Domingo: un grande tenore, un uomo come tanti altri.
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Una riflessione sul rischio di molestie nel settore del teatro.
Sapete perché Domingo crea tanto scalpore e una contrapposizione tra innocentisti e colpevolisti? Perché i primi concentrano l’attenzione sull’artista e vogliono difenderne l’indiscussa grandezza, mentre i secondi si focalizzano sull’uomo accusato di molestie sessuali. Sull’artista lasciamo le considerazioni ai melomani e agli addetti ai lavori.
Sull’uomo Domingo, nonostante crediamo nel principio garantista, pur in assenza di un giudizio definitivo riteniamo che le scuse ufficiali da lui presentate (“Sono dispiaciuto per le sofferenze causate. Mi assumo la piena responsabilità, nessuno dovrebbe comportarsi così”) valgano come un’ammissione di colpa. Forse ha pensato che, dall’alto della sua posizione nell’olimpo del belcanto, bastasse scusarsi per lavarsi di una macchia che probabilmente ritiene piccola, insignificante, un incidente di percorso di quelli che capitano. E infatti capitano. In un ambiente competitivo come quello dello spettacolo, quante volte succede che un uomo abusi di una posizione di potere nei confronti delle donne? Su quante audizioni, quanti provini, quante collaborazioni cade l’ombra del ricatto e della prevaricazione? Domingo ha avuto una carriera straordinaria in anni in cui la sensibilità su questi temi era pari a zero, e la linea di demarcazione tra un approccio consono e una molestia era assai sottile, e questo è uno degli argomenti usati da chi continua a difenderlo in base al suo grandioso passato di tenore. Distinguere Domingo da ciò che rappresenta Domingo è però necessario per parlare di femminismo e patriarcato.
Non è che le femministe che accusano Domingo siano incattivite alla ricerca di un nemico. Il nemico c’è, e se molti sorridono a sentire o leggere la parola “patriarcato”, forse troveranno una maggiore rispondenza a sapere che le proprie figlie, sorelle, mamme, nonne, mogli, amiche si sono trovate, almeno una volta nella vita, in varia misura molestate. E d’altra parte ogni donna potrà riconoscere almeno con sé stessa di essersi ritrovata talvolta in una situazione di disagio con un uomo, chiunque egli fosse, di potere o no. Un disagio che può essere scatenato dal giudizio non richiesto su una parte del proprio corpo, sia nella versione “complimento” (come se poi noi donne ci mettessimo a dire ad un uomo “complimenti per il pacco!”) che nella versione dell’offesa vera e propria; da ogni tipo di commento o gesto a sfondo sessuale; dagli approcci fisici indesiderati, dalla manata sul sedere in su. E potremmo andare avanti, perché questa è una lista che cresce di grado, ma ad ogni punto l’idea sottesa è che una donna sia sempre un oggetto sessuale, prima che una persona. E salendo di grado si arriva allo stupro.
“Che esagerazione!” Direte voi… “Allora non si può dire più niente?” È evidente che tra un commento greve e uno stupro c’è una differenza di grado, ma è altrettanto lampante che tra il commento volgare di un collega e quello di un capo c’è di mezzo una questione di potere. Dal collega come dal capo, se una donna non riesce a difendersi non ha colpa. La colpa, è banale dirlo ma pare che ce ne sia ancora bisogno, è sempre di chi commette il torto, non di chi lo subisce. Ci sono molte ragioni per cui si può non riuscire a rispondere adeguatamente a frasi sessiste: per timidezza, per vergogna, per non sentirsi dire “e fattela una risata!”, o anche per il semplice motivo che un certo linguaggio è a tal punto normalizzato che se un uomo ti dice che hai un bel culo, tu ringrazi. Da un superiore, poi, una donna farà ancora più fatica a difendersi, perché magari è precaria, teme ritorsioni, e in più sa che spesso le donne vengono colpevolizzate per come si vestono o si truccano, e quindi forse “se la sono cercata”…
Quante volte, nel caso Domingo o in casi simili, si è sentito dire “se lui ci ha provato, lei non aveva che da andarsene, evidentemente le stava bene così”, oppure “perché non ha denunciato subito?”. A nessuna donna sta bene un abuso sessuale; piuttosto ci può essere un’acquiescenza, una remissività che a molte di noi è stata insegnata fin da piccole e che, per spezzare questa catena con le prossime generazioni di figlie, occorre mettere a fuoco. Se ad un certo punto, a distanza di tempo, sono esplose le denunce, non è per una epidemia di protagonismo femminile (anche perché, pensiamoci, le donne che hanno denunciato sono state investite da insulti, minacce, e tacciate di essere bugiarde).
Capziosamente qualcuno cerca di sovrapporre mitomania e #metoomania, ma se molte donne si sentono oppresse e si organizzano in collettivi femministi è fin troppo facile pensare che siano tutte pazze, mentre una riflessione sui problemi di genere è ormai inderogabile. Continuare a credere che certe condotte apparentemente innocue non abbiano nulla a che spartire con quelle drammatiche dello stupro e del femminicidio è non riconoscerne la parentela, la comune matrice.
Concludiamo citando uno scrittore e filosofo femminista, Lorenzo Gasparrini, che ci sembra andare dritto al cuore della questione: “di fronte a un femminicida, a uno stupratore, dovremmo non correre a manifestare quanto siamo differenti da lui, ma chiederci cosa abbiamo in comune con lui, riconoscendo che i suoi atti violenti non sono altrove rispetto alle battute maschiliste, agli insulti sessisti, all’imputare le carriere femminili all’uso sessuale del loro corpo, al ritenersi il solo genere destinato a comandare e gestire“.
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