Istruzione e ricerca: oltre il gorgo, ripartire dal contratto
Lunedì 7 e martedì 8 giugno si è tenuto il direttivo nazionale della FLC CGIL che ha discusso in sostanza, oltre alla fase segnata dal patto per la scuola e dal contemporaneo DL sostegni bis (su cui ci siamo pubblicamente espressi come area), delle piattaforme per il rinnovo del contratto istruzione e ricerca. Nella riunione è emerso tra l’altro un confronto netto, anche nella maggioranza, sull’opportunità di inserire nella piattaforma per la scuola la proposta di progressioni economiche sostanzialmente legate alla professionalità (un confronto non risolto, in cui si è rimandato ad un’ulteriore approfondimento di merito, entro l’estate).
Noi, come #RiconquistiamoTutto nella FLC, siamo intervenuti con Anna Della Ragione e Luca Scacchi, ed abbiamo presentato anche al voto questo contributo, che delinea un’impostazione alternativa non solo sulla valorizzazione ma sull’asse e sull’agenda di questo rinnovo contrattuale. Buona lettura.
Salario e organizzazione del lavoro nella Grande Crisi, dopo la pandemia, nonostante il PNRR.
I contratti del pubblico impiego sono scaduti il primo gennaio 2019, dopo esser stati rinnovati per i tre anni precedenti solo pochi mesi prima. Il rinnovo 2016/18 era arrivato dopo dieci anni di pausa [2007 la parte normativa, 2009 quella economica] per il lungo blocco imposto dal governo Berlusconi, confermato da Monti, rinnovato da Letta e poi per la parte economica da Renzi. Il blocco fu alla fine scongelato della Corte costituzionale, che ha sottolineato come il reiterato protrarsi della sospensione delle procedure di contrattazione economica altera la dinamica negoziale in un settore che assegna un ruolo centrale al contratto collettivo. I CCNL vennero però chiusi solo nei primi mesi del 2018, con aumenti soprattutto in coda (dal primo aprile in poi), senza praticamente intervenire su norme e inquadramenti nonostante la fusione di quattro comparti (il CCNL dell’istruzione e ricerca ha di fatto giustapposto i quattro precedenti: scuola, università, ricerca e AFAM). Dal primo gennaio 2019 ad oggi i due governi Conte hanno previsto risorse limitate [leggi di Bilancio 2019, 2020 e 2021], bloccando di fatto le trattative, senza neanche emanare gli atti di indirizzo. Così, dopo il lungo blocco, per la seconda volta i rinnovi dei pubblici si collocano alla fine del triennio (e oltre), con risorse limitate, eludendo nodi che si stanno aggrovigliando nel tempo (a partire, ad esempio, dalla presenza nello stesso perimetro contrattuale di figure e livelli stipendiali disomogenei).
Per di più, questi rinnovi sono segnati da intese tra governo e confederazioni che, in qualche modo, perimetrano le trattative più sulla base delle dinamiche politiche che del confronto sindacale del settore. Nel 2018 abbiamo visto il patto di palazzo Vidoni, sospinto più che dalla mobilitazione dal referendum costituzionale e dalle dinamiche del governo Renzi, in cui si focalizzò il rinnovo sugli aumenti contrattuali [85 euro sulla base della media di stagione, senza considerare il blocco degli anni precedenti, e in relazione al bonus 80 euro, con un valore minimo che esitò poi nella quota perequativa]. Nel 2021 abbiamo visto il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale (seguito poi dal patto per la scuola), sospinti più che dalla mobilitazione (anzi, con una divisione tra i settori della conoscenza e le altre categorie sullo sciopero del 9 dicembre) dal nuovo governo Draghi e dal PNRR, che focalizzano questo rinnovo sulla modernizzazione e la valorizzazione del pubblico impiego. Si rischia cioè che la prassi sindacale in questi settori si sganci progressivamente dalle dinamiche collettive della categoria, focalizzandosi sui rapporti politici tra confederazioni ed esecutivo e su quei tavoli centralizzati di confronto.
Una premessa: quattro fattori che definiscono il campo
Un rinnovo contrattuale, in ogni caso, è determinato da molteplici dimensioni: le condizioni del settore, la consapevolezza di lavoratori e lavoratrici, le dinamiche socioeconomiche del periodo. Questi fattori sono ancora più evidenti nel pubblico impiego, in cui l’organizzazione del lavoro e i salari sono definiti in primo luogo attraverso normative e stanziamenti di bilancio, non in uno scontro nei processi produttivi tra gli interessi del lavoro e quelli del capitale. L’azione sindacale, inoltre, si pone qui l’obbiettivo immediato di difendere anche i diritti sociali, cioè l’impianto pubblico e universale dei servizi, difendendo così il salario globale di tutto il lavoro. In questo quadro è importante tenere in considerazione 4 fattori: le condizioni del pubblico impiego; la stagione contrattuale; la pandemia; il PNRR e la pubblica amministrazione.
1. Le condizioni del pubblico impiego. Dagli anni novanta i settori pubblici hanno subito tagli e controriforme (processi di aziendalizzazione in una logica di simulazione delle condizioni di mercato). Sotto l’egida del new public management si è determinata un’incessante trasformazione dell’istruzione e ricerca: basti pensare nella scuola e nell’università alle iniziative di Berlinguer (L. 59/97, Dpr 275/99, L. 23/2000; 509/99), Moratti (53/03; 230/05); Gelmini (133 e 169/08; 240/2010) e Renzi (107/15), o ai diversi riordini degli enti di ricerca (137/02, 286/06, 165/07). Questo processo ha conosciuto resistenze, blocchi e accelerazioni, ma nell’ultimo decennio ha comunque segnato il funzionamento dei sistemi scolastici, universitari e della ricerca imponendo autonomie competitive, il potere dei dirigenti, meccanismi selettivi di carriera e incentivazione, forme di precariato strutturale. Nei primi anni dieci la contrattualizzazione ha comunque portato ad una maggior sindacalizzazione del settore (RSU e iscritti) e ad una contrattazione decentrata per conquistare aumenti (anche con un uso ampio e per l’ARAN improprio delle progressione economiche). Per bloccare questa dinamica la cosiddetta “Brunetta” (DL 150/09) ne ha ristretto gli spazi e ha imposto una logica premiale sul salario accessorio (eccetto che nella scuola e nella ricerca). Questa impostazione è stata sostanzialmente confermata dalla Madia (DL 74 e 75/17). Se è vero che abbiamo conosciuto resistenze e anche grandi movimenti (contro la buonascuola, in opposizione alla Gelmini, per la stabilizzazione negli enti di ricerca), questi processi hanno comunque aperto divisioni tra le diverse istituzioni e i territori, oltre che tra realtà professionali e nel precariato, incentivando prassi corporative e settoriali.
2. La stagione contrattuale. Il padronato in questi anni ha cercato di generalizzare lo sfondamento operato nel 2016 tra i metalmeccanici, in qualche modo ratificato nel successivo patto di fabbrica (che strutturava una differenza tra trattamento economico minimo e trattamento economico complessivo). L’obbiettivo era cioè quello di comprimere il salario tabellare (schiacciando gli aumenti sotto l’inflazione), mentre se ne aumentava la componente non monetaria (il welfare contrattuale) e quella variabile (sulla base del lavoro svolto). Bonomi nei primi mesi della pandemia ha persino proposto di smantellare l’attuale struttura stipendiale, introducendo quote molto ampie di salario variabile in relazione alla produttività ed alle prestazioni dei singoli. Questo tentativo è per ora fallito. La lunga emergenza sanitaria ha infatti innescato una profonda recessione e un epico intervento pubblico (in Italia oltre 180 miliardi di euro): questa dinamica ha quindi smorzato l’offensiva confindustriale (la priorità è diventata quella di evitare che la paura si trasformi in rabbia). Il padronato, soprattutto, si è diviso: nel primo rinnovo (alimentari) le grandi imprese hanno siglato un contratto separato contro Confindustria, che nei mesi successivi è diventato quello di riferimento. I CCNL successivi (gomma plastica, bancari, metalmeccanici, ecc) hanno quindi visto aumenti oltre l’IPCA (tra i 63 ed i 190 euro), spalmati però su diversi anni (in genere intorno ai 4). Il contratto metalmeccanico ha anche rivisto gli inquadramenti (in vigore dal 1973), ridefinendo i livelli sulla base di otto criteri, rendendo quindi più ampio e flessibile il loro uso da parte delle direzioni aziendali. Lo scontro di classe si è quindi smorzato, anche se sono state confermate alcune tendenze: il welfare contrattuale (in realtà anche benefits come i buoni spesa), l’ingabbiamento del secondo livello (con una focalizzazione del salario accessorio sulla premialità), l’incremento delle flessibilità (straordinari comandati, riduzione dei permessi o delle autonomie di scelta di lavoratori e lavoratrici, in alcuni casi persino l’aumento tout court dell’orario).
3. La pandemia. Le misure di contenimento, storicamente inedite per impatto e dimensioni, hanno messo in evidenza il lavoro indispensabile: non solo in sanità (da medici agli operatori sociosanitari), ma nella distribuzione, nella logistica, nei servizi essenziali (trasporti, poste, infrastrutture). Anche quello nella scuola, nelle università e nella ricerca. Non a caso questi lavoratori, anzi soprattutto queste lavoratrici sono state tra le più colpite. Il covid19 non è infatti una malattia socialmente neutra: colpisce con più forza le classi subalterne. Basta guardare la maggior incidenza nelle periferie popolari delle grandi città (New York, Londra o Roma). D’altra parte, numerosi studi hanno mostrato una perfetta correlazione tra speranza di vita (in generale) e condizioni socioeconomiche: a Torino, ad esempio, si è visto che nel percorso di due tram che corrono dalle collina altoborghese alle Vallette (il 6 e il 3), per ogni chilometro si perdono in media 5 mesi di vita. La retorica degli eroi nel lockdown ha però lasciato rapidamente il passo ad un uso dell’emergenza per riorganizzare il lavoro, ridurne i costi (i salari) ed intensificarne la produttività (lo sfruttamento). La recessione, nel quadro della Grande Crisi, ha infatti generato una pressione sul lavoro, rimettendo in discussione rapporti di forza e contratti. Questa dinamica non ha risparmiato i settori pubblici. Pensiamo al lavoro a domicilio: non è né smart né tele, ma qualcosa di diverso, e ha strutturato nuove organizzazioni e prestazioni. Si è voluto però negare il ruolo della contrattazione, confermare il potere discrezionale delle direzioni, disconoscere i costi di connessione, mettere in discussione istituti contrattuali [es. il buono pasto], imporre nuovi carichi e incarichi (vedi la DAD per gli insegnanti o la didattica blended nelle università). In questo quadro si è collocato il CCNI sulla Didattica digitale: positivo nell’obbiettivo di contrattualizzare la pratica e di delimitarla a questa specifica situazione, negativo nelle soluzioni proposte (disconoscimento dei costi, parificazione del lavoro in presenza e a distanza, acquisizione dei piani didattici con differenziazioni territoriali e il rischio di una sua generalizzazione indebita). Ora che si profila la possibile uscita dell’emergenza, è evidente la spinta a rendere strutturali queste soluzioni, usando l’inerzia dell’emergenza per imporle contro il lavoro.
4. Il PNRR e i patti del governo Draghi. La pandemia e la recessione hanno portato la UE a sospendere il fiscal compact e rilanciare gli investimenti pubblici (recovery plan). Come abbiamo sottolineato, però, questo non è un piano keynesiano di espansione della domanda aggregata, dei redditi e dei consumi. Al contrario, è un intervento ordoliberale che focalizza risorse e strutture pubbliche sulla competitività, proponendosi di incrementare la produttività totale dei fattori (vedi la premessa del PNRR). Per ottenere questo obbiettivo non ci si pone il compito di rilanciare i servizi pubblici universali, traendo un bilancio dal disastro dalla pandemia e invertendo le politiche degli ultimi decenni [privatizzazioni, aziendalizzazioni, federalismo amministrativo e autonomie regionali]. Al contrario, si usa le nuove risorse per imprimere con più decisione una loro funzionalizzazione agli interessi delle imprese. Questo impianto, che impregna il PNRR anche con l’imposizione di semplificazioni (l’eliminazione di lacci e lacciuoli secondo la più classica logica liberale) e concorrenza (liberalizzazioni, dai servizi territoriali al cloud), è particolarmente evidente nell’istruzione e ricerca: da un intervento sullo 0/6 che non traccia confini tra scuola e welfare (e non rimane nel perimetro pubblico) ad una riduzione delle classi senza costi per lo stato (basandosi solo sul progressivo calo di studenti), dalla riforma della filiera tecnico professionale in un ottica duale (una scuola di classe) ad una ricerca focalizzata al trasferimento tecnologico alle imprese. Il patto per l’innovazione del lavoro pubblico è funzionale a questa impostazione, promettendo nuove risorse per il CCNL con la legge di bilancio 2022, ma finalizzandole alla revisione degli inquadramenti e rilanciando il brunettismo, la valorizzazione professionale e la premialità meritocratica (addirittura basata su una presunta valutazione oggettiva, in pieno stile new public management). Il patto per la scuola, con una serie di impegni smentiti dal Dl sostegni bis [che non risolve il precariato, lascia oltre 150mila cattedre scoperte, non interviene su ATA e DGSA], rilancia tra le righe l’ipotesi di una valorizzazione del personale, che può esser interpretata come un nuovo tentativo di introdurre differenziazioni salariali dopo il concorsone di Berlinguer e la 107 del 2015.
Nel gorgo: i principali terreni di scontro per i nuovi CCNL
Questi rinnovi partono quindi in salita, a partire dai tempi (slittando dopo la prossima legge di bilancio, quindi nei primi mesi del 2022 a CCNL scaduto). In questo quadro, possiamo individuare 3 principali terreni di conflitto, su cui alla fine sarà possibile valutare il contratto che si conquisterà:
- Gli aumenti. La legge di bilancio 2021 li prevede del 4,07%, 3,8% con il consolidamento dell’elemento perequativo: sono 98 euro medi mensili in tutta la PA, 85 nell’istruzione [questa volta spalmati nel triennio, con almeno un 1% per anno]. L’IPCA è al 1,8%: l’aumento è quindi maggiore dell’inflazione come per gli altri CCNL. Samo però lontani dalle tre cifre promesse con l’intesa del 24 aprile 2019. Soprattutto, stando nelle medie di stagione, ancora una volta non si recupera il blocco contrattuale del pubblico. La piattaforma FLC sull’università del 2017 aveva quantificato quanto si era perso: usando quei parametri, possiamo direi sui 300 euro lordi mensili. Il governo, nel patto sull’innovazione del pubblico impiego, ha promesso altre risorse, ma le ha focalizzate sulla revisione degli inquadramenti e nel patto per la scuola sulla valorizzazione del personale. In questo quadro sarà anche importante verificare se, come previsto nel patto sull’innovazione, saranno introdotte forme di welfare o no.
- La valorizzazione professionale. Quasi un terzo di tutto il personale pubblico (il milione di dipendenti della scuola e i ricercatori degli EPR) sono oggi esclusi dai meccanismi selettivi di differenziazione dei salari e delle progressioni stipendiali (art 20 dell’attuale CCNL). Nell’università si chiede da tempo l’estensione anche a loro di questa esclusione. Come abbiamo visto, però, crescono le pressioni contrarie per introdurre nella scuola queste differenziazioni (stabilizzando e rilanciando in tutto il pubblico impiego, meccanismi competitivi di progressione economica). Dopo il fallimento del concorsone di merito nel 2000 e del bonus premiale della Buonascuola, una strada che si potrebbe imboccare è quella di prevedere progressioni economiche a bando, che partendo da fondi limitati e dovendo esser distribuite in quanti (i costi della progressione), sono inevitabilmente selettive. Al contrario, noi riteniamo fondamentale mantenere l’omogeneità degli stipendi (ed anzi, incrementarla tra i diversi settori annullando ad esempio le differenze tra i diversi cicli scolastici), retribuendo unicamente il lavoro e gli incarichi aggiuntivi rispetto alla prestazione lavorativa prevista dal contratto.
- L’orario, flessibilizzazioni e organizzazione del lavoro. Abbiamo detto che l’emergenza è stata anche un’occasione per cambiare il lavoro, con didattica a distanza e lavoro a domicilio. Alcune aree liberali e di governo (ad esempio ilSole24ore, Galli della Loggia, Giavazzi e per alcuni aspetti anche il ministro Bianchi) hanno quindi svolto una campagna per rendere strutturali questi cambiamenti, nel quadro di un’offensiva generale su orari e organizzazione del lavoro [flessibilità oraria stagionale; straordinari comandati; permessi stabiliti unilateralmente dalle direzioni; gestione della 104; penalizzazioni per le assenze]. In particolare, è nel mirino la scuola, con un milione di lavoratori e lavoratrici molto sindacalizzati (60%), sinora resistente su questi aspetti. Si vuole cioè da una parte ribadire il potere delle direzioni sull’organizzazione [tenendola fuori dalla contrattazione], dall’altro estendere orario e compiti dei docenti. Così, ad esempio, è stato nel CCNI sulla DDI, con la parificazione tra didattica a distanza e in presenza (quando il lavoro è diverso); così è nel Dl Sostegni bis su recuperi e attività integrative dal primo settembre all’inizio dell’anno scolastico (ritenendo cioè le attività esterne all’a.s. sostitutive dell’insegnamento, quindi obbligatorie e comprese nello stipendio). L’obbiettivo di lavoratori e lavoratrici è al contrario mantenere l’attuale inquadramento orario (anzi di ridurlo), conquistare ogni possibile spazio alla contrattazione su tutte le condizioni di lavoro, oltre che garantire la libera fruibilità dei propri diritti senza alcun ostacolo o penalizzazione (L. 104, malattia, gestione del tempo).
In una realtà articolata come l’istruzione e ricerca, dopo dieci anni di blocco ed un rinnovo schiacciato sulla parte economica, sono sicuramente molti altri gli aspetti importanti: pensiamo, in primo luogo, alla revisione degli inquadramenti del personale tecnico, amministrativo, bibliotecario e di assistenza [occasione per vedersi riconosciute le funzioni svolte e per progressioni di carriera o di stipendio, anche se è presente il rischio che si aumentino flessibilità e discrezionalità, come delineato in alcuni parti del Patto per l’innovazione del lavoro pubblico], a progressioni economiche certe ed esigibili (l’università), alla cancellazione dei meccanismi premiali (università e ricerca) o alla risoluzione di questioni particolari a lungo incancrenite (l’assenza di una convenzione nazionale per chi lavora nelle strutture mediche universitarie, la definizione contrattuale di lettori e collaboratori linguistici, la chiusura delle stabilizzazioni negli enti di ricerca, la regolazione degli impegni della docenza AFAM). Però, nel quadro della stagione che stiamo vivendo, questi tre elementi ci paiono quelli cruciali per valutare complessivamente il contratto.
Oltre il gorgo: obbiettivi e rivendicazioni per le piattaforme contrattuali Cgil nei settori della conoscenza
L’avvio della stagione contrattuale non è positivo. Abbiamo infatti visto come le leggi di bilancio stabiliscono aumenti ridotti, mentre i patti per il pubblico impiego e la scuola (al di là della loro esigibilità) prevedano risorse su inquadramenti e valorizzazione (non intervenendo quindi con risorse aggiuntive sugli stipendi tabellari). Inoltre, il Ministro Brunetta ha già emesso un atto di indirizzo sulle funzioni centrali che, nella sua prima parte, ha valore per tutta la Pubblica amministrazione: da una parte conferma l’impianto premiale del salario accessorio, dall’altra perimetra il lavoro agile nell’ambito dell’organizzazione del lavoro e, in questo quadro, ribadisce che l’organizzazione del lavoro è ambito indisponibile alla contrattazione. Infine, il DL sostegni bis interviene per via legislativa contro il contratto per aumentare i compiti dei docenti.
Il combinato disposto di queste vicende rende allora evidente che nella controparte sono presenti due diversi atteggiamenti: uno pseudo concertativo ed uno liberista aggressivo.
Uno pseudo concertativo. Pseudo perché non si pone veramente su un piano trilaterale di mediazione tra capitale e lavoro, in cui si scambia ristrutturazioni e moderazione salariale con una futura politica economica, avendo risorse da investire ora [non promesse per il domani] e avendo messo al loro centro la produttività totale dei fattori e l’interesse di imprese. Concertativo perché, come emerge dal patto per la scuola, si pensa comunque di mediare con i sindacati (evitando conflittualità), delineando un punto di caduta su aumenti a tre cifre (risorse aggiuntive), blandi meccanismi di valorizzazione professionale nella scuola (anche molto estesi), l’assenza di particolari meccanismi di welfare, una parziale contrattualizzazione del lavoro a domicilio [funzionale ad una sua strutturalizzazione] e la conferma di quanto stabilito nel CCNI sulla DaD.
Uno liberista aggressivo. Come emerge dal Dl sostegni bis, dall’atto di indirizzo, dai provvedimenti su mobilità e piano estate, c’è però anche una faccia antisindacale, che nel quadro della nuova composizione della maggioranza (che ingloba i settori liberisti della destra) vorrebbe sfondare proprio nei settori pubblici, ed in particolare nella scuola. Vorrebbe cioè agire su questo saliente quell’offensiva contro il lavoro che è fallita, con Bonomi, sul lato dei privati. Questi settori vedono quindi il contratto come un’occasione per forzare, tenendo gli aumenti sotto le tre cifre, applicando in tutti i settori l’impianto competitivo e selettivo della Brunetta (parzialmente congelato nell’ultimo decennio proprio dal lungo blocco contrattuale), introducendo meccanismi di flessibilizzazione dell’orario e quindi un suo aumento di fatto.
Il compito del sindacato dovrebbe esser quello di rompere questo schema. Sebbene i loro possibili punti di caduta siano diversi [il secondo si propone di agire uno sfondamento contro il lavoro, il primo di confermare dinamiche e rapporti di forza vigenti], secondo noi è necessario sconfiggere entrambi questi punti di vista, imponendo con la mobilitazione e gli scioperi una diversa agenda, capace di porre il tema di una riduzione e redistribuzione dell’orario di lavoro (come risposta alla Grande Crisi in corso), della parità di salario e condizioni contrattuali (iniziando a omogeneizzarli nel CCNL), di una strutturale inclusione del lavoro (eliminando appalti e esternalizzazioni, integrando nel CCNL tutte le figure, comprese gli atipici).
Per questo, è importante in autunno discutere collettivamente la piattaforma, organizzando assemblee nei luoghi di lavoro e anche coordinamenti RSU (su mandato dei propri rappresentati), sviluppando un’ampia consultazione e una definizione condivisa delle principali rivendicazioni, che saranno infine da approvare in un referendum aperto a tutti i lavoratori e le lavoratrici della categoria, iscritti e non iscritti alla FLC CGIL. Un percorso che costruisca quindi le premesse per la ripresa di una stagione di lotta, in grado di contrapporsi all’offensiva in corso proprio sul terreno contrattuale.
In questo percorso, sottolineiamo i punti che riteniamo indispensabili (non esaustivi ma prioritari).
Parte comune
- Aumenti salariali. In primo luogo, considerato quanto perso negli anni del blocco contrattuale e quanto si era dichiarato sul CCNL 2016/18 come accordo ponte, si ritiene indispensabile inserire nella piattaforma la richiesta di un recupero sostanziale del potere d’acquisto, pari a oltre 300 euro lordi mensili.
- Aumenti uguali per tutti, sul tabellare e non in proporzione allo stipendio. Per due ragioni: in primo luogo, per permettere agli stipendi più bassi (nel comparto inferiori a 1000 euro netti al mese, nonostante la quota perequativa) di distanziarsi dalla soglia di povertà relativa; in secondo luogo, per ridurre il ventaglio salariale, avviando un processo di omogeneizzazione tra le diverse fasce docenti (in direzione del ruolo unico) e tra i diversi settori, rafforzando gli stipendi inferiori.
- Superamento del welfare contrattuale: questo istituto riduce il salario globale (non incidendo su quello differito come tredicesima, TFR e contributi previdenziali), differenzia i diritti sociali (a seconda delle diverse coperture) e lo fa a spese della collettività (con la decontribuzione); nei settori pubblici, per di più, sostiene una competizione privatistica contro gli stessi servizi pubblici. Dove già è presente (ad esempio le università) tale strumento deve esser ricondotto nel salario, con una campagna per la riforma fiscale che riduca la tassazione sul lavoro dipendente ed elimini ogni decontribuzione di particolari componenti dello stipendio (a partire da salari premiali e welfare).
- Riduzione dell’orario a parità di salario: a fronte della crisi, per una redistribuzione del lavoro, è necessario che in ogni rinnovo contrattuale sia agita concretamente questa rivendicazione generale (come previsto nei documenti approvati all’ultimo congresso CGIL). Nei settori dell’istruzione e ricerca deve quindi esser richiesta la riduzione a 32 ore settimanali a parità di salario [16 ore di insegnamento nella secondaria, 20 ore + 2 di programmazione alla primaria; 22 ore all’infanzia].
- Stesso lavoro, identica retribuzione. Nel CCNL istruzione e ricerca sono al momento previste tabelle stipendiali diverse anche per lavori identici: nella scuola è necessario definire un ruolo unico della docenza, superando le diverse fasce (primaria e infanzia, superiori di primo e di secondo grado); trasversalmente ai diversi settori è necessario costruire tabelle omogenee a parità di inquadramento e attività. Allo stesso modo devono esser parificate le condizioni normative (ferie, permessi, diritti sindacali, ecc). Tale percorso, intrecciandosi con la revisione degli inquadramenti deve prevedere in tempi certi un livellamento sugli stipendi più alti e le condizioni contrattuali migliori.
- Inclusione e stabilizzazione del precariato: in tutto il comparto devono esser introdotti vincoli stringenti su appalti e esternalizzazioni, agendo non solo in ambito contrattuale ma anche sulle normative di settore e le regole di bilancio. In questo modo deve esser avviato un processo di reinternalizzazione nei perimetri del CCNL e di stabilizzazione dell’insieme del personale precario (attraverso concorsi per titoli e servizi, previsti da specifiche norme di legge), coprendo la gran mole di posti vacanti nella scuola e annullando gli spazi di precariato strutturale negli altri settori. I lavoratori e le lavoratrici a tempo determinato (da stabilizzare dopo 36 mesi) e quelli non internalizzabili (supplenti straordinari della scuola, assistenti di ricerca nei progetti europei, servizi molto specifici, ecc) devono comunque avere le stesse condizioni di lavoro e salariali di quelle previste nel CCNL per chi è a tempo indeterminato.
- Per recuperare il primato della contrattazione è fondamentale derogare le “Madia” (DL 74 e 75/2017), riportando nell’alveo del CCNL, dei CCNI e del secondo livello organizzazione del lavoro, mobilità, salario, sanzioni disciplinari, valutazione del personale. In ogni caso sarà necessario definire procedure chiare ed esigibili, rafforzando il ruolo delle RSU. In questo quadro, il salario accessorio deve prevedere una rilevante componente fissa, determinata dal CCNL, sulla base di criteri, mansioni o incarichi specifici. La parte variabile dovrebbe poi esser legata a indicatori collettivi di amministrazione.
- Il lavoro a domicilio, smart/agile e la Didattica a distanza devono trovare regolazione contrattuale: è necessario quindi superare il vincolo previsto dall’atto di indirizzo (che ne esclude la contrattazione se non su aspetti inerenti ai diritti fondamentali, comunque garantiti dallo Statuto dei lavoratori). Per il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario, il lavoro a domicilio, smart o agile, può rappresentare anche dopo l’emergenza occasione di riorganizzazione delle prestazioni lavorative, ma deve avvenire nel quadro di precisi vincoli collettivi volti a garantire diritti e libertà del singolo lavoratore/lavoratrice, i limiti di orario, la non intrusività di strumenti e programmi informatici, la copertura dei costi da sostenere, l’integrità dello stipendio e di tutti i suoi istituti connessi (come i buoni mensa). Per quanto riguarda la docenza, al di là del possibile utilizzo di strumenti digitali nel quadro delle proprie attività collegiali e di programmazione (che dovrà in ogni caso esser regolato), deve esser ribadito quanto previsto nel CCNI sulla didattica digitale integrata che limita la didattica a distanza unicamente alla specifica situazione eccezionale della pandemia. In ogni caso, in occasione del CCNL, devono esser rivisti i due principali punti dolenti del CCNI: l’assenza di un riconoscimento dei costi sostenuti e la parificazione del tempo di insegnamento a distanza/in presenza. Per questo, a tutti/e i lavoratori e le lavoratrici in lavoro agile e in DAD nell’ultimo anno deve esser riconosciuta una specifica una tantum forfettaria.
- Si rivendica siano mantenute, o ristabilite, le tutele conquistate nel passato: in particolare non dovrebbero esser introdotte penalizzazioni legate alla presenza, dovrà esser garantita la malattia (senza decurtazioni per patologie, ricoveri e terapie, e potendo pienamente usufruire di permessi legati alle condizioni di salute per visite, esami o prestazioni specialistiche, rimuovendo definitivamente quanto disposto della circolare 2/2014 del Dipartimento della FP) e dovranno esser mantenuti pienamente utilizzabili i permessi previsti dalla legge 104 (assistenza familiare).
- Gli aumenti contrattuali in enti e amministrazioni (università, Afam, EPR) devono esser coperti da trasferimenti dello Stato di pari entità, per evitare che i costi dei rinnovi pesino progressivamente in modo sempre più significativo sui loro bilanci, in modo differenziale e incidendo sulla loro operabilità e/o sulle condizioni del salario accessorio.
Sezione Scuola
- Si ribadisce il rifiuto di qualsiasi differenziazione stipendiale (tabellare e accessoria), al di là di quelle per anzianità e particolari condizioni di lavoro (disagio geografico come piccole isole e alta montagna, aree a rischio, a forte processo migratorio, cronica illegalità, ecc), da prevedere come retribuzione ulteriore solo per impegno orario o incarichi aggiuntivi. In questo quadro, si ritiene importante evitare nuovi meccanismi di progressione stipendiali e di carriera, anche indiretti.
- La particolarità della professione docente implica una quota rilevante di lavoro implicito autogestito (aggiornamento, programmazione, correzioni, ecc). Il tentativo di misurare/controllare questo lavoro, “portando a trasparenza” i diversi compiti, non è solo contradditorio con l’autodeterminazione tipica di una professionalità a forte componente cognitiva, ma è propedeutico a una diversificazione della stessa funzione docente (ponendo le basi per definire diversi profili, ad es. “istituzionali”, “progettativi”, “frontali”), con una possibile relativa futura differenziazione di carriera e/o di orario di lavoro. Per questo si ritiene fondamentale mantenere le attuali disposizioni, rivendicando l’autodeterminazione del lavoro docente.
- La formazione professionale deve essere in orario di servizio e affidato alla libera scelta individuale (diritto soggettivo, diversamente da quanto delineato nel PNRR). Se al di fuori dall’orario di servizio deve essere retribuito. Andrebbe inoltre prevista per i docenti la possibilità di un periodico anno sabbatico, da dedicare a studi e aggiornamento.
- La scuola è una comunità di diverse professionalità: è necessario valorizzare le funzioni A.T.A, prevedendo nuovi profili, eliminando ogni sottoinquadramento con percorsi formativi e di progressione di carriera, visto che i compiti nei settori amministrativi e tecnici rientrano tutti almeno nell’area C, per i collaboratori scolastici almeno nell’area As. In secondo luogo, è necessario adeguare gli organici A.T.A., anche di fronte alle nuove incombenze, con disposizioni precise per le sostituzioni in caso di assenze (sin dal primo giorno). Infine è necessario riconoscere il loro ruolo anche nella contrattazione di scuola, prevedendo una quota FIS del 30% riservata, oltre che meccanismi di partecipazione ai progetti.
Sezione Università
- L’esperienza della pandemia ha reso evidente l’urgenza di conquistare un livello nazionale di contrattazione integrativa, per mantenere da una parte omogeneità di condizioni lavorative, dall’altra valorizzare il profilo del sistema nazionale universitario, contro ogni deriva competitiva dell’autonomia: CCNI che dovrebbero regolare le linee guida per la sicurezza, il lavoro agile, criteri generali del salario accessorio, oltre che momenti di confronto sui principali atti della politica universitaria, come le Linee triennali di programmazione, la programmazione del personale e i criteri di distribuzione del FFO.
- Le progressioni orizzontali e verticali per tutto il personale che ne abbia requisito devono esser esigibili, superando gli attuali vincoli economici e normativi, prevedendo quindi un sistema di progressioni in tempi certi, che reintroduca di fatto un sistema di scatti di anzianità, come per gli altri lavoratori e lavoratrici del CCNL.
- Si dovrebbe consolidare una quota del salario accessorio (indennità annuale), con relative previsioni di salario differito (tredicesima e TFR), in riferimento alla media delle risorse complessive stanziate negli ultimi anni. In questo quadro, le risorse per incarichi e responsabilità dovrebbero esser a carico del Bilancio (e non del Fondo), fermo restando che i criteri per la loro attribuzione debbano esser trasparenti, esigibili, oggetto di preventivo confronto sindacale e successivo bando. Vanno poi ricondotti al contratto i sistemi di valutazione del personale, tendenti a incentivare il grado di cooperazione/collaborazione tra lavoratori e lavoratrici, con una valutazione collettiva a fronte di quella individuale.
- Il processo di inclusione nel CCNL, richiamato nella parte generale, nell’università dovrà tener conto anche delle necessarie revisioni normative (a partire dalla legge 240/2010) per cancellare, rendere a tempo indeterminato, ricondurre nel perimetro contrattuale o dello stato giuridico tutte le forme di lavoro “atipiche” diffuse negli atenei italiani (borse, assegni, RTD, ecc), dando a tutte queste figure un inquadramento nazionale che superi le autonome articolazioni di atenei dei rapporti di lavoro, prevedendo anche norme transitorie in un percorso straordinario di espansione del personale ruolo (in grado di ampliare le dimensioni dell’università e stabilizzare la bolla di precariato che si è gonfiata in questi anni).
Sezione Ricerca.
- Per le carriere dei Ricercatori e Tecnologi il documento: European Framework for Research Careers deve essere recepito ed integrato nel quadro normativo del nuovo CCNL.
- Si rivendica anche la conferma delle progressioni orizzontali e verticali per tutto il personale che ne abbia requisito, superando gli attuali vincoli economici e normativi, finanziandole anche con le risorse delle singole Amministrazioni. Vanno poi ricondotti al contratto i sistemi di valutazione del personale, tendenti a incentivare il grado di cooperazione/collaborazione tra lavoratori e lavoratrici, con una valutazione collettiva a fronte di quella individuale.
- Il processo di inclusione nel CCNL e stabilizzazione di tutte le forme di lavoro presenti negli EPR, dovrà garantire un uniformità nei trattamenti economici e normativi, nel pieno rispetto della Carta Europea che su salario e diritti recita: “I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero assicurare ai ricercatori condizioni giuste e attrattive in termini di finanziamento e/o salario comprese misure di previdenza sociale adeguate e giuste (ivi compresi le indennità di malattia e maternità, i diritti pensionistici e i sussidi di disoccupazione) conformemente alla legislazione nazionale vigente e agli accordi collettivi nazionali o settoriali. Ciò vale per i ricercatori in tutte le fasi della loro carriera, ivi compresi i ricercatori nella fase iniziale di carriera, conformemente al loro status giuridico, alla loro prestazione e al livello di qualifiche e/o responsabilità”. In questo quadro, tutte le forme di lavoro “atipiche” diffuse negli EPR italiani, compresi gli Assegni di Ricerca devono esser riportati nel perimetro contrattuale.
RiconquistiamoTutto-CGIL
nella FLC (Federazione Lavoratori della Conoscenza – CGIL)
Rispondi