Anatomia di un piano. Primi appunti sul PNRR. I
Analizzare il Piano Nazionale di Recupero e Resilienza, il recovery plan italiano, non è semplice e soprattutto difficilmente si è sicuri di aver fatto un lavoro completo. Non solo per la mole del testo (oltre 330 pagine), ma per la sua articolazione e densità: nel piano si dispiegano infatti molti interventi, alcuni di finanziamento altri di revisione normativa, in campi tra loro diversi e con un’evidente disomogeneità di argomentazione (ad esempio, vengono dettagliati anche per più pagine azioni molto specifiche e relativamente limitate, come il rilancio di Cinecittà o la costruzione di palestre nelle scuole, e viene liquidato in quattro righe quattro un piano da sei miliardi di euro per il dissesto idrogeologico).
Questo contributo, allora, non può che essere una prima nota. Un’iniziale guida di lettura, inevitabilmente parziale: perché qualcosa può essersi perso, sia nel dettaglio, sia nella visione di insieme (proprio perché, soffermandosi sui mille interventi, si può perdere alcune evidenze e, soprattutto, alcune mancanze: quello che dal piano è stato tralasciato, si è volutamente deciso di togliere o non si è mai pensato di inserire). Come vedremo, il PNRR peserà nelle dinamiche politiche, economiche e sociali dei prossimi anni, come nei rapporti di classe che le sottendono: sarà quindi importante che questi primi appunti siano rivisti, approfondendo collettivamente indirizzi e interventi che vi si dispiegano.
Analizziamo qui il PNRR prescindendo da ogni valutazione su questo strumento. Non ci nascondiamo, come area sindacale, che non è un semplice intervento anticiclico di rilancio degli investimenti e della spesa pubblica: il piano rientra infatti in una politica Europea, l’oramai famoso Next Generation Ue [NGEU], che prevede un intervento complessivo di 750 miliardi di euro, di cui 672 mld per la ripresa e resilienza (360 di prestiti e 312 di sovvenzioni); 47,5 mld per il React UE (37,5 mld per il 2021 e 10 per il 2022, per l’immediata reazione al coronavirus, su occupazione, sistemi sanitari e sussidi alle PMI) e il resto su una serie di specifici programmi (Sviluppo rurale, protezione civile, ricerca, ecc).

Come abbiamo sottolineato in una risoluzione presentata al Direttivo nazionale FLC, questo intervento in realtà non è particolarmente imponente, a partire dalla sua distribuzione in cinque anni (2021/2025). Inoltre, bisogna considerare che per il momento gli interventi a fondo perduto sono finanziati con l’emissione di titoli obbligazionari della UE, ma si porrà prima o poi il problema della loro copertura [ad oggi non ci sono accordi: basandosi sul sistema vigente di quote proporzionali al PIL, sarà necessario da parte dell’Italia un contributo ulteriore di circa 50 mld di euro, non così distante dai circa 70 che si riceve con il PNRR]. I prestiti UE sono poi condizionati: non solo finalizzati a specifici ambiti (come vedremo), ma messi in stretta relazione con le Raccomandazioni di politica economica della Commissione Europea. Quindi l’Unione usa questi fondi e questi prestiti per imporre una serie di specifiche riforme, come fece la BCE, Trichet e lo stesso Draghi, nel 2012: allora l’intervento per coprire l’Italia nella tempesta finanziaria fu condizionato ai tagli alla spese, le famigerate clausole di salvaguardia, la riforma delle pensioni (Fornero), la riduzione della spesa per gli stipendi del pubblico impiego, la liberalizzazione dei servizi; oggi questi fondi sono condizionati alla realizzazione di specifiche riforme che, come vedremo, vanno in simile direzione (Pubblico impiego, Giustizia, Semplificazioni e Liberalizzazioni). Nel contempo, la UE si assicura anche di perseguire politiche fiscali prudenti nel medio termine, assicurando la sostenibilità del debito e gli investimenti allo stesso tempo (Eurofin): non a caso il DEF 2021 prevede il progressivo ritorno al pareggio del nostro avanzo primario, riavviando nel tempo la logica del Fiscal Compact. Infine, questi fondi sono indirizzati soprattutto a politiche di supporto e sviluppo del sistema produttivo: nel quadro di una crescente competizione mondiale e di un’incipiente regionalizzazione delle filiere [entrambe sospinte dalla Grande Crisi scoppiata nel 2008/09] si vuole cioè rilanciare grandi investimenti pubblici per ristrutturare il sistema imprenditoriale. Lungi da rappresentare politiche di rilancio del ruolo dello Stato e della coesione sociale, tali interventi tendono cioè sostanzialmente a confermare le solite politiche economiche UE di impianto ordoliberale [uso dello Stato per garantire il funzionamento del mercato e dell’economia capitalista]. Vedremo quindi come nel piano questi due elementi (imposizione di “riforme” attraverso il vincolo europeo e finalizzazione all’impresa] non sono astratte considerazioni di principio, ma si traducono concretamente in politiche, interventi e azioni.
Nel valutare il PNRR, cioè, è importante rendersi conto che non è un grande intervento pubblico di matrice keynesiana. Questa lettura è stata coltivata in questi mesi da alcune forze politiche e da diversi commentatori. Anche il gruppo dirigente della CGIL vi ha alluso, ritenendo forse che fosse uno spazio per rilanciare quel nuovo piano del lavoro, definito un decennio fa all’inizio della Grande Crisi, che era realmente un intervento di matrice keynesiana centrato sulla spesa pubblica, la crescita della domanda aggregata, una politica di piena occupazione e rilancio dei servizi universali (sanità, scuola, trasporti, ecc). D’altra parte, proprio in questi mesi, la nuova amministrazione USA, dopo il suo traumatico insediamento, ha lanciato un suo piano che ha ben altro spessore rispetto a quello europeo: nelle dimensioni ma soprattutto nell’impostazione.
Nelle dimensioni: l’American Rescue Plan Act of 2021, già approvato, supera i 1.900 miliardi di dollari (il doppio del NGEU) e si prevede un impulso diretto all’economia di oltre il 3% sul PIL, ed un +2,6% sull’inflazione, già per il 2021 (non, come vedremo, nel 2026 come per il PNRR italiano). L’amministrazione Biden, inoltre, ha già delineato due ulteriori piani: l’American Jobs Plan e l’American Families Plan, ognuno di essi ben oltre i 2.000 miliardi di dollari (un piano di dimensioni realmente mastodontiche, complessivamente intorno al 30% dell’attuale PIL USA, che supera di gran lunga il New Deal di Roosevelt].
Nell’impianto: l’intervento dell’amministrazione USA è diretto in larga parte ai redditi ed al salario sociale, infatti oltre 424 miliardi di dollari (in pratica, metà del NGEU) sono impegnati per un versamento diretto di 1.400 dollari nei conti correnti dei cittadini sotto una certa soglia di reddito e all’estensione sino a settembre del sussidio straordinario di 300 dollari a settimana per i disoccupati. A questo si aggiungano detrazioni fiscali per i figli, fondi all’educazione, pasti scolastici (219 miliardi); aiuti alle amministrazioni locali, ospedali rurali, servizi di salute mentale e infrastrutture locali (350 miliardi). Anche se, ovviamente, non mancano anche e presti a banche ed imprese (249 miliardi). In pieno stile keynesiano, però, questi piani di colossali investimenti dovrebbero esser finanziati da una significativa ripresa della tassazione sulle imprese (a partire dalle grandi multinazionali).
Chi scrive è molto lontano da un impostazione keynesiana. Questa politica, liberale di sinistra, si pone sostanzialmente il problema di ricostruire le condizioni di funzionamento del mercato e quindi dell’accumulazione capitalista, rilanciando la domanda aggregata e la piena occupazione attraverso una spesa pubblica in deficit. Questa politica è stata storicamente ripresa da circuiti laburisti e riformisti, finalizzandola all’aumento del salario globale del lavoro (stipendi e servizi sociali), saldando così le letture economiche keynesiane con quelle marxiste che individuano le cause della crisi economica nella sproporzione e nel sottoconsumo (l’incapacità di acquisto dei beni prodotti). Personalmente, invece, ritengo che siamo di fronte ad un punto di inversione di un’onda lunga depressiva (Trotsky, 1921; Kondratiev 1925, Mandel, 1995): le dinamiche alla base dell’attuale crisi, cioè, sono quelle di fondo del modo di produzione capitalista, l’esaurimento della capacità di accumulazione dei capitali necessari a garantire una nuova valorizzazione (secondo le intuizioni di Henryk Grossman alla fine degli anni venti), quindi la caduta tendenziale del saggio di profitto e la sovrapproduzione di capitali (capitali cioè che non possono valorizzarsi). In questo quadro, le politiche di Biden possono avviare una nuova strategia di gestione della crisi (potenzialmente alternativa a quella liberale e a quella populista), ma non solo sono insufficienti ad invertire il ciclo, ma da una parte mettono ulteriormente sotto pressione i margini di profitto, dall’altro rischiano di sospingere dinamiche di competizione interimperialiste (come appunto avvenne con il New Deal rooseveltiano). Detto questo, mi è però chiara la distinzione tra una politica economica keynesiana e il NGEU, che mantiene invece l’impianto ordoliberale caratteristico delle istituzioni politiche ed economiche europee nell’ultimo trentennio.
Vediamo allora come queste riflessioni si concretizzano nel PNRR italiano, votato sabato dal Consiglio dei Ministri e che in queste ora attraversa una rapida quanto superficiale discussione parlamentare, per poter esser poi inviato alle istituzioni europee. In primo luogo, le sue dimensioni. Il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza (RRF) prevede l’uso di 191,5 miliardi di euro, da impiegare nel periodo 2021-2026, delle quali 68,9 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto e gli altri 122,6 di prestiti. Questi 120 miliardi di prestiti sostituiranno per 50 miliardi coperture di progetti già finanziati (cioè, in pratica, cambia la natura dei prestiti inglobando interventi già previsti), mentre solo 70 miliardi finanzieranno nuovi interventi. A queste risorse si aggiungono poi 13,5 miliardi del REACT-EU, da usare solo nel 2021/22 per spese sociali, sanitarie e di supporto alle imprese nella crisi covid. Inoltre, il governo Draghi aggiunge a questo ulteriori 30 miliardi di euro (il Fondo complementare), risorse integrative finanziate in deficit. Da segnalare, infine che circa il 40% delle risorse territorializzabili del Piano sono destinate alle otto regioni del Mezzogiorno (82 miliardi), a fronte comunque di un vincolo normativo che obbliga a prevedere per questi territori almeno il 34% degli investimenti ordinari destinati a tutto il territorio nazionale. Per il Rect-EU, invece, quasi 8,5 miliardi sui 13,5 sono rivolti al Mezzogiorno (quasi 2/3).
La struttura del PNRR. Il piano è organizzato su tre assi trasversali, sei missioni principali, 16 componenti [che a loro volta prevedono diverse azioni specifiche].
I tre assi sono la transizione ecologica [su cui c’è vincolo UE di almeno il 37% della spesa], l’innovazione digitale [su cui c’è vincolo UE di almeno il 20%] e l’inclusione sociale [pari opportunità, accesso al mercato del lavoro; assistenza sanitaria]. Vedremo, nella premessa e poi nelle diverse missioni, come tutti e tre gli assi hanno esplicitamente l’obbiettivo di contribuire a migliorare la produttività, la competitività e la stabilità macroeconomica (di fatto marginalizzando, nella qualità e nella quantità, gli interventi di sostegno ai servizi universali e di rilancio quindi del salario sociale).
Le sei Missioni del Piano sono digitalizzazione [3 componenti]; transizione ecologica [4 componenti]; infrastrutture per una mobilità sostenibile [2 componenti]; istruzione e ricerca [2 componenti]; inclusione e coesione [3 componenti]; salute [2 componenti]. Qui sotto lo tabella che riporta a livello generale la distribuzione delle risorse.

L’impianto di fondo di questo piano, in ogni caso, è esplicitato nella premessa del documento, poche pagine firmate personalmente da Mario Draghi. Il ragionamento si apre richiamando i principali elementi di fragilità dell’economia e della società italiana, anche precedenti al covid: tra il 1999 ed il 2020 il PIL è cresciuto solo del 7,9% [in Germania 30,2; in Francia 32,4; in Spagna 43,6], mentre la povertà assoluta è cresciuta dal 3,3% al 7,7% (prima di arrivare al 9,4% con la pandemia). Una vulnerabilità che è sociale (in particolare giovani e donne) come territoriale, in considerazione del cambiamento climatico. Il testo indica però esplicitamente che dietro a tutto questo, dietro la difficoltà dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali, c’è l’andamento della produttività. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 6,2 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo. Non solo: la premessa scava più a fondo sulle ragioni di questa dinamica della produttività e indica che è dovuta sia alla mancanza di infrastrutture adeguate, sia alla struttura del tessuto produttivo, caratterizzato da una prevalenza di piccole e medie imprese,..al calo degli investimenti [in particolare pubblici], che ha rallentato i necessari processi di modernizzazione della pubblica amministrazione, delle infrastrutture e delle filiere produttive. In questo quadro, si sottolinea la lentezza nella realizzazione di alcune riforme strutturali: giustizia civile e le barriere di accesso al mercato restano elevate in diversi settori, in particolare le professioni regolamentate.Si conclude quindi dichiarando che il NGEU può essere l’occasione per riprendere un percorso di crescita economica sostenibile e duraturo rimuovendo gli ostacoli che hanno bloccato la crescita italiana negli ultimi decenni.
Dalla premessa, cioè, si evince il profilo di classe del PNRR, come la sua coerenza con l’impianto ordoliberale del NGEU. Non è infatti un intervento espansivo che si propone di rilanciare la domanda aggregata, di sviluppare i servizi sociali universali, di impattare sulla dinamica delle Grande Crisi intervenendo sugli storici squilibri italiani. Lo si vede nel documento stesso, quando si deve stimare il suo impatto sull’economia e sulla società italiana.

Si stima nel 2026 un PIL più alto del 3,6% (circa 60/70 mld di euro). Un dato non particolarmente imponente, da diversi punti di vista: si raggiunge in cinque anni un differenziale di crescita che il piano Biden stima per il solo 2021; si recupera solo poco più di un terzo dei 150 miliardi di PIL persi nel 2020; emerge un effetto moltiplicatore che non appare proprio entusiasmante. Non solo: a fronte di una crescita differenziale degli investimenti significativa (anche a due cifre), si prevede nei primi anni addirittura un impatto negativo sui consumi (cioè, si pensa che il PNRR nei primi tre anni di intervento…ridurrà i consumi), che rimane ancora limitato nel 2026 (ben inferiore all’impatto sul PIL). L’impatto del piano è infatti rivolto ad altro.
In primo luogo, ci si propone di intervenire sulla produttività totale dei fattori, provando a risolvere alcune fragilità del sistema produttivo italiano cambiando lo Stato, per aumentare il tasso di crescita potenziale dell’economia italiana: cioè si propone di rafforzare competitivamente il tessuto industriale, nel quadro della Grande Crisi, con investimenti rivolti ad aumentare margini e possibilità di profitto, non di intervenire su redditi, consumi e domanda aggregata. Lo sottolinea lo stesso documento del PNRR, che prevede una crescita della componente del lavoro sostanzialmente ridotta nei prossimi anni, dando invece spazio al capitale e alla produttività totale dei fattori.

In secondo luogo, emerge quello che potremmo definire un profilo bonapartista del PNRR. Negli ultimi decenni, cioè, il blocco sociale dominante di questo paese ha conosciuto processi di frammentazione, non solo tra capitale e rendita, ma anche tra le diverse componenti del capitale (industria, commercio e finanza), tra le differenti dimensioni d’impresa (grande capitale, piccola media impresa, ceti professionali di vecchia e nuova generazione) e infine tra territoriali, settori, mercati di riferimento, diverse strategie di accumulazione. In questo quadro, nell’ultimo decennio abbiamo visto lo sfaldamento del grande capitale italiano, a partire dal tramonto del salotto buono intorno ad Agnelli, Pirelli Pesenti e Mediobanca, con progressive divergenze tra FCA, Essilor, Benetton, l’acquisizione straniera di Pirelli e Italcementi, i poli pubblici (ENI, ENEL, Poste, Leonardo e Fincantieri). Una frammentazione emersa con prepotenza anche nell’ultima stagione contrattuale, non solo nel settore alimentare. Queste frammentazione, in parallelo con lo sviluppo di movimenti reazionari di massa (5 stelle, Lega e Fratelli d’Italia), ha alimentato nell’ultimo decennio una continua riproposizione di tentativi bonapartisti o semibonapartisti [Monti, Renzi, Conte uno e Conte due, oggi Draghi]: ha richiesto cioè un potere in grado di farsi carico della gestione capitalistica della crisi, promuovendo una ristrutturazione sopra e talvolta contro questa o quella frazione delle classi dominanti, non dovendo porsi il problema di raccoglierne il consenso. La spinta bonapartista [con i suoi trasformismi, le sue improvvisazioni e anche i suoi tratti ridicoli] è quindi strutturale, rilanciata dalla Grande Crisi, dalle divisioni e dal logoramento dell’egemonia delle classi dominanti. Tutti questi bonapartismi (compreso quello di Draghi) sono comunque minori: non sono cioè basati su solidi apparati dello Stato e non hanno un proprio consenso di massa, per questo faticano a ribaltare gli assetti istituzionali e riorganizzare le stesse classi dominanti, nonostante non siano mai stati seriamente contrastati da un versante di classe (per la disorganizzazione della coscienza politica di massa, per la timidezza e la linea concertativa della CGIL, per il marasma della sinistra). Una radice di questa debolezza sta nelle stesse contraddizioni dell’Unione Europea: le diverse frazioni delle classi dominanti italiane si appoggiano su contrapposte tendenze europee (formazione di un blocco continentale in competizione con Cina e USA; disarticolazione nazionale tra i diversi imperialismi dell’Unione], trovando in queste diverse tendenze la forza per strutturarsi e quindi intralciare i tentativi bonapartisti che si ripetono.
Il PNRR intende cioè usare il vincolo esterno dell’Unione Europea per sospingere processi di trasformazione strutturale del paese (come d’altra parte in tutti i passaggi cruciali dell’ultimi trentennio: 92/94; 96/99; 2009/2012), a partire dalle Raccomandazioni specifiche che sono esplicitamente inglobate nel piano [vedi pagine 34-37], con particolare enfasi quelle 2019 (pre-pandemia): in particolare la CSR1 su una revisione fiscale prudente, volta ad assicurare la sostenibilità del debito ed attuare pienamente le passate riforme pensionistiche; la CSR2, con politiche attive del lavoro, volte in particolare alla partecipazione delle donne con accesso a servizi di assistenza all’infanzia; la CRS3, su investimenti R&S, infrastrutture, PA, digitale; la CSR4 sulla giustizia; la CSR5 sul risanamento del sistema bancario]. Diversamente dai passati tentativi bonapartisti, però, questa volta non si usa solo il bastone dei vincoli e dei tagli di bilancio, ma anche la carota di un consistente pacchetto di investimenti: lo scopo è quello di riorganizzare il sistema produttivo e la stessa struttura del capitale italiano, anche contro alcuni settori del blocco sociale dominante (a partire da PMI e professioni). Questo profilo bonapartista non è solo enunciato, ma è anche praticato. Non solo, come vedremo nella seconda parte di questo contributo, nelle diverse Missioni e Componenti, quanto (e forse soprattutto) nei suoi assi (in particolare con le le revisioni introdotte da Draghi).
Da una parte, questo bonapartismo si evidenzia nella gestione del PNRR. Il documento esplicita con chiarezza che la cabina di regia di tutto il piano risiede presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (con una struttura che sarà definitiva successivamente) e che il ruolo di coordinamento centralizzato per la sua attuazione ha sede nel Ministero dell’economia e delle finanze, ed in particolare nel Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato. Oltre il paese, oltre il Parlamento, ed oltre ogni ipotesi contiana, viene tutto centralizzato su due strutture, intorno a questi stessi apparti e quelle stesse persone che hanno praticato ed agito le politiche neoliberiste nell’ultimo trentennio (da Draghi a Franco, dal Britannia nel ‘92 alla lettera di Trichet nel 2012). Non è da sottovalutare, in questo quadro, quanto previsto a pagina 100 del piano, in cui si rafforza il ruolo del MEF nel controllo dei bilanci e della spesa (anche con nuove strutture organizzative per monitoraggio ex ante, in corso ed ex-post) al fine trovare spazi fiscali che consentano di rendere maggiormente sostenibili le dinamiche della finanza pubblica e di destinare risorse al finanziamento di riforme della tassazione e della spesa pubblica“. In poche righe il MEF (e in particolare la Ragionerie dello Stato) assume il ruolo di incontrastato controllore della politica economica italiana.
Dall’altra parte, questo bonapartismo si evidenzia nell’imposizione di quattro grandi riforme. Il PNRR, infatti, prevede di portare a termine (tramite l’approvazione di appositi decreti, DDL o leggi delega) quattro iniziative entro i prossimi tre mesi, di fatto ponendo la loro approvazione come condizione essenziale per il proseguimento del piano. Dopo un primo anticipo del 13%, infatti, le successive erogazioni della Ue avverranno ogni sei mesi, purché siano soddisfatte le condizioni e gli obiettivi intermedi (milestones) fissati dalla stessa Commissione Europea. Sia le sovvenzioni sia i prestiti europei, quindi, sono oggi condizionati all’approvazione di queste iniziative legislative e a una valutazione di merito delle istituzioni europee (sui cui già diversi commentatori prevedono epiche battaglie). Quali sono queste riforme? Pubblica amministrazione [Dl a maggio 2021, conclusione entro l’anno]; Giustizia [calendarizzazione in aula entro giugno, approvazione entro 2021]; Semplificazione [Dl entro maggio, conversione entro luglio 2021]; Concorrenza [DDL annuale per il 2021 in Parlamento entro luglio 2021, con alcuni interventi previsti per 2022 e 2023]. Cosa prevedono, in concreto?
Pubblica Amministrazione. Il documento del PNRR parte da un’analisi (per certi versi paradossale, visto la provenienza) degli effetti di dieci anni di tagli e blocco al turn over [ne abbiamo recentemente parlato al nostro seminario sui contratti nel pubblico impiego], rilevando sia l’invecchiamento sia l’assenza di circa un milione di pubblici dipendenti rispetto al quadro europeo [13,4 per cento dell’occupazione totale, contro il 17,7 per cento della media OCSE]. Per questo si propone quattro azioni, in relazione all’accesso, la buona amministrazione, le competenze e infine la digitalizzazione. In sostanza si propone una modernizzazione che richiama fortemente i principi del Dlgs 150 del 2009, cioè (non casualmente) della cosiddetta Brunetta. Si prevede in particolare che il personale sia definito e selezionato sulla base di competenze e non di conoscenze: si apre cioè la strada [intervenendo nuovamente per legge su materie strettamente contrattuali] a inquadramenti e percorsi di carriera più incerti, nelle mani delle Direzioni e non di meccanismi contrattuali. Per questo si richiama esplicitamente la necessitò di classificazioni giuridiche ed economiche basate sull’insieme di descrittori di competenze (incluse le soft skills) da utilizzare per comporre i diversi profili professionali, usando poi questi profili professionali quale “parametro di riferimento” per le politiche di assunzione. In questo quadro, e coerentemente ad esso, si prevedono due cose: una revisione dei percorsi di carriera della PA, che rimuove (come poi esplicitato in una delle missioni) alcuni impedimenti normativi all’apertura della mobilità dei dipendenti pubblici tra amministrazioni, nel rispetto delle esigenze delle amministrazioni [non dei dipendenti]; iniziative (in particolare nelle amministrazioni centrali, regionali e nei grandi comuni) per promuovere misurazioni delle prestazioni orientate ai risultati ottenuti (outcome-based performance), introducendo specifici incentivi alle performance, mettendo in pratica gli istituti contenuti nel D. Lgs. n. 150/2009 [prevedendo anche una revisione degli Organismi Indipendenti di Valutazione, che appunto oggi sovraintendono al processo di valutazione delle performance]. Inoltre, il piano prevede procedure rapide di assunzione di personale, precario, poi da consolidare (eventualmente) attraverso percorsi ad hoc. In questo quadro, è inoltre prevista una piattaforma unica della PA, con i profili di tutti i dipendenti in ruolo, e la riorganizzazione dell’offerta formativa, che viene deciso a priori che avverrà solo attraverso corsi on-line (MOOC) e sulle nuove competenze oggetto di intervento nel PNRR (a proposito del diritto soggettivo sancito dal recente patto per il pubblico impiego].
Giustizia. Viene sicuramente affermato che una giustizia giusta è un valore in sé, ma per precisare subito (e soprattutto) che una giustizia rapida e di qualità stimola la concorrenza, poiché accresce la disponibilità e riduce il costo del credito. In particolare, si stima che una riduzione della durata dei procedimenti civili del 50 per cento possa accrescere la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane di circa il 10 per cento [al di là della credibilità e della consistenza di questa previsione, su cui non mi pronuncio mancandomi dati e conoscenze, un’affermazione concretamente indicativa dell’impianto prima richiamato di questo PNRR]. Per questo, oltre ad aumentare magistrati e personale, si prevede l’istituzione di un Ufficio del processo [una struttura tecnica di supporto ai magistrati, su cui come vedremo nelle missioni sono previste importanti risorsi per le assunzioni, ovviamente anche qui a tempo determinato]. Inoltre, si intende rafforzare nei processi civili le soluzioni alternative (arbitrato, negoziazione, mediazione), anche attribuendo agli arbitri il potere di emanare provvedimenti di natura cautelare, intervenendo su crisi della famiglia anche non matrimoniali, prevedendo incentivi economici e fiscali alla mediazione. Nei processi si prevede una generale digitalizzazione e semplificazione delle procedure, anche di quelle esecutive, con uno specifico focus sugli immobili (in pratica, si accelerano gli sfratti). Invece sul contezioso tributario è tutto rimandato a specifiche commissioni del Ministro della giustizia e MEF [sugli sfratti c’è bisogno urgente di esecutività, sul contezioso tributario bisogna studiare bene la questione]. Infine, una parte consistente, e non irrilevante, è dedicata all’organizzazione: da una parte si prevede di estendere anche al penale l’individuazione di criteri di priorità nell’azione giudiziaria, stabiliti secondo specifiche linee guida definite dal Consiglio superiore della magistratura; dall’altra si ridefinisce composizione e compiti del CSM e si prevede di affidare maggiori responsabilità ai dirigenti di Uffici giudiziari e Procure della Repubblica, nella distribuzione dei ruoli e dei carichi, nella formazione di gruppo di lavoro, nelle priorità. Evidente il processo di centralizzazione dell’azione giudiziaria che da tutto questo conseguirebbe.
Semplificazione della legislazione. In termini generali, e quasi poetici, ci si appella alla necessità di chiarezza, comprensibilità e accessibilità della normazione, arrivando addirittura ad applicare, in via sperimentale e progressiva, i risultati provenienti dalle scienze cognitive e dalla economia comportamentale applicata [chi scrive insegna psicologia all’università e molto avrebbe da dire al riguardo: mi limito solo a far notare il progressivo degrado delle norme negli ultimi anni, che aprono ad infinite interpretazioni e contenziosi, quando basterebbe semplicemente usare forme sintattiche chiare e termini appropriati, senza avventurarsi in improbabili e temo cialtroneschi usi delle scoperte scientifiche]. La ciccia però è altrove: si delinea un imponente azione di semplificazione delle norme in materia di appalti pubblici e concessioni (antimafia, conferenza servizi, danno erariale per dolo, riduzione numero stazioni appaltanti, subappalto, divieto di proroga automatica degli appalti), come in relazione alle Valutazioni di Impatto Ambientale [per le opere previste dal PNRR si prevede una speciale VIA statale, ma più in generale si prevede discipline accelerate in via ordinaria], sull’uso del Superbonus per l’efficientizzazione delle abitazioni, per il credito d’imposta e altre agevolazioni nelle Zone economiche speciali (ZES), per la normativa anticorruzione. Credo sia evidente a tutti quanto questa adozione di procedure semplificate, in tempi così rapidi e sotto un’evidente spinta politica, possa determinare non solo utili sburocratizzazioni, ma anche processi di liberalizzazione a favore delle imprese e di un mercato selvaggio (dal mezzogiorno agli appalti). Tanto più che, proprio qui, trova sede il rafforzamento del ruolo del MEF nel controllo della spesa pubblica che richiamavamo prima, sotto il vincolo delle compatibilità macro-economiche e in coerenza con le priorità strategiche indicate nel Documento di economia e finanza. Un rafforzamento del ruolo del MEF che si colloca nel quadro di una revisione del sistema di definizione dei bilanci per tutte le pubbliche amministrazioni. In pratica, via a lacci e lacciuoli per l’iniziativa privata, ma stringiamo la vite del controllo sul settore pubblico (con una logica aziendale di definizione dei budget), riproponendo il solito impianto neoliberista degli ultimi decenni.
Infine, la promozione della concorrenza. Riprendendo temi e argomentazioni già emersi ai tempi della lettera Trichet/Draghi, si rilancia una nuova stagione di liberalizzazioni in nome della concorrenza. In particolare, si prevede di rivedere le barriere di accesso su concessioni idroelettriche, gas, autostradali, vendita energia, reti strategiche (banda larga e porti); si invoca dinamismo concorrenziale nel settore della gestione dei rifiuti; si delinea un Testo unico sui servizi pubblici locali in cui si preveda un ricorso più responsabile da parte delle amministrazioni al meccanismo dell’in house [cioè si limita questa possibilità, spingendo alla privatizzazione di servizi pubblici, a partire dai trasporti locali]. Infine, si prevede modalità e criteri più trasparenti nel sistema di accreditamento della sanità, anche con una verifica e una revisione periodica dello stesso, oltre che una riduzione dei poteri discrezionali eccessivamente ampi nella nomina dei dirigenti ospedalieri. Si interviene cioè contro professioni e settori regolamentati, nicchie di rendita e privilegio (pensiamo a cosa sono state negli ultimi decenni Autostrade], ma non per affermare una diversa concezione dei beni pubblici ed un loro uso estraneo alla logica del profitto, ma proprio per rilanciare la sua logica e il suo dominio.
Nel testo vengono anche riportate, con minor enfasi, altre cosiddette riforme. Scompare, rispetto a precedenti versioni, la legge sul salario minimo e la rappresentanza. Rimane invece la riforma fiscale [testo unico], con una possibile revisione dell’Irpef e l’obiettivo di razionalizzare il prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale ma preservando l’equilibrio dei conti pubblici. In questo campo, preoccupa il riferimento alle legge 42 del 2009: è il federalismo fiscale di Calderoli. Non sfugge infatti che il governo Draghi ha confermato nel DEF l’autonomia differenziata (bozza Boccia), inserendolo come DDL collegato alla Legge di Bilancio (quindi con corsia preferenziale): il suo completamento è la piena applicazione della logica del costo standard e dei fabbisogni standard (cioè della quantificazione e della budgetizzazione di ogni servizio pubblico). In questo modo si lega strutturalmente l’erogazione di ogni servizio alle compatibilità di bilancio, permettendo così una definizione di LEP e LEA, su cui è quindi possibile diversificare anche formalmente i servizi universali tra i territori. Non a caso il PNRR pone l’obbiettivo di concludere il processo entro il primo quadrimestre dell’anno 2026. In questo quadro, si inserisce anche il Family Act [la revisione del sostegno alle famiglie con figli], già in stato avanzato di iter parlamentare, che da una parte estende le proprie protezioni l’assegno unico e universale, ma dall’altro lo riduce proprio nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti (redistribuzione tra poveri e in alcuni casi dai poveri ai ricchi). Infine, si cita la riforma degli ammortizzatori sociali, che miri a semplificare le procedure di erogazione e ad ampliare l’ambito dei destinatari degli interventi di sostegno al reddito [senza esplicitare con nettezza una copertura universale, a pochi mesi dalla fine del blocco dei licenziamenti], prevedendo la valorizzazione ed il rafforzamento dell’integrazione con le politiche attive [secondo la solita regola dei sussidi condizionati, stile Harzt IV tedesca, che non tutelano pienamente e nel tempo degradano il mercato del lavoro, aprendo gli spazi per lavori instabili e mal pagati].
Non siamo ancora entrati nel cuore del PNRR. Però è già chiaro il suo impianto di classe, l’uso bonapartista per imporre alcune direzioni su cui non si ha il consenso neanche tra le classi dominanti, la sua logica ordoliberale che rischia come al solito di ricadere interamente sulle spalle del lavoro. Nella prossima parte, vedremo quindi i suoi interventi concreti.
Luca Scacchi
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