L.Scacchi: Draghi, il patto e la CGIL.
Come hanno detto già molti altri compagni e molte altre compagne, io credo che serva una maggior discussione tra di noi, nel Direttivo nazionale. Serve una maggior discussione forse anche nei momenti in cui serve discutere, prima di firmare gli accordi e nelle dinamiche delle situazioni [non a posteriori].
L’ultimo Comitato Direttivo è stato due mesi fa e abbiamo discusso a lungo della crisi di governo in corso, per affermare e confermare la contrarietà della CGIL a qualunque governo di unità nazionale o del presidente. Una posizione che poi, come dire, è cambiata o è stata travolta dagli eventi nel giro di pochi giorni. Per arrivare alla fine ad accogliere e appoggiare l’alto profilo del nuovo presidente del consiglio Mario Draghi.
Guardate, io sono intervenuto a quel direttivo ritenendo che fosse sbagliato il sostegno dato a Conte in quella dinamica della crisi. Perché era già evidente, e forse oggi in alcuni interventi lo si è richiamato, che il profilo e l’azione di quel governo non era dalla parte del lavoro. Lo abbiamo visto nella legge di bilancio 2021, lo abbiamo visto in un recovery plan (Piano nazionale di recupero e resilienza) scritto in maniera di autistica in ristretti circoli di governo e forse non solo, lo abbiamo visto in tutta la gestione della scuola (come ricordato da Francesco Sinopoli, segretario generale FLC, qualche intervento fa). Lo abbiamo visto, in sostanza, nel profilo padronale e semibonapartista, un po’ straccione e improvvisato, di quel governo.
Non credo però ci siano opportunità migliori nel governo Draghi, come forse qualcuno mi sembra abbia detto. Per il suo profilo e per le sue azioni.
Il Patto sociale sulla Pubblica Amministrazione. Prendiamo innanzitutto in considerazione l’azione che, come dire, sembra aver dato un sapore diverso a questo esecutivo o, se non altro, a questa discussione. Io credo abbia molto ragione Maurizio [Landini] nella sua relazione, quando sottolinea che questo è un accordo politico. Ma io credo, come ha detto Serena [Sorrentino, segretario generale FP] che non è solo un accordo politico, ma un accordo che fissa alcuni principi per la riforma organizzativa del pubblico impiego e quindi anche dei contratti nazionali. Qualcosina di più (e di diverso) dall’accordo di Palazzo Vidoni del 2016, che tracciava semplicemente alcuni elementi salariali e sul successivo rinnovo contrattuale. Il documento di oggi, appunto, cerca invece di fissare alcuni principi, un’asse di intervento, per modificare l’insieme della pubblica amministrazione.
In questo quadro, non è che non veda alcuni elementi sindacalmente positivi, qui sì di carattere contrattuale o con possibili ricadute contrattuale, contenuti in quel testo: i 700 milioni per la revisione degli inquadramenti, la contrattazione sul lavoro agile, la flessibilità dei fondi. Però, appunto, siccome non è un accordo sindacale, ma un testo che fissa dei principi, il punto è andare a vedere quali assi sono tracciati dal testo. E qui ci sono alcuni punti che sono scritti in quel testo. Non sono presenti nelle dichiarazioni di Brunetta, nelle nostre impressioni o timori sulle interpretazione della controparte. Sono scritti in quel testo e con quel testo aprono degli spazi contrattuali e di riforma della pubblica amministrazione che io non ritengo positivi. Anzi, delineano un nucleo per noi poco accettabile.
Il primo elemento lo sottolineava la segretaria regionale della Lombardia [Elena Lattuada]: diciamo così, il problema della vaghezza degli impegni e delle determinazioni sulle assunzioni nel pubblico impiego. Vaghezza non solo dei numeri (lo hanno detto anche altri interventi, non si capisce esattamente che tipo di processo di reclutamento è previsto, quante sono le nuove assunzioni, se si superano i tetti del cento per cento del turn over attualmente vigenti oppure se si rimane nei suoi confini, ecc), ma anche nelle modalità (come saranno assunti, delineando percorsi molto vaghi e molto ambigui, con diciamo così la rinnovata precarietà di nuove assunzioni a tempo determinato e soprattutto con confini poco chiari tra il perimetro pubblico e quello privato).
Il secondo elemento, evidente, è la centralità della premialità. I contratti di secondo livello, viene scritto nero su bianco, dovranno valorizzare la produttività. Portando cioè nei settori pubblici quelle logiche, e quei meccanismi contrattuali (a partire dalla defiscalizzazione dei premi basati sulla produttività), che si sono diffusi nei CCNL privati negli ultimi dieci anni. Però con due grandi elementi di differenza. Nel pubblico impiego non viene cambiato il DL 150/2009 [con i susseguenti decreti Madia, DL 74 e 75/2017] e quindi non vengono cambiati i limiti normativi che prevedono una distribuzione particolarmente differenziata ed ineguale della premialità, in cui certo sono superati le quote rigide della Brunetta del 25, 50 e 25 per cento ma rimangono comunque degli obbiettivi di Legge di differenziazione delle premialità [il contratto collettivo, infatti, secondo la riformulazione prevista dal DL 74/2017 dell’art 19, comma 1 del DL 150/2009 stabilisce che comunque il contratto deve definire “la quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente, la performance organizzativa e quella individuale” e i “criteri idonei a garantire che alla significativa differenziazione dei giudizi di cui all’articolo 9, comma 1, lettera d), corrisponda un’effettiva diversificazione dei trattamenti economici correlati”, fermo restando che per i dirigenti e per il personale responsabile di un’unità organizzativa deve essere attribuito agli indicatori di performance organizzativa un peso prevalente nella valutazione complessiva]. Inoltre, nel pubblico, non possiamo contrattare l’organizzazione del lavoro, differentemente da quello che avviene nel privato. Nel patto, infatti, viene confermato (come previsto nel DL 150/2009 e nei decreti Madia) che l’organizzazione del lavoro rimane elemento di confronto sindacale e non di contrattazione [cioè, di un istituto che prevede un semplice tavolo di comunicazione delle reciproche opinioni e valutazioni sulle scelte della dirigenza, ma non di intervento sindacale e, appunto, contrattazione].
In questo contesto, allora, proprio l’elemento della defiscalizzazione oltre che del welfare, di cui hanno parlato più in dettaglio altri interventi, diventa lo strumento per ridisegnare una nuova pubblica amministrazione, focalizzando su questo i contratti di secondo livello, che come ha affermato Brunetta [qualche giorno dopo sul Foglio] è una pubblica amministrazione che divide lavoratori e lavoratrici tra furbetti ed operosi. Qui c’è quindi un elemento, un principio, molto negativo e che rischia di ingabbiare tutta la prossima contrattazione del pubblico impiego, da una parte dividendo il lavoro, dall’altra rendendo una quota sempre più significativa del loro stipendio variabile e basata su prestazioni individuali.
Il punto, al fondo, è la valutazione di questo governo e della sua azione. Non è solo il patto, è questo esecutivo che in realtà non è di alto profilo. Lo ha già detto Giacinto [Botti] prima di me, ma anche Maurizio Brotini: c’è un problema di composizione di questa maggioranza. Non è solo Brunetta, Gelmini, Cingolani o Giavazzi. Anche se già in sé questa presenza della Lega [reazionaria] e della destra liberista è significativa e preoccupante, a partire dal ruolo di Giorgetti [che sintetizza entrambe queste caratteristiche]. C’è un problema complessivo di apparato di governo: noi abbiamo oggi un generale in servizio che gestisce l’emergenza vaccinale [davvero non abbiamo niente da dire su questa militarizzazione delle funzioni civili?]. Lo ha richiamato credo proprio Giacinto [Botti], abbiamo un Comitato Tecnico Scientifico che non solo viene oggi lottizzato su base politica, ma in cui vengono inseriti personaggi senza nessun profilo scientifico [che poi, infatti, si dimettono] ma anche alcuni che il giugno scorso andavano a rivendicare la conclusione dell’emergenza sanitaria.
Un governo che sulla scuola non sta facendo nulla. Francesco [Sinopoli] ha fatto alcune precisazioni nel suo intervento. Ha riferito del confronto Bianchi e vedremo i suoi risultati: questo confronto, in ogni caso, è tutto sostanzialmente spostato su settembre. Il problema però è oggi. In questa situazione, la scuola è costretta ad andare in didattica a distanza, non si riesce a gestire una scuola in sicurezza nei diversi cicli, perché per ora non si è fatto nulla. Noi ora abbiamo ancora protocolli di sicurezza che non prevedono mascherine Ffp2. Abbiamo ancora distanze di un metro fra rime buccali, quando l’ISS scrive che per mangiare sarebbero opportuni i due metri di distanza (che nelle mense, nelle scuole, non sono per nulla). La situazione della scuola oggi, cioè, è esattamente quella di prima, quella della seconda ondata e dell’autunno scorso. E nel momento in cui il ministro Bianchi ha aperto la discussione, nello stesso momento, il Ministero dell’Istruzione ha confermato per il prossimo anno scolastico gli stesso organici di quest’anno. Anzi, per la precisione, qualche centinaio di cattedre in meno (su oltre 700mila). Allora si affronta il prossimo anno scolastico senza andare non solo allo smezzamento delle classi, ma neanche prevedendo una minima riduzione del numero di studenti per classe, uno smantellamento delle cosiddette classi pollaio. Senza pensare all’aumento del tempo pieno nelle primarie. Cioè, senza prevedere una trasformazione qualitativa della vita della scuola: non solo e non tanto il recupero di qualche settimana con più o meno improbabili prolungamenti estivi dell’anno scolastico, ma la costruzione reale di un diverso e più congruo ambiente formativo, con classi più piccole, più a misura di apprendimenti e relazioni sociali.
Un governo che ha gestito in modo approssimativo e scandaloso le vaccinazioni. Non solo le relazioni pericolose con le multinazionali farmaceutiche, non tanto (e sarebbe già tanto) l’incredibile gestione del caso Astrazeneca, ma lo hanno sottolineato diversi interventi, la questione del Titolo V. La questione cioè della regionalizzazione di fatto del Sistema Sanitario Nazionale, che ha portato ad una gestione incredibilmente differenziata del piano vaccinale, con criteri e priorità diversi a seconda dei territori (portando cioè a privilegiare i docenti in Puglia e gli anziani a Bolzano).
Un governo che, come sottolineato nella stessa relazione, ha definito le sue prime iniziative di politica economica con un chiaro segno di classe. Se andiamo a guardare il DL Sostegni, oltre le ambiguità e le vaghezze sottolineate da molti sul blocco dei licenziamenti, oltre l’imbarazzante condono generalizzato, come ha detto lo stesso Draghi tre quarti dei 32 miliardi di euro sono destinati alle imprese, cioè ai padroni.
Il problema, allora (e chiudo), è costruire una diversa relazione con questo governo. Davanti ad una competizione mondiale sempre più stringente, con una precipitazione delle conflittualità tra Cina e Stati Uniti, l’accorciarsi delle filiere produttive e lo stingersi di aree e blocchi commerciali contrapposti, il rischio è che il pubblico venga rimesso al centro [lo Stato acquisisca un nuovo ruolo politico ed economico] non nel quadro di un diverso modello di sviluppo o di reali alternative sociali, ma come elemento per sviluppare la produttività totale dei fattori. Cioè queste politiche, come il recovery plan, si propongono di riformare la pubblica amministrazione ed il ruolo dello Stato per sostenere semplicemente il sistema imprenditoriale, il capitale italiano, nella competizione globale.
Rispetto a questo, allora, è necessaria una svolta della CGIL. Bisogna evitare che il sindacato sia inglobato in questo nuovo uso capitalista delle strutture pubbliche, come semplice strumento sussidiario alla produzione. Qui si pone il richiamo, come già sottolineato da diversi altri interventi di compagni e compagne, alla necessità di sviluppare una reale autonomia e indipendenza da questo governo, di costruire nei prossimi mesi una mobilitazione di massa per difendere gli interessi del lavoro, contro questo governo e le sue politiche.
Luca Scacchi
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