Una primavera vuota, una speranza da ritessere.

Alcune riflessioni di Luca Scacchi sull’AG CGIL, le mobilitazioni delle prossime settimane, le difficoltà del tempo presente.

Scarica qui il testo in pdf

Lo scorso 18 marzo si è chiuso a Rimini il XIX congresso CGIL. Un appuntamento sostanzialmente focalizzato sul piano mediatico e comunicativo. Il palco aveva al centro un ampio spazio da talk show e il calendario era segnato quotidianamente da diversi inviti: non solo la Meloni Presidente del Consiglio e i quattro esponenti dell’opposizione parlamentare (Schlein, Conte, Fratoianni e Calenda), ma anche il presidente della CEI Zuppi e Andrea Riccardi di Sant’Egidio, i coniugi Regeni, Giovanni Maria Flick e Luigi Ciotti, Yolanda Diaz (ministra del lavoro spagnola) e Pegah Moshir Pour (l’attivista iraniana apparsa a Sanremo), l’ingegnera diventata famosa per il suo video sugli stipendi da fame e la studentessa di Padova per il suo discorso sui suicidi nelle università. Gli interventi dei delegati/e sono invece stati resi disponibili on line solo dopo la sua conclusione e la commissione politica ha lavorato per evitare che qualsiasi emendamento o ordine del giorno arrivasse al voto della platea (se non il documento conclusivo).

Un’assise nazionale, cioè, che non ha messo al centro il confronto sui passaggi politico-sindacali del lungo percorso congressuale. In realtà questi passaggi non sono stati secondari. Sul piano dell’azione rivendicativa [una riduzione di orario in cui però si intravede il possibile scambio con l’aumento del numero dei turni per un maggiore utilizzo degli impianti o le esigenze di flessibilità della produzione e/o del servizio; il salario minimo, che intrecci norma e contrattazione sulla base del trattamento economico complessivo definito nei Contratti Nazionali; ma anche la defiscalizzazione degli aumenti salariali e la codeterminazione nelle aziende]. Sul piano del sostegno alla creazione di un blocco europeo, nel quadro della guerra e della competizione internazionale, [L’Unione Europea deve dotarsi di una politica estera e conseguentemente di una politica di difesa comune…nel quadro di una complessiva politica di accelerazione federalista della UE]. Sul piano dell’identità della CGIL, con una prospettiva di superamento delle culture politiche di riferimento ribadita negli ultimi discorsi del segretario generale, in un’interpretazione radicale dell’indipendenza dell’organizzazione che ha innescato una dialettica anche con i settori più vicini al PD [in qualche modo e per il momento archiviata dopo il congresso SPI di Verona per l’elezione della Schlein]. Sul piano organizzativo, con le eredità non risolte della Conferenza di organizzazione, la centralizzazione confederale e l’autonomia delle categorie [con il non detto di possibili ulteriori aggregazioni su industria, pubblici e servizi, oltre le tendenze dello SPI a sviluppare un suo ruolo ultra-categoriale]. Sul piano dello stesso modello sindacale, definendo un suo ruolo nel quadro della costruzione di un rapporto di equilibrio tra fattori della produzione e quindi superando ogni considerazione della contraddizione tra capitale e lavoro [Proponiamo un’idea dell’impresa come un sistema nel quale tutti i soggetti possono essere protagonisti attivi. In cui si supera il modello del comando unico ed esclusivo dove il sindacato è ammesso solo se è a priori subalterno e collaborativo ed assume a prescindere gli obiettivi dell’impresa. Per questo contrapporre il “sindacato conflittuale” e il “sindacato partecipativo” come due modelli antitetici non ha assolutamente alcun senso, perché questi due momenti sono sempre necessariamente intrecciati e l’uno rinvia all’altro. Il loro equilibrio può di volta in volta variare a seconda delle situazioni concrete, delle scelte degli attori in campo, dei rapporti di forza. Il punto chiave delle relazioni sindacali è se si riconosce che l’impresa è un sistema sociale complesso nel quale convivono diversi punti di vista, diverse soggettività e se dunque si possa aprire uno spazio di negoziazione che renda possibile la definizione di un punto di equilibrio]. Di fatto si delinea un impianto che ricorda quello impostato dalla CISL negli anni Cinquanta, allora proprio in differenza e contrapposizione con una CGIL che assumeva come fondante la contraddizione tra capitale e lavoro [pur se con un asse in larga parte riformista o che comunque assumeva la priorità dello sviluppo delle forze produttive, per lungo tempo con una politica di moderazione salariale e di compromesso con il capitale]. Passaggi che, come ho sottolineato qualche mese fa, hanno motivato e sospinto la nostra scelta di presentare un documento alternativo.

La nuova fase segnata dalle elezioni di settembre e dalla vittoria della Meloni ha comunque preso in contropiede la strategia congressuale CGIL. Si è imposta una realtà diversa e sfasata rispetto a quella che si stava preparando e a cui ci si stava preparando. Cioè, la divisione del campo largo e il netto risultato elettorale, in cui ha dominato il successo di Fratelli d’Italia e il consolidamento reazionario nelle classi subalterne (nel quadro di un’astensione di massa senza precedenti), ha in qualche modo spiazzato sia la prospettiva di un sindacato generale unitario e indipendente [retroterra sociale di un campo di largo di governo e che comunque si propone di co-definire le politiche pubbliche con qualunque esecutivo], sia il possibile sviluppo di una pratica codeterminista con il cosiddetto capitale intelligente, quello investito nella produzione, per gestire le ristrutturazioni e ridefinire le strategie di accumulazione. È venuto cioè a mancare il contesto per partecipare alla definizione di nuove politiche pubbliche e industriali nel quadro della transizione green e della competizione tra blocchi scatenata dalla guerra in Ucraina. Meloni, infatti, ha costituito un governo schiettamente reazionario, con una solida maggioranza parlamentare e un consenso nel paese: un governo cioè che si pone come unico soggetto politico decisionale [chiudendo di fatto ad ogni ipotesi di dialogo sociale strutturale], svincola il paese dai tentativi di rilancio del federalismo continentale (in qualche modo persino interrompendoli, dagli eurobond alle politiche energetiche e di difesa), sviluppa un profilo identitario su cui si focalizza lo scontro politico [migranti, antifascismo, diritti civili e repressione di settori socialmente o politicamente marginali come su rave, Cospito e Ultima generazione], rilancia politiche economiche neoliberiste rivolte al cuore del suo blocco sociale [eliminazione del reddito di cittadinanza per mantenere bassi i salari di commercio e servizi, flat tax, liberalizzazione appalti, concessioni spiagge, autonomia differenziata]. Così sono venuti meno i possibili interlocutori di quella strategia CGIL: il governo, oggi focalizzato sul suo ruolo decisionale  e la sua politica identitaria; la CISL, che ha approfondito i solchi con gli altri sindacati emersi già negli ultimi mesi di Draghi, nella speranza di sviluppare con la UGL una sponda sindacale responsabile e conservatrice; il padronato, che ha visto in questi mesi prevalere chi sta guardando con rinnovato interesse a strategie centrate sui bassi salari, nel silenzio delle grandi imprese con governance di nomina politica [ENI, ENEL, Poste, Leonardo, ecc.].

La CGIL in autunno si è quindi trovata spiazzata, ma comunque ferma nella sua impostazione. La reazione a questo nuovo scenario è stata infatti volta a ritessere le condizioni necessarie a sviluppare comunque, anche in questo nuovo contesto, la strategia che stava delineando. Così, la confederazione non è diventa il perno dell’opposizione sociale, nonostante l’occasione di aver già indetto per il 9 ottobre, anniversario dell’assalta alla sede di corso Italia, una manifestazione nazionale a Roma [evitando cioè, nelle dimensioni e nel profilo, di trasformarla in un nuovo 25aprile1994]. Anzi, ha impostato una politica di confronto aperto con il nuovo esecutivo [ascoltate il lavoro], mentre ha riaffermato una politica contrattuale che evitava il diretto confronto con il padronato (defiscalizzazione degli aumenti salariali e mancata disdetta, o sospensione, del patto di fabbrica), sperando appunto di coinvolgere il governo in una politica al contempo di difesa del potere d’acquisto e di non messa in discussione dei margini di profitto. Così ha evitato di precipitare lo scontro con la maggioranza sulle questioni dei diritti sociali o civili [migranti, rave, Ultima generazione, o ancora tenendo bassa la questione dell’autonomia differenziata sino alla comparsa dell’ipotesi Calderoli con la legge di Bilancio]. Anzi, si è impegnata a costruire un’ampia iniziativa di alleanze con il Vaticano ed il mondo cattolico (in particolare Sant’Egidio), sia in relazione alla pace sia in relazione alla povertà a partire dai due cortei del 5 novembre (promossi una da Rete dei numeri pari e Forum Diseguaglianze e Diversità, l’altro da Europeforpeace, poi confluiti). Quasi a sottolineare, appunto, la volontà di evitare ogni schieramento contrapposto e, nel contempo, cercando per tutto l’autunno un confronto. Si è così arrivati ad uno sciopero generale delle sole CGIL e UIL a dicembre, improvvisato e disarticolato [convocato dalle regioni in giorni diversi, in più di una realtà da soli], sostanzialmente fallito [con tassi di adesione anche molto sotto il 5% e piazze poco partecipate]. La CGIL ha cioè accompagnato una stagione, senza riuscire a romperla o contrastarla, segnata dalla guerra, dall’inflazione, dalla vittoria elettorale della destra e dall’astensione (poi confermate in Lazio e Lombardia a febbraio, in Friuli-Venezia Giulia ai primi di aprile), nel quadro di un ulteriore e sostanziale ripiegamento dell’iniziativa della classe lavoratrice, del protagonismo di massa e del conflitto sociale in senso più ampio.

La scelta a Rimini è stata allora quella di fare del congresso nazionale l’occasione per rilanciare il profilo dell’organizzazione: la CGIL che incontra il mondo e, in qualche modo, il mondo che si trova in casa CGIL. Più che confrontarsi tra i e le delegati/e sulle proprie scelte e i propri indirizzi, si è privilegiato l’interlocuzione con l’esterno e all’esterno. Per questo l’assise è stata organizzata come una kermesse, una versione altra del Meeting di Rimini. Il tentativo è stato cioè di fare per una settimana la CGIL il crocevia del dibattito politico italiano. Qui c’è in fondo il senso dell’invito alla Meloni [un inedito, cercato dalla segreteria e costruito nel suo impatto mediatico: come ha detto esplicitamente Landini introducendola, con una di quelle frasi che rivelano la verità delle cose quasi come un lapsus, con l’obbiettivo di ascoltare per esser ascoltati]: un gioco di reciproca legittimazione utile alla Presidente del Consiglio per consolidare il suo profilo politico e istituzionale (perfetto dopo la tremenda settimana di Cutro, che ha chiuso la sua luna di miele post-elettorale), utile nel contempo al disegno mediatico del congresso. Lo stesso Landini ha riconosciuto il successo di questa operazione, tracciando un suo bilancio al nuovo gruppo dirigente, avendo trasformato l’assise nel terzo evento mediatico degli ultimi mesi dopo il festival di Sanremo e le elezioni politiche di settembre. Quei 30 che hanno salvato l’anima alla Cgil, di cui sono stato con convinzione parte, non hanno solo rifiutato di ascoltare in casa CGIL il discorso di una esponente reazionaria, portatrice di politiche razziste e antipopolari, segretaria di un partito che ha ancora la fiamma e la bara di Mussolini nel suo simbolo: in qualche modo hanno cercato, con consapevolezza, di inceppare quel gioco mediatico a colpi di orsacchiotti e scialli sanremesi, in aperta polemica con il sapore festivaliero che la segreteria Cgil ha voluto per questo congresso.In aperta polemica, cioè, con quel sostitutismo con cui si è supplito sul piano della comunicazione alle impasse determinate dai limiti della strategia sindacale, dal fallimento dello sciopero di dicembre, dall’immobilismo nell’azione contrattuale e rivendicativa delle categorie.

La realtà ha comunque bussato alla porta. Il congresso non ha cioè potuto vivere solo nella sua bolla comunicativa, ma in qualche modo ha dovuto confrontarsi anche con la necessità di sviluppare una mobilitazione, a fronte della prevedibile conferma dell’iniziativa del governo sul fronte del DEF (la programmazione delle politiche economiche del 2023). Dopo le complesse assemblee congressuali dell’autunno, segnate dalla rassegnazione e da una scarsa partecipazione, ci si predisponeva in realtà ad una rinnovata campagna su salario, precarietà, diritti sociali e autonomia differenziata, attraverso cui provare a ricucire un consenso di massa e una probabile iniziativa di sciopero nella primavera. Quell’iniziativa a cui guardava la seconda parte del documento Il lavoro crea il futuro, che non si è potuta sviluppare nell’autunno in un contesto politico e sociale imprevisto, si pensava quindi di attivarla in primavera, a partire da una nuova significativa tornata assembleare (un’ampia consultazione del lavoro su rivendicazioni e piattaforme della CGIL), diretta esplicitamente alla costruzione della mobilitazione (uno sciopero contro le politiche del governo). A scompaginare le carte è però arrivata l’imprevista disponibilità CISL ad una ripresa dell’iniziativa unitaria, scandita da Sbarra dal palco del congresso, visto che il nuovo contesto aveva di fatto cancellato anche lo spazio per il suo sindacalismo responsabile. Al di là delle retoriche sulle nuove stagioni neocorporative ed i grandi patti sociali, che oramai da diversi decenni segnano i discorsi di ampia parte del sindacalismo di base e di un certo avanguardismo politico, la Grande Crisi in corso sospinge infatti prassi sindacali aziendaliste e sussidiarie (welfare integrativo, fondi, enti bilaterali), ma al contempo riduce gli spazi per qualunque azione confederale, a partire dalla difficoltà a stringere qualunque patto generale tra i produttori. Non è un caso che non se ne sia concretizzato nessuno nell’ultimo decennio. Nonostante un sistema politico istituzionale instabile, oscillante tra l’aperta tentazione di strette antisindacali (Monti e Renzi) e l’annuncio di ampie consultazioni sociali, di fatto non si à mai andato oltre l’intenzione, audizioni o intese scritte sull’acqua (Letta, Gentiloni, per certi versi entrambi i governi Conte e quello Draghi). Nel quadro del nuovo governo reazionario e decisionista non ha quindi trovato nessun ruolo non solo il sindacalismo concertativo riformista, ma neanche quello conservatore e subordinato a cui si stava predisponendo la CISL.

Una discussione complicata. Nella commissione politica la sera prima della chiusura del congresso, però, si è esplicitato che la nuova disponibilità unitaria della CISL era condizionata: da una parte sulle rivendicazioni (privilegiando le tematiche su cui già si erano definite piattaforme unitarie, a partire da sanità, fisco e pensioni, eliminando le questioni su cui ci sono posizioni diverse a partire da autonomia differenziata e salario minimo), dall’altro sull’iniziativa (escludendo qualunque disponibilità a scioperi generali in primavera e circoscrivendo la mobilitazioni a cortei il sabato). Posto la necessità di verificare in ogni caso la tenuta di un percorso unitario, in commissione si è aperta un’evidente dialettica. I settori tradizionalmente più a sinistra nella maggioranza hanno sottolineato in particolare la difficoltà del rapporto con lavoratori e lavoratrici; la necessità di una ripresa determinata dell’iniziativa; l’opportunità di allargarla a reti, associazioni e movimenti; la centralità del contrasto all’autonomia differenziata e quindi l’indicazione dell’orizzonte della primavera per la costruzione dello sciopero generale. I settori più tradizionalmente moderati hanno sottolineato come il vero punto di svolta del congresso fosse stato la ripresa dell’iniziativa unitaria, la necessità di darsi orizzonti di lungo respiro per costruire l’opposizione al governo, il fallimento dello sciopero di dicembre (da evitare di ripetere per troppa precipitazione), l’obbiettivo di una costruzione graduale del consenso e dell’iniziativa. Una dinamica in cui è spiccato il riallineamento dello SPI con la segreteria, come alla conferenza di organizzazione. La sintesi si è quindi trovata nella formulazione algebrica del documento conclusivo [uno dei motivi che hanno spinto al nostro voto contrario]: Su questi obiettivi, e sulla base di questi contenuti, il Congresso impegna la Confederazione e tutte le Categorie a costruire e rafforzare con CISL e UIL l’iniziativa di mobilitazione, senza escludere alcuna forma di lotta sindacale di categoria e generale. Il Congresso impegna, inoltre, tutta l’Organizzazione ad effettuare una campagna straordinaria nei luoghi di lavoro, nelle leghe dei pensionati, nel territorio, attraverso assemblee e iniziative pubbliche, creando sinergie e coinvolgimento della società civile, degli studenti, delle associazioni e del mondo del volontariato, finalizzata alla costruzione e all’allargamento della mobilitazione. Il Congresso, infine, impegna l’Organizzazione a promuovere, nelle prossime settimane, un’assemblea delle delegate e dei delegati sulle politiche contrattuali. Si è cioè delineato una sorta di doppio binario, tale per cui a livello nazionale si è deciso di perseguire l’iniziativa unitaria con i vincoli posti dalla CISL (poi concretizzata nei tre cortei nazionali del 6, 13 e 20 maggio), mentre ci si teneva liberi a livello categoriale o territoriale di costruire iniziative di lotta più radicali, anche oltre il quadro unitario, anche sui temi dell’autonomia differenziata e anche coinvolgendo reti associative e di movimento (come lo sciopero Trenitalia del 14 aprile, quello del legno il prossimo 21 aprile, la manifestazione siciliana a Caltanisetta contro l’autonomia differenziata del 15 aprile). A lato, infine, ci si poneva l’obbiettivo di avviare un confronto tra delegati/e e categorie dell’organizzazione, per cercare di fissare un’asse contrattuale sempre più stravolto dalle dinamiche particolari e divergenti dei diversi settori.

La prima riunione dell’Assemblea Generale ha confermato questa dialettica. Il nuovo organismo direttivo della CGIL (circa 280 componenti) si è riunito il 14 aprile, dopo che il mandato algebrico del congresso era stato tradotto concretamente nella piattaforma unitaria CGIL CISL UIL e nelle tre giornate di manifestazione a maggio [con un percorso in realtà affrontato nel merito solo dalla segreteria confederale e dalla riunione con i centri regolatori territoriali e di categoria, con un degrado del confronto nell’organizzazione come era di fatto preventivabile costruendo un organismo direttivo così ampio e difficilmente convocabile]. La relazione (e poi le conclusioni) hanno ribadito l’importanza della fase di assemblee con cui costruire e accompagnare le iniziative unitarie, proprio per verificare a livello di massa consenso, costruire partecipazione e soprattutto sulla base di questi elementi determinare un successivo sviluppo dell’iniziativa (anche uno sciopero generale). La discussione, in ogni caso, è stata per molti versi aperta e sincera, esplicitando le difficoltà e i problemi della stagione, anche più chiaramente che negli spazi ristretti (anche temporalmente) della commissione politica al congresso.

I settori di categorie e territori tradizionalmente a sinistra hanno ribadito la particolare condizione di arretramento e frammentazione del lavoro: da una parte le divisioni tra condizioni e settori (in alcune realtà in cassa, in altri in continuo straordinario), con lo sviluppo di tendenze a guardare soprattutto i perimetri aziendali nelle aspettative e nelle rivendicazioni, dall’altra i processi di ristrutturazione produttiva sospinta da una competizione tra UE, Cina e USA sempre più approfondita (con gli aiuti pubblici di Biden o degli Stati europei), in cui l’Italia rischia di esser destinazione e ricettacolo di modelli di accumulazione centrati sui bassi salari. Una dinamica in cui, secondo questi settori, è necessario fare il punto cosa succede realmente nelle assemblee, in una stagione in cui si fa fatica a portare in piazza anche gli apparati, attivando anche un sistema di certificazione come durante il congresso [come se i verbali avessero garantito, o anche solo misurato, lo svolgimento effettivo e la partecipazione reale di lavoratori e lavoratrici: …ci si domanda in che realtà si sia vissuti nei mesi scorsi]. Questi settori hanno inoltre sottolineato come il governo stia grattando la pancia anche al lavoro dipendente (defiscalizzazione dei salari annunciata nel DEF) e soprattutto acceleri sull’autonomia differenziata (che non solo rompe sanità, istruzione, diritti universali, ma rischia di introdurre nuove gabbie salariali). Emerge quindi in modo sempre più evidente il rischio di una contraddizione tra l’iniziativa confederale e la dinamica delle categorie: per questo si è ribadita, in modo esplicito, la necessità di far evolvere velocemente la mobilitazione in uno sciopero generale, usando le assemblee stesse come strumento di pressione dal basso (in fondo abbiamo creato noi gli autoconvocati). Di fronte al rischio di una CISL che si sia aggregata soprattutto per frenare, con il freno a mano tirato nell’organizzazione delle assemblee, va fatto saltare questo freno a mano, dicendo nelle assemblee quello che si pensa e quindi iniziando a costruire l’iniziativa di sciopero generale. Un’iniziativa che in diversi hanno indicato non oltre giugno.

I settori di categorie e territori tradizionalmente moderati hanno ripreso e ulteriormente approfondito le considerazioni sull’arretramento della classe lavoratrice e il consenso reazionario anche nel lavoro dipendente. Le assemblee si fanno con fatica e in un clima pesante, con una crisi aperta di rappresentanza, perché la tendenza nei posti di lavoro è quella di delegare e ritrarsi da partecipazione e rappresentanza. In questo quadro, i loro interventi hanno sottolineato come il governo è probabile duri per tutta la legislatura, dovendo quindi noi predisporci alla ricostruzione di un rapporto di massa, anche con una strategia di ampie alleanze che possa arrivare a coinvolgere con settori padronali, facendo emergere le contraddizioni delle controparti e delle stesse iniziative del governo. Il nostro obbiettivo sarebbe cioè quello di correre una maratona, cambiando il nostro metodo e le nostre modalità di lavoro. Le assemblee, quindi, devono rientrare in questa strategia, in cui l’iniziativa unitaria è passaggio fondamentale e strategico per rilanciare il ruolo sindacale. In questo quadro, probabilmente, si dovrà anche sviluppare la capacità di indicare una priorità (una, non dieci), perché il parlare di tutto permette nelle assemblee di stare nelle proprie specificità, senza percorsi in grado di ricomporre il lavoro.

Una discussione disarmante. Perché in realtà questo confronto nel massimo organo direttivo della CGIL, per quanto onesto (anzi, proprio nella sua onestà), rivela come la principale organizzazione sindacale e l’unica organizzazione di massa rimasta nel campo vasto della sinistra sia sostanzialmente disarmata. I tempi per costruire uno sciopero generale a giugno, in questo percorso, non penso ci siano. Soprattutto, non c’è lo spazio politico e sociale perché questo eventuale risultato sia il prodotto di una dinamica assembleare, di una pressione dal basso, di una forza di quella rete di delegati/e e dei settori più organizzati della classe lavoratrice, che sono stati evocati con il riferimento agli autoconvocati. In primo luogo, perché mancano i tempi: una simile discussione nell’Assemblea generale della CGIL, con il primo corteo il 6 maggio, ci dice in primo luogo quanto sia improbabile che si inneschi realmente questo percorso, così velocemente e a freddo (in assenza di un dibattito pubblico, un’attenzione e un’attivazione di massa). In secondo luogo, è comunque illusorio pensare che la spinta alla mobilitazione possa oggi arrivare dal basso, di fronte alle divisioni e alle perimetrazioni sui livelli aziendali e di stabilimento tipici proprio dei settori più organizzati e sindacalizzati della classe. È illusorio, in assenza e anzi contro le stesse indicazioni di una parte consistente delle centrali sindacali (in primo luogo, la CISL, ma anche della stessa CGIL che non assume la responsabilità e la fatica di ritessere con determinazione e continuità una dinamica di mobilitazione). Anzi, è sostanzialmente mistificatorio, nel senso che proprio questo appello all’attivazione di base altera e cancella la responsabilità che dovrebbe esser propria di un sindacato generale in una fase come quella presente. La responsabilità, cioè, di indicare con chiarezza e determinazione il cammino, costruendo progressivamente e proprio a partire dalla propria convinzione una nuova attivazione di massa di lavoratori e lavoratrici.

A colpire, però, è anche l’astrazione di questa discussione. Oltre un anno e mezzo dopo la ripresa di un’inflazione sostenuta (che ha disarticolato un sistema contrattuale già minato dallo sviluppo dei livelli aziendali come in FCA e GDO, dal dumping anche tra contratti confederali come con la diffusione di Multiservizi,  dall’introduzione generalizzata di un Trattamento Economico Complessivo comprensivo di benefit, welfare e assicurazioni integrative), ad un anno dall’inizio della guerra e la precipitazione di una rinnovata competizione tra blocchi, a sei mesi dalla vittoria del governo Meloni, discutere genericamente sull’eventuale costruzione di uno sciopero generale rischia di esser un vuoto esercizio di stile. Come rischia di esser priva di significato la costruzione di piattaforme in un cui, semplicemente per giustapposizione, si sommano diverse questioni e rivendicazioni (fisco, pensioni, sanità, salari, defiscalizzazione degli aumenti salariali, autonomia differenziata, ecc), senza un loro assetto generale in relazione all’insieme delle diverse composizioni del lavoro, senza indicazioni di priorità, senza focalizzazione rispetto all’iniziativa del governo e del padronato, quindi chiarezza sui possibili risultati. Si indica tutto e quindi in realtà il nulla, la semplice alterità programmatica rispetto alle politiche del governo. Proprio perché la situazione è quella tratteggiata in molti interventi (sia in quelli tradizionalmente di sinistra, sia in quelli moderati), la discussione e l’iniziativa avrebbe dovuto porsi su un altro piano. Avrebbe dovuto entrare nello specifico delle differenti condizioni dei diversi strati della classe (pubblici e privati, precariato e tempo indeterminato, grandi fabbriche e filiere diffuse, settori trainanti e in crisi), tracciando quindi ipotesi su quali interessi e quali settori sia oggi meglio comporre per far partire le mobilitazioni e per reggerle nel tempo, con l’obbiettivo di generalizzarle progressivamente. La piattaforma e le parole d’ordine della mobilitazione dovrebbero cioè esser costruite non solo su quello che è giusto chiedere, non tanto sulla semplice risposta alla controparte, ma soprattutto in funzione delle condizioni e delle prospettive di iniziativa da parte della classe lavoratrice. Come, in stretta relazione con queste valutazioni, sono da considerare le forme della mobilitazione e la loro (eventuale) progressione (cortei volti a intercettare una partecipazione più ampia del lavoro, politica o sociale; scioperi settoriali ripetuti nel tempo, in grado di colpire le realtà produttive in questo momento più fragili e/o di coinvolgere i settori oggi più disponibili, a partire ad esempio dagli scioperi degli straordinari; scioperi generali di categoria o del paese, di 2, 4 o 8 ore a seconda della loro successione del tempo e della valutazione dell’effettivo sostegno di lavoratori e lavoratrici, ecc). Una discussione, cioè, che dovrebbe articolarsi sulle valutazioni concrete degli obbiettivi, delle condizioni, della possibilità di sviluppare un fronte dei diversi settori della classe intorno alla mobilitazione. Invece, tutto questo semplicemente manca. Nel sindacato e nella sinistra.

L’iniziativa, la mobilitazione, la lotta sembra esser semplicemente una scelta politica, una questione di volontà soggettiva, senza alcuna reazione con la realtà e soprattutto con l’obbiettivo di cambiarla. È spesso così nelle interpretazioni, nelle intenzioni e nell’azione delle organizzazioni avanguardiste, come in ampia parte dello stesso sindacalismo conflittuale, che infatti si trova spesso, troppo spesso, a chiamare a scioperi generali di organizzazione e di programma (come quelli convocati in questa primavera, tra loro anche separati e di fatto contrapposti, come quello della CUB del 26 aprile o di USB del 24 maggio). È così, purtroppo, anche per il sindacato confederale, che organizza cortei il sabato pomeriggio per la stessa identica ragione, con lo stesso livello di astrattezza e superficialità, solo su una scala diversa. Nel silenzio di una sinistra politica e sociale oramai distante dalla classe lavoratrice, astratta dalle sue condizioni, dinamiche e percezioni. Incapace anche solo di aprire una riflessione su interessi, vertenze, composizioni di classe e cicli di lotta intorno a cui ricomporre una conflittualità sociale. Da qui dobbiamo ricominciare. Forse è anche meno di tre. Credo però che l’apertura di questa riflessione, il ritorno di una capacità di fare cronaca e analisi di quanto concretamente avviene nei rapporti di produzione, sia sempre di più la priorità per tutte le sinistre sindacali. A partire da noi.

Luca Scacchi
Assemblea Generale CGIL

Lascia un commento