Primi appunti sulla stagione contrattuale.

Una riflessione dopo il recente rinnovo del CCNL metalmeccanici
di Luca Scacchi (Cd CGIL)

Qui il testo in pdf.

Due settimane fa è stato firmato il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Un accordo atteso, sia perché rimane in ogni caso il contratto che segna i rapporti di classe nel paese sia perché è il settore di Bonomi, il nuovo presidente di Confindustria che aveva fatto dello sfondamento contro il lavoro la cifra della sua elezione e quindi della sua Presidenza. La valutazione complessiva su questo accordo che abbiamo avanzato come area sindacale è oramai netta: si conquistano diversamente dal 2016 degli aumenti reali e superiori all’IPCA (112 euro lordi più i 12 per il 2020), sui minimi salariali e sopra l’IPCA; non è però tutto oro quel che luccica, perché questa cifra è stata ottenuta allungando la durata del CCNL ben oltre i suoi termini originari (2020/2022). Un rinnovo, inoltre, che interviene anche sull’inquadramento di lavoratori e lavoratrici.

L’inquadramento di metalmeccanici e metalmeccaniche (livelli professionali, declaratorie che ne descrivono i compiti e quindi attività previste, rapporti salariali tra i livelli) risaliva infatti al 1973, quando si era ottenuto l’inquadramento unico operai ed impiegati (cioè un’unica scala di riferimento per entrambi i settori). Era stato conquistato in uno dei momenti più alti della lotta di classe in questo paese: nel corso del lungo autunno caldo, dopo la storica manifestazione di Reggio Calabria dell’ottobre 1972, 80 ore di sciopero, un corteo a Roma il 9 febbraio con 250.000 lavoratori e lavoratrici, uno sciopero ad oltranza a Mirafiori negli ultimi giorni di marzo [che vide anche l’occupazione delle portinerie]. Le lotte operaie e il sindacato si erano posti l’obbiettivo di ricomporre la classe anche sul piano rivendicativo [dagli aumenti uguali per tutti alla fine del cottimo]. Anzi, sospinti dalla radicalizzazione dello scontro di classe, si arrivava a pensare il salario come variabile indipendente (una definizione ripresa dallo stesso Luciano Lama nel 1967), come tentativo di guidare le politiche economiche (vedi il dibattito tra gli economisti marxisti) o di far direttamente saltare le compatibilità capitaliste (portato in particolare da alcune componenti operaiste). La conquista dell’inquadramento unico (e di meccanismi di passaggio tra i livelli basati anche sull’anzianità) rientrava allora in questo quadro.

Negli ultimi cinquant’anni la destrutturazione della catena di montaggio (con le isole e le squadre) e l’automazione di processi produttivi (con un monitoraggio costante delle attività) ha progressivamente stravolto in diverse realtà mansioni e prestazioni lavorative. Certo, una parte delle imprese rimane comunque focalizzata sui classici modelli produttivi (lavoro meccanico basato su catene di montaggio o saperi professionali), ma in altre le macchine a controllo numerico e l’informatizzazione hanno trasformato la composizione della classe operaia. Per fare un esempio, alla Alstom di Savigliano si producono carrozze ferroviarie. Fino a qualche tempo fa nei reparti c’erano operai esperti, con un profilo quasi professionale e ampi margini di autodeterminazione nella propria prestazione, per cui erano necessarie particolari competenze meccaniche (montaggio, calibratura e controllo delle carrozze). Oggi il processo è digitalizzato: da una parte condotto usando strumentazioni elettroniche, dall’altra controllato da software di sistema (ogni operaio ha un tablet con rappresentazioni tridimensionali e manipolabili di carrozze, mansioni, azioni specifiche, risultati attesi e tempi previsti). Cambiano così competenze e formazione di lavoratori e lavoratrici, che devono avere da una parte una maggior scolarizzazione, dall’altra un addestramento specifico minimale. L’inquadramento di questi nuovi profili in questo decenni è stato lasciato ai contratti aziendali o all’informalità padronale (dai premi ai fuoribusta), mentre sono stati compressi e smantellati i meccanismi di avanzamento di carriera basati sull’anzianità.

La nuova definizione contrattuale degli inquadramenti, allora, avrebbe potuto rappresentare un nuovo terreno di difesa degli interessi e dei diritti collettivi del lavoro, di contrasto del punto di vista padronale e quindi di controllo operaio. Così non è stato. Per gestire una sua ridefinizione da un punto di vista di classe erano infatti indispensabili due condizioni: da una parte la determinazione a ribaltare i rapporti di forza, conducendo una lotta determinata; dall’altra la consapevolezza degli obbiettivi da raggiungere (tra lavoratori e lavoratrici nelle fabbriche, a partire da rivendicazioni e piattaforme; nell’elaborazione complessiva del sindacato e del movimento operaio, a partire dall’analisi delle trasformazioni avvenute nella produzione e nella classe). Queste condizioni sono oggi mancate: il contratto è stato firmato dopo solo quattro ore di sciopero (ed un blocco degli straordinari), senza nessuna particolare iniziativa sindacale; non c’è stata nessun coinvolgimento e nessuna riflessione collettiva, né nella discussione della piattaforma né nell’elaborazione pubblica delle organizzazioni sindacali.

Oggi quella ridefinizione è stata sostanzialmente scritta da Federmeccanica: dal punto di vista del padrone più che da quello del lavoro. E’ stato eliminato il primo livello (oramai residuale, con poche migliaia di lavoratori e lavoratrici) e i 9 livelli residui sono oggi ridefiniti sulla base di otto criteri di professionalità (autonomia, responsabilità gerarchico-funzionale, competenza tecnico specifica, competenze trasversali, polivalenza, polifunzionalità, miglioramento continuo ed innovazione). Nei diversi livelli, nelle loro declaratorie, nei criteri di passaggio, si strutturano quindi contrattualmente le discrezionalità padronali sviluppatesi in questi decenni, rendendo da qui in avanti più complessi ed aleatori i passaggi di livello, più ampie e flessibili le possibilità di utilizzo della forza lavoro da parte delle direzioni aziendali. Il risultato contrattuale è quindi quello di uno strumento di ulteriore subordinazione e quindi intensificazione dello sfruttamento, più che di difesa o avanzamento di lavoratori e lavoratrici.

Il nuovo contratto permette di delineare alcune prime considerazioni sulla stagione in corso. Sebbene manchino ancora rinnovi importanti, a partire da quello dei pubblici [tre milioni e mezzo di dipendenti] e del commercio [2 milioni], abbiamo oramai un quadro con la sottoscrizione del CCNL alimentare [250mila, uno dei settori di classe più forti, ben diverso dalle sue filiere marginali], quello chimico [gomma plastica, 300mila dipendenti], quello metalmeccanico [1,5 mln]. Inoltre, in realtà, possiamo contare sulla definizione di alcuni elementi sostanziali relativi alle condizioni del rinnovo contrattuale nei pubblici dipendenti: nella legge di Bilancio sono oramai state fissate le cifre di fondo a disposizione e con i POLA (i piani operativi del lavoro agile) si è confermato un impianto di riferimento sull’organizzazione del lavoro (al di là del successivo ritorno di Brunetta alla Pubblica amministrazione con il nuovo governo Draghi, in sé una dichiarazione programmatica abbastanza evidente).

Come si valuta una stagione contrattuale? Certamente il primo elemento è il testo dei diversi contratti, in primo luogo su salario (aumenti) e orari (la cosiddetta parte normativa che regola l’orario complessivo: ferie, permessi, straordinari, obblighi, ecc). Sul salario è importante considerare le quantità (in particolare in rapporto all’inflazione, cioè gli aumenti reali e non solo nominali), ma anche la loro forma: gli stipendi in Italia infatti sono in genere strutturati su base annuale e si dividono in una quota base (da cui sono derivate altre componenti del salario come tredicesima, TFR, contributi pensionistici e in alcuni casi anche fondi sanitari, assicurazioni, ecc) e una parte accessoria (i cui importi possono esser fissi o variabili e possono determinare o meno anche quote di salario derivato). Negli ultimi anni, poi, il salario ha compreso componenti non monetarie (il cosiddetto welfare o flexible benefits, dalle prestazioni sanitarie ai buoni Amazon). Inoltre, è importante tener presente che alcuni elementi sono scritti, ma non è detto che siano poi applicati: cioè è importane distinguere ciò che è prescrittivo (per esempio, la definizione di un aumento o la ridefinizione di un orario) e ciò che è programmatico (per esempio, nei chimici è stata da tempo introdotta la possibilità di deroghe peggiorative del CCNL, con una particolare procedura, ma in pratica non sono mai state applicate; nei metalmeccanici nell’ultimo rinnovo si delineavano i premi di produzione come variabili, prevedendo l’assorbibilità delle loro quote fisse negli aumenti del Ccnl: in realtà in molti gruppi e imprese, dove è maggiore la sindacalizzazione, non stati assorbiti).

In ogni caso, una parte determinante della valutazione è data dal contesto. Le diverse stagioni contrattuali sono segnate dai tempi (le onde lunghe ascendenti o depressive, le Grandi Crisi), dai cicli economici, dai rapporti di forza delle classi: sono cioè caratterizzati in primo luogo dagli obbiettivi che le due parti si propongono di ottenere (su salario, orario, organizzazione del lavoro). Le stagioni contrattuali, nella loro dinamica e nel loro conflitto, ridefiniscono poi gli stessi rapporti di forza tra le classi, che a loro volta segnano la successiva stagione produttiva, sociale e anche politica. La valutazione di una stagione contrattuale, quindi, oltre che dal testo, dalle sue determinazioni e dalle sue iniziative programmatiche (e poi dal suo effettivo dispiegamento, che può esser diverso da quanto scritto), si valuta anche sulla base delle intenzioni di partenza, i risultati finali, le sue conseguenze nelle dinamiche di classe.

Per dare una prima valutazione, allora, è necessario un passo indietro. Un lungo passo indietro. La crisi politica e sociale del 1992, con la riconversione industriale, l’entrata in Unione Europea (e poi nell’Euro), la dismissione delle grandi imprese pubbliche (allora il 40% dell’economia) ha portato a smantellare la scala mobile e a disegnare un nuovo sistema contrattuale (accordo concertativo del 1993). Questo sistema era basato su due livelli: il CCNL (quadriennale con rinnovi economici biennali, aumenti parametrati sull’inflazione programmata ed eventuale recupero ex post) ed i contratti aziendali/di gruppo (in cui era rilevante l’organizzazione del lavoro, con una distribuzione della produttività focalizzata sostanzialmente sui premi di produzione). Quel sistema rientrava in una logica neocorporativa di scambi trilaterali, in cui i sindacati scambiavano moderazione salariale con la promessa di interventi del governo (un secondo tempo di investimenti per ricerca, formazione e politiche industriali che ovviamente non si concretizzò mai). I suoi risultati, nel decennio successivo, furono il trasferimento di oltre dieci punti percentuali di PIL dal lavoro al capitale. Questa stagnazione salariale fu determinata dall’incompleto recupero dell’inflazione (superiore al 4% annuo sino al 1996 e tra il 2 ed il 3% sino al 2008), un collegamento più stringente tra retribuzione e performance, la diffusione di rapporti di lavoro a retribuzione ridotta (precari e di ingresso, senza indennità, anzianità, premi, ecc). La struttura del salario, in particolare, ha visto la riduzione di anzianità (diminuzione numero degli scatti e congelamento del valore) e indennità (talvolta trasformate in benefit), oltre che l’introduzione di flessibilità su mansioni e incarichi (che ha ridotto le necessità di prevedere passaggi di livello). Nello stesso tempo, in particolare nei gruppi e nelle imprese medio grandi, si è visto crescere il salario accessorio: straordinari (sempre più spesso obbligatori), ma anche produttività e retribuzioni di merito (l’incidenza dei premi nella contrattazione di secondo livello è passata dal 30 al 60% nel corso degli anni novanta, spesso in relazione ad indici finanziari o industriali come il MOL). Se prendiamo ad esempio lo stipendio di un 5° livello chimico, tra il 1995 ed il 2005 la paga base si è ridotta dal 70% a circa il 60% dello stipendio, l’anzianità dal 10 al 5%, mentre i premi sono passati dal 10 a circa il 25%. Questo sistema di regolazione contrattuale ha visto anche il parallelo delinearsi di una contrattazione privatistica nel pubblico (dopo le riforme del DL 29/1993 e delle cosiddette Bassanini), che si è focalizzata in particolare su organizzazione lavoro e progressioni (nel secondo livello, sia PEO sia PEV: cioè sia con scatti stipendiali sia con passaggi di livello). L’aumento di stipendio è stato cioè soprattutto legato agli avanzamenti di carriera, contrattati nelle diverse amministrazioni sulla base delle specifiche condizioni.

Questo sistema di regolazione contrattuale è andato in crisi nei primi anni duemila. Nel privato, a partire dai metalmeccanici, dove la FIOM di Sabattini ha aperto il conflitto nella gestione del lavoro e per il recupero salariale (integrativo Electrolux nel 2000; CCNL separato nel 2002; precontratti in particolare in Emilia, Lombardia e Piemonte; 21 giorni di Melfi). Il fronte padronale, persa la battaglia sull’articolo 18 (anche se incassata la flessibilizzazione dei contratti con la Legge Biagi e il Pacchetto Treu), ha quindi spinto per incrementare sostanzialmente la parte variabile del salario (quindi il salario accessorio, bloccando gli aumenti sul primo livello e trasferendoli sul secondo). Su questo, non solo la FIOM ma anche la CGIL ha prodotto all’inizio una certa resistenza (vedi accordo quadro separato del 2009, in cui gli aumenti sul CCNL erano limitati all’IPCA, cioè l’inflazione depurata dai costi energetici). Nel pubblico, nel contempo, la contrattazione decentrata sul secondo livello è entrata in crisi per la focalizzazione sulla dirigenza dei poteri in materia di organizzazione del lavoro e l’introduzione di criteri premiali per gli avanzamenti economici e di carriera (leggi 165/2001 e 150/2008, la cosiddetta Brunetta).

Per alcuni anni è prevalso un quadro frammentato. Nel quadro di una frammentazione del capitale (collasso del salotto buono; differenza tra imprese focalizzate sul mercato interno e su quelli esteri; divergenze tra piccole, medie e grandi aziende), con l’esplosione poi della Grande Crisi (recessioni 2009 e 2012), la crisi politica (Monti) e il tentativo bonapartista di Renzi (jobsact e riforma costituzionale), a prevalere è stata l’instabilità. I contratti sono sempre più stati segnati dalle particolari condizioni delle proprie realtà: ogni categoria ha individuato sui punti di tenuta (o più spesso di caduta), uscendo quindi dal quadro del ’93 (chi ha modificato la durata dei contratti, trasformandoli in triennali come i postali; chi ha previsto la possibilità di deroghe salariali e normative con l’accordo delle RSU, come i chimici; chi ha istituito enti bilaterali territoriali per la gestione di istituti salariali o contrattuali, come artigianato, edilizia e commercio). I contratti pubblici, dal 2010 al 2016, sono stati bloccati dalla crisi finanziaria e dall’adozione di politiche d’austerità (bloccando così anche la premialità spinta dalla Brunetta). La divisione sindacale si è in questa stagione diffusa nei CCNL (come i pubblici e il commercio) e nelle imprese (Poste, Alenia, Ferrari, Mivar, Piaggio, Fincantieri, Fiat). Persino in settori a forte tradizione unitaria si sono presentate piattaforme distinte (chimici, elettrici e telecomunicazioni). In questo quadro, sono emerse anche dinamiche tese a smantellare il CCNL, come il modello Marchionne in FIAT/FCA (gli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori, quello unitario di Grugliasco e quindi l’uscita di tutto il gruppo dal CCNL metalmeccanico nel 2012) o la vicenda della Grande Distribuzione Organizzata (l’uscita dal contratto del commercio dei grandi supermercati, avvenuta con la rottura di Federdistribuzione con Confcommercio nel 2012).

La scorsa stagione contrattuale (2015/2018) è stata allora segnata dal tentativo di ricostruire un quadro unitario, come terreno per sviluppare un’offensiva padronale sul salario. All’inizio del 2014 (nonostante i ricalcitramenti FIOM), CGIL CISL UIL hanno raggiunto un intesa sulla rappresentanza (Testo unico): per evitare la moltiplicazione degli accordi separati e CCNL di impresa hanno definito alcuni principi (voto e iscritti, referendum consultivi), subordinato le RSU (decadenza se escono da organizzazione), introdotto vincoli all’iniziativa sindacale (sanzioni per scioperi e mobilitazioni). In realtà, sia sul versante della rappresentanza, sia su quello dei vincoli, questo accordo non è mai stato implementato. A distanza di sette anni, inoltre, si registrano aperti contrasti sull’ipotesi di una Legge. In ogni caso, questo accordo ha avuto un valore programmatico, segnando da una parte la volontà di condurre iniziative unitarie, dall’altra l’intenzione di imporre la centralità delle confederazioni. In questo quadro si è arrivati nel 2018 al cosiddetto patto di fabbrica. In quell’accordo quadro è stato delineato un sistema contrattuale sempre su due livelli: quello nazionale con vaghi obbiettivi macroeconomici di rilancio della domanda interna e della produttività, una struttura salariale divisa su TEM (trattamento economico monetario, la paga base, focalizzata sull’IPCA) e TEC (trattamento economico complessivo, in cui si riversano gli aumenti, che può assumere anche forme non monetarie). A questo livello nazionale si è aggiunta la piena assunzione nel secondo livello degli obbiettivi padronali su competitività, produttività e efficienza (i premi cioè, non più legati a importi fissi o indici collettivi, ma variabili in base alla prestazione). Una dinamica favorita anche per via legislativa, con la defiscalizzazione di welfare, flexible benefits e premi variabili.

Quel modello ha avuto il suo prototipo proprio nel contratto dei metalmeccanici firmato nell’inverno 2016, assunto a CCNL simbolo di quella stagione: aumenti risibili (pochi euro, IPCA ex post) e welfare (dalle coperture sanitarie ai buoni Amazon). Tutti i CCNL di questa stagione sono stati in realtà lontani dal rilancio della domanda interna (l’aumento dei salari), anche quelli a tre cifre come alimentaristi (105 euro), assicurativi (103) e trasporto locale (100), anche quelli più forti come i chimici (90 euro il chimico-farmaceutico e 76 euro la gomma-plastica). Questi accordi, inoltre, anche quando non hanno applicato strettamente la logica dell’IPCA, hanno visto aumentare la vigenza a quattro anni (metalmeccanici, alimentari, bancari, igiene ambientale, elettrici, agricoltura), talvolta con aumento dell’orario (direttamente nell’igiene ambientale o indirettamente nei chimici, nel traposto locale, nei tessili e negli assicurativi). Il pubblico ha avuto un rinnovo, dopo gli anni di blocco, definito a livello politico (accordo di palazzo Vidoni), a partire da una cifra media (85 euro; il 3,48% della massa salariale) in rapporto agli 80 euro di Renzi ed alla media contrattuale della stagione, con un sostanziale congelamento della parte normativa (un brunettismo non più applicato aggressivamente, ma neanche negato legislativamente). In questo quadro, dall’accordo Fincantieri ai metalmeccanici, dall’igiene pubblica a bancari, è emerso un dissenso di massa nelle consultazioni (che ha raggiunto anche il 40% nelle grandi imprese). Dissenso che, in ogni caso, nel quadro dell’arretramento e della disorganizzazione di classe dell’ultimo decennio, non si è espresso in una ripresa della conflittualità sociale.

Questa nuova stagione contrattuale (2019/2022) si è quindi aperta con un chiaro obbiettivo padronale: quello di agire e generalizzare in tutti i settori lo sfondamento operato nei metalmeccanici. L’obbiettivo padronale era cioè quello di comprimere il salario base (schiacciando i suoi aumenti sotto l’inflazione reale), mentre si trasferivano il più possibile gli aumenti sul salario non monetario (flexible benefits) e su quello variabile (sulla base del lavoro effettivamente svolto). Bonomi, il nuovo presidente di Confindustria, nei primi mesi di pandemia delineava persino la necessità di rivoluzionare i contratti, facendosi carico nei nuovi rinnovi di nuove politiche del lavoro, nuove metriche per la produttività, l’adozione su vasta scala dello smart working, rivendendo di fatto il vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari [proponendo cioè di smantellare l’attuale struttura stipendiale, introducendo quote molto ampie di salario variabile in relazione alla produttività ed alle prestazioni dei singoli]. I contratti pubblici, in questa logica, dovevano quindi recuperare pienamente l’impostazione brunettiana della premialità e della differenziazione meritocratica di premi e progressioni di carriera. Bonomi ha cioè esplicitamente posto il terreno contrattuale, in previsione di una nuova recessione, come campo di una rinnovata offensiva padronale in grado di riorganizzazione il capitale ed i suoi assetti. A fronte cioè dei fallimenti bonapartisti del decennio (Monti, Renzi, Salvini) e delle incertezze del piccolo bonapartismo contiano, si è proposto di organizzare da Confindustria un’offensiva sociale, per segnare i rapporti di classe nel paese e quindi una svolta reazionaria di stampo padronale.

Il tentativo di Bonomi si è impaludato. Il proseguimento dell’emergenza sanitaria ben oltre la primavera, con la seconda ondata autunnale e le prospettiva di una terza nel 2021, non ha solo approfondito la recessione mondiale ed italiana, ha anche inaspettatamente innescato un epico intervento pubblico (oltre 130 miliardi di euro solo in Italia), con politiche diffuse di sussidi e interventi sociali (vedi il blocco dei licenziamenti). Un quadro di emergenza che ha smorzato l’arroganza di Bonomi, anche a fronte della precaria situazione sociale e del fortissimo timore di conflittualità incontrollabili (la priorità è diventata quella di evitare che la paura si trasformi in rabbia). Non solo. Proprio sul terreno dei contratti e dell’offensiva padronale, in autunno è emersa con chiarezza la divisione del capitale italiano. L’emergenza e la recessione, in realtà, hanno approfondito le sue divisioni, a partire dalla precipitazione dei servizi e dei consumi, a fronte di una ripresa della manifattura, soprattutto di quella inserita nelle filiere internazionali o rivolta ai mercati mondiali. Dove la produzione è ripresa, ed anzi si è intensificata, si sono riaperti margini di contrattazione e non si è quindi voluto subire interruzioni a causa di eventuali lotte (in circuiti produttivi resi anche più fragili da lockdown e distanziamenti, scioperi e blocchi degli straordinari avrebbero cioè imposto un prezzo ritenuto inopportuno). Una dinamica divenuta evidente negli alimentari in autunno, quando le grandi imprese (a partire da Ferrero, Campari, Assobirre, ecc) hanno siglato un contratto separato contro Confindustria. Una dinamica comunque presenti in altri settori, come nei chimici (che hanno velocemente cercato un rinnovo in autunno) e oggi nei metalmeccanici.

In questo quadro possiamo valutare i primi contratti rinnovati, a partire da due indici: il salario ottenuto (gli aumenti e la loro forma); gli anni di vigenza contrattuale. Gli alimentari prevedono aumenti di 119 euro in quattro anni (suddivisi tra Tem, 84 euro, e Tec, 35 euro). La gomma plastica 63 euro, tutti sui minimi (45 euro previsionale IPCA, 18 euro produttività di settore), su tre anni e mezzo (42 mesi). I bancari 190 euro su 4 anni, modificando la vecchia scala parametrale e appiattendo le retribuzioni. I metalmeccanici, al di là della revisione degli inquadramenti, ottengono 112 euro, a cui si aggiungono i 12 di vigenza contrattuale: il CCNL è però di quasi cinque anni (il 2020 non viene considerato e inoltre 35 euro, oltre un terzo dell’aumento, sono sul 2024; a scadenza del triennio previsto, nel 2022, si avranno 62 euro a fronte dei 65 proposti dal padronato lo scorso autunno, più o meno quelli dei chimici). I pubblici non hanno ancora ottenuto il contratto, nella legge di Bilancio però c’è un aumento di circa il 3,65% (90 euro, spalmanti nel triennio passato), a cui si aggiunge la stabilizzazione dell’elemento perequativo dello scorso rinnovo (un aumento temporaneo per i livelli più bassi, complessivamente circa lo 0,5%). Sul fronte dello smartworking, inoltre, il DL rilancio ha riportato in auge il totale controllo delle Direzione sull’organizzazione del lavoro (in pieno stile Brunetta, anche prima del suo ritorno al Ministero), mentre la bozza di PNRR e l’atto di indirizzo del Ministero dell’istruzione (un milione di lavoratori e lavoratrici) delineano una carriera docente centrata sul middle management, cioè percorsi premiali di differenziazione del ruolo e del salario dei docenti. Complessivamente, stiamo quindi parlando di rinnovi che non escono dal solco del patto di fabbrica (mantengono TEM e TEC, welfare e benefits) ed anche sulla parte salariale non ne rompono la gabbia (con aumenti ben lontani dalle piattaforme sindacali di partenza, oltre i 200 negli alimentaristi e oltre i 150 nei metalmeccanici). Gli aumenti cioè, pur sopra l’IPCA, sono in realtà contenutissimi [al di là dei toni entusiasti, francamente fuori luogo, di dichiarazioni e commenti che sono circolati nelle ultime settimane].

In sintesi, lo scontro di classe sembra per ora smorzarsi. Tutti questi contratti sono stati rinnovati infatti senza un’ora di sciopero (gomma plastica) o con iniziative minimali (4 ore e blocco straordinari nei metalmeccanici). Nonostante questo, l’annunciata offensiva padronale non si è dispiegata: i rinnovi riportano aumenti sopra l’IPCA, sul salario base e in forma monetaria. Questi rinnovi cioè non si inscrivono nell’impianto dello scorso CCNL metalmeccanico, tantomeno rivoluzionano l’impianto contrattuale del novecento come proposta da Bonomi qualche mese fa. Ad emergere, cioè sono due diversi segnali.
Primo, di fatto le grandi organizzazioni sindacali, a partire dalla CGIL, hanno moderato l’azione e l’iniziativa della classe, in un’ottica di responsabilità, anche in funzione del quadro politico. Così, anche a fronte delle divisioni e delle fragilità padronali, non hanno condotto con determinazione una resistenza o un’offensiva di classe, al fine di rompere la gabbia del patto di fabbrica e di conquistare una reale redistribuzione dei profitti (invertendo la dinamica salariale dell’ultimo trentennio). Una linea che, in ogni caso, non ha visto in particolari contrasti o resistenze da parte della classe, disorganizzata e sostanzialmente concentrata su altre questioni (la sicurezza, l’occupazione, la gestione delle crisi industriali, ecc).
Secondo, l’offensiva padronale di Bonomi è comunque abortita sul nascere, ripiegando sull’impianto del Patto di fabbrica e anzi un suo piccolo adattamento: il superamento dell’IPCA con aumenti sul TEM a fronte di un prolungamento generalizzato della vigenza contrattuale. A oltre 10 anni di distanza dal tramonto del sistema del ’93 si torna cioè ad una durata quadriennale dei contratti, senza però adeguamenti economici biennali. Almeno per ora, quindi, la recessione e la Grande Crisi non sembrano star innescando una radicalizzazione dello scontro di classe, neanche sul versante padronale.

Luca Scacchi

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