RT in FLC: il PNRR rilancia politiche di austerità, un’istruzione e ricerca neoliberiste

Ordine del giorno alternativo sul recovery plan, presentato da RT all’Assemblea Generale della FLC del 14/15 gennaio 2021.

Nella riunione dell’Assemblea Generale FLC del 14 e 15 gennaio scorso, la segreteria nazionale della FLC ha presentato un ordine del giorno sulla bozza di recovery plan [Piano nazionale di Ripresa e Resilienza]. Questo testo presentava una serie di considerazioni e critiche sostanzialmente corrette sul settore dell’istruzione e della ricerca [anche se parziali sulla formazione professionale], ma che nel contempo non inquadrava queste considerazioni in un profilo complessivamente critico del PNRR e delle politiche che lo hanno definito a livello europeo. Come RiconquistiamoTutto nella FLC abbiamo allora presentato un ordine del giorno alternativo, che riprendendo sostanzialmente le osservazioni sul settore proposte dalla maggioranza della FLC (integrandole sulla formazione professionale), ma le reinquadrava in una valutazione complessiva negativa del PNRR e delle politiche di debito ad esso sottese. Qui sotto, il testo del nostro odg, disponibile qui anche in .pdf.

Ordine del Giorno sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

L’Assemblea Generale della FLC Cgil, riunita i giorni 14 -15 gennaio 2021 in merito al primo testo approvato dal governo sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) esprime le seguenti valutazioni.

Le risorse messe in campo sono apparentemente imponenti: circa 209 miliardi di euro tra prestiti [127 mld] e trasferimenti [82 mld], a cui si aggiungono quelle del React EU [13 mld] e del nuovo Quadro Finanziario Pluriennale [QFP, il bilancio Europeo], per un totale di 310 miliardi. Sembrerebbe quindi delinearsi un intervento straordinario, potenzialmente in grado di ribaltare la struttura del paese. Un intervento che vedrebbe un ruolo inedito proprio dell’Unione Europea nell’avviare un riequilibrio continentale, superando così l’impianto liberale che l’ha sinora contraddistinta.

Un’analisi più attenta traccia però un quadro ben diverso.
In primo luogo, le risorse effettivamente in campo sono di altro ordine. Non sono disponibili subito ma sono distribuite in un arco di tempo (2021-2025 il NGEU, 2021-2027 il QFP), diluendo quindi negli anni il loro impatto [non a caso la Nadef stima il loro effetto sulla crescita in termini trascurabili: 0,3% del PIL nel 2021, 0,4 nel 2022 e 0,8 nel 2023]. Poi i trasferimenti [82 mld sui 390 mld complessivi] dovranno esser finanziati dall’Unione: non esistono oggi accordi, ma basandosi sul sistema vigente sarà necessario da parte dell’Italia un contributo pari a 50 mld di euro. Inoltre, i prestiti impatteranno sul debito (come confermato dalla Commissione UE) e quindi una loro parte (65 miliardi: la metà) saranno destinati ad interventi già in essere (cioè non sono risorse aggiuntive). Per quanto riguarda il QFP, infine, bisogna considerare che il nostro paese è un contribuente netto: versa circa 20 mld di euro in più di quanto riceve [comunicazione del PdCM alla Camera, 2 dicembre 2020].
In secondo luogo, i prestiti UE sono condizionati. Non potranno esser rinnovati a scadenza (quindi bisognerà accantonare interessi e capitale) ed infatti l’Eurofin ha ricordato come gli Stati membri dovranno “perseguire politiche fiscali prudenti nel medio termine, assicurando la sostenibilità del debito e gli investimenti allo stesso tempo”. Non a caso la Nadef prevede che entro il 2023 il nostro avanzo primario torni in pareggio e il nostro rapporto deficit/PIL scenda sotto la soglia del 3 per cento. Questi prestiti saranno quindi usati per riavviare la logica del Fiscal Compact, proprio perché lo stesso NGEU prevede l’obbligo di rispettare raccomandazioni specifiche per paese [Green Deal, digitalizzazione ma anche politica fiscale, mercato del lavoro, welfare, pensioni], al di là del cosiddetto “freno di emergenza” se non si seguiranno i piani approvati o se si sarà insoddisfatti sulle riforme richieste. Il pericolo è cioè che queste risorse siano funzionali a proseguire e perseguire quelle politiche di austerità che abbiano conosciuto negli ultimi decenni, pesando nei prossimi anni sui salari globali e sui servizi sociali, sul lavoro e sulle le classi subalterne. Il debito che viene contratto oggi con il PNRR andrà cioè ripagato: per noi però, oltre e contro le attuali condizioni UE, a pagare dovranno esser le banche, il capitale finanziario e quello produttivo, che in questi anni hanno accumulato profitti proprio ai danni di lavoratrici e lavoratori.
In terzo luogo, sia nelle indicazioni europee sia nei testi del governo, i fondi sono indirizzati soprattutto a politiche di supporto e sviluppo del sistema produttivo: nel quadro di una crescente competizione mondiale e di un’incipiente regionalizzazione delle filiere [entrambe sospinte dalla lunga crisi scoppiata nel 2008/09] si vuole cioè rilanciare grandi investimenti pubblici per ristrutturare il sistema imprenditoriale privato. Lungi da rappresentare politiche di rilancio del ruolo dello Stato e della coesione sociale, tali interventi tendono sostanzialmente a confermare le solite politiche economiche UE di impianto ordoliberale [uso dello Stato per garantire il funzionamento del mercato e dell’economia capitalista].

In questo quadro complessivo, una delle 6 missioni in cui si articola il Piano è specificatamente dedicato all’Istruzione e Ricerca, con un impegno di spesa pari 28,5 miliardi di cui 16,72 per la componente “Potenziamento delle competenze e diritto allo studio” e 11,77 miliardi per la componente “Dalla Ricerca all’impresa”. Certo, non pochi degli interventi/obiettivo previsti hanno dei titoli condivisibili: alloggi per studenti, borse di studio e accesso gratuito all’università, fondo tempo pieno, riduzione dei divari territoriali nelle competenze e contrasto all’abbandono scolastico, potenziamento scuole dell’infanzia e sezioni primavera, piano asili nidi e servizi integrati, ecc. Ma questi titoli rientrano in un diverso impianto generale e non casualmente a molti di questi titoli non corrispondono interventi coerenti, mentre il quadro valoriale di riferimento è pesantemente condizionato dalle politiche neoliberiste che hanno caratterizzato le scelte dei governi degli ultimi decenni:

  • nel Piano non vi è la piena consapevolezza che i bassi investimenti in Istruzione e Ricerca, a cui conseguono livelli di istruzione insoddisfacenti, sono tra le principali cause che hanno impedito e impediscono lo sviluppo e il rilancio del Paese;
  • viene disegnato un modello di lavoro pubblico tutto rivolto verso la misurazione e la valutazione della performance individuale, che auspica l’eliminazione degli automatismi stipendiali, che prevede meccanismi di rafforzamento del ruolo e delle competenze dei dirigenti pubblici, che si pongono in piena continuità con le politiche di brunettiana memoria che hanno avuto nella scuola la loro piena realizzazione con la Legge 107;
  • viene disegnato un rapporto tra istruzione e lavoro che ripropone l’idea di percorsi di studio funzionali alla formazione di manodopera per l’impresa, dimenticando che il basso livello di innovazione dei processi e dei prodotti delle nostre imprese e la velocità delle trasformazioni delle conoscenze è tale che finisce per produrre inevitabilmente la riduzione dei livelli di istruzione e il pesante ridimensionamento dei percorsi tecnici e professionali. Addirittura in tema di Ricerca non vi sono neanche infingimenti. Il titolo della componente è assai eloquente: “Dalla Ricerca all’impresa”.

A ciò si aggiunga che il tema dell’istruzione degli adulti e dell’apprendimento permanente è sostanzialmente articolato in una nuova gerarchizzazione classista del sistema dell’istruzione, in cui il livello alto è sempre più multidisciplinare (scuole, università e collegi d’eccellenza), il livello basso sempre più centrato sulle microcompetenze e le certificazioni (tecnici e professionali, ITS, corsi di laurea professionalizzanti e formazione continua).

Non a caso le riforme che devono accompagnare l’attuazione del PNRR disegnano un modello di scuola anche questo regressivo, molto vicino al quello previsto dalla Legge 107, che la categoria ha già respinto e che comunque non è affatto utile al Paese. Esemplare a tal proposito è il richiamo alla carriera dei docenti “più dinamici e capaci” e alla possibilità di crescere “in ruolo” che prefigurano una figura del docente solitario e in perenne competizione.

Serve per noi assumere un diverso e alternativo impianto sulle politiche relative all’istruzione e alla ricerca, a partire da alcuni degli obiettivi strategici che ci siamo posti in questi anni: realizzare l’obbligo scolastico gratuito dai tre fino ad almeno i diciotto anni, consentire a tutti la possibilità di frequentare l’università, rilanciare la ricerca di base e rendere la formazione, la riqualificazione continua, il lifelong learning una garanzia di nuove tutele e di sicurezza economica per il lavoratore. Per fare questo chiediamo come FLC CGIL che, nell’arco di un tempo ragionevolmente breve, l’istruzione e la ricerca diventino una delle priorità delle politiche nazionali con l’incremento dell’1% del PIL delle risorse rispetto a quelle attualmente impiegate. Nel contempo la FLC CGIL continuerà la sua lotta per la riduzione del fenomeno del precariato che ha assunto dimensioni senza eguali, per un sistema di reclutamento equo e di qualità, per la difesa del CCNL e della contrattazione contro qualsiasi tentativo di legificazione del rapporto di lavoro.

La FLC CGIL chiederà quindi radicali modifiche dell’impianto del recovery plan, a partire dalle parti relative all’apprendistato duale, all’istruzione tecnica e professionale, agli ITS, alle lauree professionalizzanti e ai dottorati industriali, che testimoniano un rapporto subalterno con il mondo dell’impresa. La FLC CGIL in sinergia con la confederazione si impegna inoltre a a migliorare gli interventi maggiormente condivisibili:

  • le risorse per la scuola dell’infanzia devono essere finalizzate a creare un ponte verso l’obbligatorietà e l’incremento in tutto il Paese delle sezioni statali. In questo contesto devono essere rese ordinamentali le sezioni primavera anche come strumento per combattere gli anticipi fortemente incentivati dalle norme vigenti;
  • il fondo per il tempo pieno deve essere utilizzato per l’incremento dello specifico modello pedagogico e ordinamentale nella scuola primaria evitando derive verso un ruolo sussidiario del terzo settore e, al contrario, a favore dell’incremento delle dotazioni dei docenti;
  • occorre rendere stabili gli interventi su un organico potenziato per la riduzione dei divari territoriali e il contrasto all’abbandono scolastico;
  • è necessario prevedere interventi più puntuali sull’orientamento nel sistema di istruzione e tra quest’ultima e i percorsi terziari;
  • occorre puntare sulla totale gratuità dei percorsi universitari.

Vincenzo Cimmino, Anna Della Ragione Monica Grilli, Francesco Locantore e Luca Scacchi

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