Ripartire dai luoghi di lavoro, ricomporre l’unità del lavoro
Grazie Renato [Comanducci, presidente dell’Assemblea], care compagne e cari compagni,
io credo che il lavoro complicato di presentazione delle 11 schede di Francesca [Ruocco, responsabile organizzazione della FLC] e la relazione politica di Francesco [Sinopoli, segretario generale FLC] abbiano provato a focalizzare, a mettere al centro della nostra discussione, quello che è il nocciolo della prossima conferenza di organizzazione. Io credo che sia esattamente nel rapporto tra confederazione, categorie e servizi della CGIL, nel cercare di tenere insieme nel contempo una rappresentanza specifica del mondo del lavoro [l’insieme delle condizioni e delle rivendicazioni dei diversi settori, professioni e livelli in cui si articola il lavoro] e però di anche dare voce (mi pare che Francesco lo abbia detto abbastanza chiaramente nella sua relazione) a quelle che sono le istanze e gli interessi generali del lavoro in questa società, antagonisti rispetti a quelli del capitale.
Guardate, non è una risposta semplice: questa è la terza conferenza di organizzazione che noi facciamo dal 2008 ad oggi. Praticamente abbiamo fatto tante conferenze di organizzazione negli ultimi 12/13 anni che in tutto il resto della storia della CGIL. Io credo che non sia un caso. Perché io credo che l’Italia, e la CGIL in modo particolare in Italia, si trovi di fronte ad un problema ed una contraddizione evidente. Qualche tempo fa è uscito un rapporto dell’ILO (International Labour Organization), I sindacati in transizione, che ha sottolineato come la sindacalizzazione nei paesi a tardo capitalismo, dal 1980 ad oggi si è sostanzialmente dimezzata, a partire da quella nei settori più centralizzati e organizzati della classe lavoratrice (la manifattura). Sul piano globale, infatti, è passata in questi decenni dal 47% a poco più del 20% del mondo del lavoro. In Italia questo processo di disorganizzazione della classe e del sindacato ha conosciuta una dinamica parzialmente diversa. La sindacalizzazione è diminuita anche da noi, anche nella manifattura è diminuita di oltre il 12% (arrivando a poco più del 30%), ma ha visto un aumento significativo nei servizi (e nel pubblico impiego), ha visto tenere un livello generale di radicamento e rappresentanza. Infatti, la CGIL sostanzialmente tiene nel tesseramento, mantiene un radicamento importante nei settori e nelle categoria, rimane un’organizzazione di massa con oltre 5 milioni di iscritti. Certo, negli ultimi anni si registra un calo, e le schede per la conferenza di organizzazione lo sottolineano, ma proprio questo elemento è uno dei problemi.
Infatti, la CGIL mantiene la proprie dimensioni di massa cambiando e articolando le proprie funzioni (Francesco ricordava le conferenze del 1989 e del 1994, la capacità di sviluppare un sistema dei servizi, di estendere il tesseramento dello SPI, di mantenere una presa nelle categorie, di radicare le RSU nel pubblico impiego). Però, nel contempo, negli ultimi trent’anni noi registriamo che siamo l’unico paese OCSE a diminuire i salari reali [di quasi il 3%]. Qui si evidenzia per noi una contraddizione. Se oggi il sindacato italiano, e la CGIL in particolare, è uno dei sindacati che meglio regge ad una lunga stagione neoliberista che sta attaccando e smantellando le organizzazioni sindacali nel mondo (una dinamica che si è accelerata e approfondita proprio con la Grande Crisi dal 2008 in poi), eppure non riusciamo, riusciamo molto peggio di altri, a difendere diritti, salari e condizioni di lavoro in questo paese. Io credo che qui ci sia il nocciolo dei problemi che oggi stiamo affrontando, la radice di una difficoltà, un’inefficacia, un’inconcludenza della nostra azione sindacale.
Ecco, qui sta il problema della nostra conferenza di organizzazione. Al di là della difficoltà di discutere 11 schede e oltre 150 obbiettivi, e quindi di entrare nel dettaglio di una serie di analisi e risposte che vendono date in soli 7/10 minuti di intervento, io credo che alcune risposte di fondo che noi diamo siano sbagliate. È sbagliata cioè l’impostazione che stiamo proponendo per la nostra riorganizzazione. Proviamo a chiarirlo in tre sintetici punti.
Primo, è sbagliata l’ipotesi di rilanciare le camere del lavoro. Guardate, Francesco nella sua relazione ha anche provato a dare una lettura alta di questa proposta di nuova focalizzazione della nostra iniziativa sindacale sulle camere del lavoro. Ha ripreso le nostre radici e richiamato l’esperienza delle prime camere del lavoro di fine ottocento. Io credo sia una risposta sbagliata. Quelle camere del lavoro nascevano su una particolare composizione del lavoro, in una realtà dove predominava il lavoro bracciantile (lavoro generico e mobile, proletariato stagionale e in sovrannumero che passava facilmente per diversi impieghi e professioni, come manodopera generica nei campi, nell’edilizia, nei servizi urbani, ecc), era il 60/70% della forza lavoro in Italia e particolarmente in quei contesti dove si svilupparono le camere del lavoro (come la pianura padana). Quella risposta allora, dal forte profilo trasversale, mutualistico e persino aggregativo, fu capace di organizzare e dare una prospettiva di trasformazione a quel tipo di lavoro, collegandolo e ricomponendolo con il lavoro professionale di alcune categorie industriali o specializzate (le prime industrie metalmeccaniche, i ferrovieri, ma anche i maestri). Evitando così un rischio che Francesco richiamava, quello della professionalizzazione e corporativizzazione del sindacato, che pure invece ebbe proprio in quegli anni una certa influenza, per esempio in Inghilterra. Valerio Evangelisti, in una serie di romanzi molto belli (la trilogia del Sole dell’avvenire), con una conoscenza storica dello sviluppo del sindacalismo e del socialismo in Emilia e in Romagna, lo ha rappresentato in carne, sangue e sogni, storie di uomini e di donne esemplificate di un modello e un percorso sindacale. Però oggi questa non è la condizione del lavoro italiano. Noi oggi abbiamo oltre 17 milioni di lavoratori e lavoratrici dipendenti, inseriti in contratti nazionali, inglobati in processi di qualificazione e professionalizzazione specifici. Certo, in questo mondo del lavoro ci sono aree e condizioni di alta genericità e mobilità, propria di alcune realtà precarie e di alcune nicchie del mercato del lavoro: però, appunto, questa non è la condizione dominante e generale del lavoro.
Secondo, questo modello di centralizzazione sulle camere del lavoro oggi rischia di esser un modello di focalizzazione e promozione dei servizi. La realtà del lavoro che negli ultimi decenni è segnata dallo sviluppo di filiere produttive disperse e, soprattutto, dall’espansione dei processi di valorizzazione nei e dei servizi (per cui viene prodotto plusvalore attraverso la vendita di merci immateriali, la funzionalizzazione alla produzione di capitale di servizi alle persone e alle imprese). Una realtà quindi segnata da piccole e piccolissime imprese, una sussunzione talvolta formale che lascia spazio a forme lavorative autonome o contratti atipici, un controllo e un’organizzazione del lavoro complesso. In questa realtà, pensiamo alle molteplici realtà della FILCAMS, oggi la nostra principale categoria, spesso se non nella maggioranza dei casi noi dialoghiamo e intercettiamo lavoratori e lavoratrici all’esterno dei loro processi di lavoro, senza organizzare collettivamente i loro conflitti e i loro interessi, ma attraverso azioni di difesa individuale (uffici vertenza e simili), o attraverso un’opera di consulenza e sostegno per l’accesso a servizi sociali e welfare (dalla disoccupazione al Caaf). Davanti a questa realtà, io credo che nelle nostre schede si pensi e si declini la camera del lavoro come la capacità di metter a sistema, razionalizzare e rilanciare queste strutture per intercettare e collegarsi non ad un (inesistente) proletariato mobile e generico, ma un lavoro spesso altamente professionalizzato e specifico, ma che semplicemente non si incontro nei luoghi di lavoro e a cui, soprattutto, ci si rapporta individualmente (come utenti e non come soggetti dell’azione sindacale).
Terzo elemento, io credo sia sbagliato centralizzare una serie di funzioni e prerogative in corso Italia. Le schede propongono un rilancio ed una messa a sistema della digitalizzazione e della comunicazione della CGIL. Per certi versi, particolarmente dopo la pandemia e l’enorme espansione di procedure e prestazione digitali nella vita quotidiana delle nostre società, tale adeguamento e non solo corretto ma sostanzialmente inevitabile. Il punto, come nei processi di digitalizzazione che attraversano i luoghi di lavoro in cui operiamo, sono le modalità attraverso cui avviene questa digitalizzazione, con gli inevitabili rischi di centralizzare e verticalizzare il controllo sui dati e sui processi del e nel nostro sindacato. In trenta secondo, per ragioni di tempo, ritengo molto pericoloso la previsione di dare possesso e controllo dei dati di tutti i nostri iscritti, sino al terzo livello, a Corso Italia: è una concentrazione del rapporto diretto tra iscritto e segreteria confederale, mediato anche da strumenti di comunicazione generali e centralizzati (dalle app agli archivi dei dati), che temo possa incidere profondamente su quello che è l’attuale modello organizzativo, articolato e democratico, per dirlo in una battuta non populista, che come CGIL abbiamo rivendicato anche e proprio nell’ultimo decennio.
Io invece credo che bisogna focalizzarsi sui luoghi di lavoro. Sapendo che oggi i luoghi di lavoro sono qualcosa di molto più complesso e frammentato del passato. Io lavoro nell’università. Nel mio ateneo ci sono lavoratori e lavoratrici inquadrate nei settori della conoscenza (i docenti), altri nel pubblico impiego (con un contratto territoriale di primo livello), altri ancora nei servizi e negli appalti. Non c’è solo questa frammentazione categoriale, con contratti, prassi e modalità sindacali diverse (anche nel nostro interno, anche nel perimetro del quadrato rosso). Prendiamo solo nel quadro dei lavoratori e lavoratrici organizzati in genere dalla FLC: il personale delle università statali. All’interno del blocco e della stagnazione generale degli stipendi del pubblico impiego, le differenze salariali, solo le differenze salariali, tra il personale tecnico amministrativo, quello docente e quello precario nell’ultimo decennio sono enormemente aumentate. I docenti mantengono una certa uniformità nazionale (pur con la differenziazione dei criteri degli scatti di anzianità), i tecnici amministrativi hanno visto crescere il peso del salario accessorio di ateneo sulle loro buste paga (in alcune realtà, arriva a pesare quasi come il tabellare), il precariato vive di interpretazioni e dinamiche completamente diverse tra ateneo e ateneo. Mentre la dinamica degli aumenti ha visto aumentare la forbice tra gli aumenti dei docenti (adeguati all’aumento ISTAT delle masse salariali), quello di tecnici amministrativi (adeguato contrattualmente), quello dei precari (spesso congelato nel tempo per lunghissimi periodi). Il problema è organizzare e ricomporre queste diversità, anche in grandi amministrazioni pubbliche come le università. La prima conferenza di organizzazione della CGIL si riunì nel novembre del 1954, esattamente pochi mesi prima della famosa sconfitta a Mirafiori. E la prima conferenza d’organizzazione diede alla CGIL l’indirizzo, poi assunto dal direttivo dopo la sconfitta alle elezioni della commissione interna FIAT, della formazione delle sezioni sindacali dentro le fabbriche, nei posti di lavoro, iniziando un percorso di decentralizzazione e radicamento nei conflitti produttivi che sarebbe poi maturato nel decennio successivo.
Io credo cioè che è su questo che dobbiamo soprattutto ragionare: come riorganizzare il sindacato nella sua azione collettiva nei rapporti di produzione, nei conflitti all’interno dei processi di lavoro, nelle aziende, negli uffici, nelle fabbriche, nei tanti e diversi luoghi di lavoro della contemporaneità. Non tanto, cioè, un sindacato di strada [cioè un sindacato che prova a intercettare settori marginali, precari, dispersi al di fuori delle dinamiche, delle contraddizioni e dei conflitti che si determinano nel e dal lavoro], quanto appunto un sindacato generale, che prova a ricomporre e riunificare la moltitudine del lavoro a partire, appunto, dalla difesa di salario, diritti, concrete condizioni del lavoro. Quindi io credo che su questo dobbiamo soprattutto ragionare, perché appunto quello che è debole e problematico è oggi il nostro modo di stare nei posti di lavoro, la nostra forma organizzativa nei posti di lavoro. Il modello del comitato degli iscritti è un modello debole, perché il problema che noi abbiamo, anche come FLC, è la debolezza della nostra struttura e della nostra organizzazione nei luoghi di lavoro. Una debolezza che non risolviamo con i modelli para aziendalistici e promozionali del tesseratore, cioè dell’individuazione della singola responsabilità per posto di lavoro di questa azione e magari di una loro specifica formazione, appunto secondo logiche e metodologie promozionali. Io credo appunto che il problema sia da affrontare rafforzando la struttura organizzativa e l’azione collettiva dentro i posti di lavoro, tanto più in una categoria come la nostra (la FLC), che somma su sé stessa e dentro sé stessa le funzioni di rappresentanza categoriale, ma anche interventi di assistenza individuale, ogni tanto anche funzioni che potremmo definire paraministeriali (nella mobilità e in tante procedure che interessano la scuola). Quante volte infatti abbiamo discusso di come questo carico, spesso concentrato in alcune occasioni o settimane, rischia di stressare e imballare proprio le altre funzioni e l’azione più complessiva della FLC stessa. Una risposta, appunto, molto diversa da quella delineata dalle schede.
In chiusura dell’intervento, infine, due osservazioni puntuali, sulla nostra attualità (l’azione dopo lo sciopero generale del 10 e 16 dicembre), e sulla scelta di confermare l’assemblea nazionale di organizzazione a Rimini a metà febbraio.
Non sono d’accordo con un ragionamento e una proposta che è stata esplicitata in questa Assemblea generale. Io credo che quanto ha delineato nel suo intervento Raffaele [Miglietta, responsabile struttura di settore della Scuola, di Lavoro e Società] sia sbagliato, anche nell’intreccio e nella precipitazione concreta, in queste settimane e in questi mesi, dei discorsi più generali che stiamo affrontando nella conferenza di organizzazione. Io credo cioè che sia un errore, un grave errore, pensare di chiudere rapidamente questo contratto nazionale, di non porre all’interno della trattativa e della mobilitazione (in piena continuità con il 10 dicembre) la questione di un aumento salariale ulteriore rispetto ai 105 euro (tanto più di fronte a un’inflazione che nel mese di dicembre a toccato praticamente il 4%, che continua a salire in tutti i paesi europei e che non si può più dire sia semplicemente un fenomeno esogeno, contingente e rapidamente transitorio, ma rischia di avere tratti di permanenza se non di strutturalità). Come penso sia tanto più un errore, in questa specifica fase, porsi l’obbiettivo di risolvere rapidamente i conflitti e le differenze con la CISL, di ricostituire al più presto l’unità sindacale, quando è evidente la differenza di impostazione sindacale, il senso e la pesantezza delle diverse scelte a dicembre, il profilo delle manifestazioni contrapposte del 16 e del 18 dicembre 2021. Al contrario, io credo bisogna proseguire, perseguire e sviluppare la dinamica che abbiamo innescato con lo sciopero generale di dicembre, non lasciarlo isolato ma approfondire l’iniziativa e la mobilitazione.
L’ultima battuta a Gianna [Fracassi, della segreteria confederale], a Francesco e Francesca [segretario generale e organizzativo della FLC]. Io ho letto oggi la circolare della segreteria confederale che conferma la convocazione dell’assemblea nazionale organizzativa il 10, 11 e 12 febbraio a Rimini. Oggi noi, nell’università, siamo usciti per la prima volta da un po’ di tempo, molto positivamente, con un comunicato unitario (FLC, Cisl Università, Uil Rua, Snals e Gilda), rivolto al Ministero e a tutti i Rettori/Rettrici, che davanti alla grave situazione di emergenza, di fronte all’assenza di un protocollo nazionale del settore, chiede la distribuzione di FFP2 da parte delle amministrazioni, il ritorno al metro di distanza e quindi al 50% di capienza dentro tutte le aule, il ritorno ad uno smartworking eccezionale nelle prossime settimane. Ecco io credo profondamente sbagliato, come segnale politico, che mentre noi stiamo conducendo una battaglia difficile nei posti di lavoro (per la salute, la sicurezza e il riconoscimento dell’emergenza), almeno nei nostri, per chiedere e imporre il riconoscimento che tutto non sta andando bene e che proprio in queste settimane siamo in una situazione di particolare eccezionalità (visto il picco pandemico, le centinaia di migliaia di nuovi casi quotidiani, i milioni di positivi), ecco ritengo sbagliato che proprio nel pieno del picco noi andiamo a confermare un’assemblea nazionale di 1100 persone, a Rimini, a metà febbraio. Io credo che, mantenendo l’importanza della democrazia e della partecipazione, non rinunciando ai nostri appunti e al confronto nell’organizzazione, slittando semplicemente di qualche settimana questo appuntamento, io credo che si rispetterebbe non solo un dovere di sicurezza e autotutela della nostra salute, ma si darebbe anche un segnale politico importante alle trattive difficili e alla dinamica complessa che proprio oggi abbiamo nei posti di lavoro.
Grazie.
Luca Scacchi
In conclusione dell’Assemblea Generale, con una dichiarazione che ha richiamato il contributo per la conferenza di organizzazione proposto dalle aree programmatiche di #RiconquistiamoTutto e DemocraziaeLavoro, i compagni e le compagne delle due aree hanno votato contro le 11 schede proposte, mentre alcuni/e altri/e compagni/e si astenevano.
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