ILVA: tanto tuonò che piovve!

(Michele Amoruso/Pacific Press via ZUMA Wire)

Tutta la vicenda ILVA è stata gestita con fandonie, faccia tosta, approssimazione e improvvisazione. Lo si era capito da tempo: sono state lanciate moltitudini di promesse contraddittorie, salvo poi smentirle tutte facendo più confusione che in una partita di ragazzini. Prima hanno promesso bonifiche, salute e lavoro, alludendo a chiusure, riconversioni, possibili nazionalizzazioni ed in ogni caso una forte supervisione pubblica. Poi hanno dato la fabbrica in mano ai soliti noti, una grande multinazionale, cioè a dei padroni, con i loro interessi privati. Padroni che hanno ovviamente imposto un pessimo contratto (firmato da quasi tutti i sindacati, compresi FIOM e USB) che scaricava il più possibile i costi della transizione su lavoratori e lavoratrici (con più di 3mila licenziamenti; la rinuncia alle garanzie dell’art 2112 sulla cessione dei rami di azienda, cioè la piena continuità delle loro condizioni e inquadramenti; la riduzione di premi e salari, l’incertezza sui tempi del risanamento ambientale). Per poi gestire come sempre la fabbrica: spremendo con il massimo del controllo e dello sfruttamento i lavoratori e le lavoratrici e rallentando o tralasciando la necessaria manutenzione o ristrutturazione, con l’inevitabile coda di morti sul lavoro sempre uguale a se stessi.

Per di più, dopo aver concesso a questi padroni ed al loro management l’immunità (anche penale) per poter continuare a sfruttare ed inquinare senza rischi, in attesa di una garanzia per la salute di tutti/e sempre rimandata nel tempo, hanno iniziato a giocare con essa: ora c’è, ora non c’è, ora c’è ma non si vede. Sperando magari che una multinazionale come ArcelorMittal, di fronte a questo gioco, tirasse fuori qualche asso dalla manica. Ed alla fine, con un colpo di mano, si è cercato di mettere all’angolo il gruppo indiano in una sorte di “prendere o lasciare”. Et voilà: di fronte alla crisi dell’acciaio (che ha reso evidente la sovrapproduzione mondiale, compresso i prezzi e colpito anche Taranto nelle sue prospettive produttive), oltre che al fermo intervento della Magistratura sul controllo dei processi produttivi (che potrebbe portare a breve alla chiusura dell’altoforno due, cuore produttivo dell’azienda), ArcelorMittal ha scelto di ribaltare il tavolo. Come c’era da aspettarsi, cioè, ha scelto di garantire i propri interessi ed i propri profitti, come ogni padrone che si rispetti.

Nulla di cui stupirsi. I padroni conoscono il loro mestiere. Il problema è quello di un governo dalle idee confuse, sempre e solo alla ricerca di un nuovo padrone a cui cedere la patata bollente, sempre cercando di tenersi la faccia pulita per calcoli elettorali. Si pensi solo al Partito democratico, che dopo aver fatto carte false per cedere a Mittal gli stabilimenti di Taranto, Genova, Novi Ligure e altri (immunità compresa), ha votato un emendamento di soppressione di quella stessa immunità, nella logica del più bieco trasformismo. Si pensi al Movimento 5 stelle, un concentrato di contraddizioni, cambi di posizioni e capriole varie: prima ha vinto le elezioni del 4 marzo 2018 (raggiungendo a Taranto oltre il 50% dei voti), con la posizione di chiudere l’Ilva; poi è stato il protagonista della definitiva cessione ad ArcelorMittal, mantenendo l’immunità; successivamente ha cambiato idea e ha ristretto l’immunità ai soli impianti da ristrutturare, infine il colpo di scena della presentazione dell’emendamento soppressivo sulla immunità. La rescissione del contratto è stato l’epilogo inevitabile di una vendita che non ci sarebbe dovuta essere. Uno stabilimento come quello di Taranto fa gola a tanti per il mercato che copre. Le crisi successive che hanno investito la siderurgia hanno però reso quella nostrana sempre più debole, nel quadro della necessità di ristrutturazioni sempre più radicali, avanzate e costose, che Mittal può affrontare ma non a tutti i costi! Perchè la centro ha comunque, in primo luogo, i propri interessi ed i propri profitti. Tant’è che in queste stesse ore, qui e là, emerge l’ipotesi di rivedere l’accordo con Mittal, concedendogli proprio una sostanziale revisione dei suoi costi (dall’affitto in corso al prezzo finale di acquisto, ma soprattutto scaricando come al solito questa riduzione su lavoratori e lavoratrici, con altre migliaia di licenziamenti e magari un’ulteriore riduzione dei salari).

La nostra idea è un’altra. Pensiamo che un gruppo come l’Ilva per continuare a garantire la produzione, per essere radicalmente ristrutturato in modo da renderlo il meno nocivo possibile, per mantenere e rilanciare l’occupazione, debba essere un gruppo pubblico: debba cioè esser nazionalizzato sotto il controllo dei lavoratori, operai, tecnici che sono coloro che già lo hanno reso produttivo. Lo stabilimento di Taranto, come tutti gli altri del gruppo, deve cioè esser portato nelle mani cioè di quelli che hanno tutto l’interesse a renderlo funzionante e non inquinante. In quanto sono proprio i lavoratori e le lavoratrici, che per primi ne subiscono il danno, che hanno tutto l’interesse a tenerlo in funzione nel migliore dei modi.

RiconquistiamoTutto!
area programmatica congressuale della CGIL

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