuare le risorse necessarie al rinnovo e aprire un confronto sul rapporto tra legge e contrattazione, riprendere il confronto sui percorsi abilitanti per definire il disegno di legge (oltre l’apertura a gennaio di una serie di tavoli per le questioni più urgenti e i rinnovi di settore). Venerdì 20 dicembre 2019, mentre il ministro stava forse scrivendo la sua lettera di dimissioni consegnata poi il successivo lunedì sera, mentre cioè il ministro stava valutando e decidendo le sue dimissioni perché il governo non intende invertire radicalmente la rotta e perché non ci sono nemmeno risorse sufficienti, il sindacato ha firmato una serie di vaghi impegni politici a invertire questa rotta e trovare risorse… con questo ministro quasi-dimissionario.
Tutto questo suona paradossale. Tutto questo è paradossale. Come ha detto Fioramonti, ci vuole più coraggio. Il coraggio in primo luogo di un sindacato indipendente da ogni governo, che organizzi ed esprima l’autonomia del lavoro. Le dimissioni di Fioramonti hanno reso evidente che sull’istruzione e la ricerca questo governo non ha invertito nessuna rotta, non ha individuato nemmeno le risorse necessarie al galleggiamento, ed anzi ha assunto provvedimenti pericolosi ed autoritari (Agenzia della ricerca).
Come abbiamo detto al direttivo nazionale della FLC di dicembre, è invece necessario che riconquistiamo subito, e concretamente, un’azione ed una mobilitazione di massa. Per la stabilizzazione dei precari, per il rinnovo del contratto nazionale (sulla parte salariale e sulla revisione di Madie e Brunetta), contro ogni autonomia differenziata (a partire dalla cancellazione della bozza Boccia). Da gennaio dobbiamo coinvolgere lavoratori e lavoratrici di tutto il comparto, costruendo da subito e concretamente, con percorsi chiari e scadenze definite, uno sciopero generale del comparto.
Le dimissioni di Fioramonti confermano solo questa necessità e questa urgenza.
RT! nella FLC.
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