Eliana Como: «Mai più separare i diritti sociali dai diritti civili»
La prima firmataria del documento Le radici del sindacato interviene agli Stati Genderali lgbtqia+ & Disability di Palermo. Qui la trascrizione del suo intervento.
Sono felice di intervenire. Mi piange il cuore che non sono a Palermo, dovevo esserci, anche perché domani mattina in Camera del Lavoro presenteremo il secondo documento al congresso Cgil che si terrà a settembre, il pomeriggio sarei andata al Pride, però – ahimè – sono in quarantena a Bergamo. Quindi sono dalla parte opposta del paese, ma felice di poter intervenire e soprattutto ascoltare. Poi ci saranno altre occasioni per parlarsi di persona.
Io qui parlo da sindacalista. Lo dico con forza, per me il suicidio di Cloe Bianco è un punto di non ritorno. Cloe era stata demansionata perché in questo paese una donna trans non si sa che lavoro può svolgere, ma non l’insegnante. Questo non è accettabile. E sento che mi riguarda non soltanto come persona o come transfemminista. Mi riguarda come sindacalista. Perché Cloe è stata maltrattata e punita, non solo come donna trans, ma come lavoratrice.
L’ho già detto altrove, lo ripeto a voi: il prossimo che mi dice che diritti civili e diritti sociali sono cose diverse e che il sindacato si deve occupare solo di pensioni e salario, lo ribalto.
E dico un pezzo in più. Non basta nemmeno che il sindacato si occupi di diritti civili a latere, di contorno, perché in fondo siamo belle persone e ci interessano i diritti di tutte e tutti. Abbiamo tante urgenze, non ci sono dubbi. Il salario, le pensioni, la sicurezza sul lavoro, le delocalizzazioni. Poi la guerra, la crisi climatica. Tutto vero.
Ma se una donna trans si suicida perché le hanno impedito di fare il suo lavoro quando ha scelto di vivere liberamente la sua identità di genere, io sono chiamata direttamente in causa.
La strada è tutta da fare. Nel nostro documento Le radici del sindacato per il congresso della Cgil, abbiamo provato, dentro a un necessario equilibrio complessivo e dentro le priorità che dicevo prima, a indicare anche degli impegni su questo. Impegni concreti, da misurare nella nostra stessa contrattazione. Da un lato, il tema più generale del contrasto culturale all’omolesbobitransfobia, sul quale credo dovremmo provare a lanciare una campagna di sensibilizzazione, informazione e formazione, prima di tutto in rapporto con i movimenti, poi al nostro interno (credetemi, c’è tanta formazione da fare anche con i sindacalisti e le sindacaliste) e poi direttamente nei luoghi di lavoro.
Lo so che non è facile. Non è facile nemmeno parlare di sessismo in assemblea, di violenza contro le donne, ancora peggio di razzismo. Ma è nostro dovere, provarci. Io sono andata in fabbrica a parlare di sessismo e violenza di genere. Mica è facile, volete che non vi dica che qualche operaio in assemblea si è alzato e se ne è andato. Ma credetemi, ne vale la pena.

Il piano, culturale è assolutamente necessario, ma non conclude il nostro ruolo. Dall’altro lato, quindi, noi dobbiamo interrogarci anche di azioni concrete, da quelle generali che riguardano la ricerca e l’accesso al lavoro contro i pregiudizi che citavo prima sul caso di Cloe, il contrasto alla precarietà, gli appalti, l’art 18 (che vieta le discriminazioni, ma purtroppo, dopo le modifiche, viene spesso aggirato anche su questo), fino a quelle più specifiche, da praticare nella contrattazione aziendale. Provo a dirne alcune: il riconoscimento della carriera alias, misure specifiche per la salute e la sicurezza di chi intraprende percorsi terapeutici o operatori di affermazione di identità di genere (pause o permessi specifici per le terapie, attenzione ai carichi di lavoro nelle fasi post operatorie etc). Mi piacerebbe dire predisposizione di bagni genderless nei posti di lavoro (se non fosse che chi sta in fabbrica mi risponde, che già sarebbe un lusso averli puliti i bagni).
C’è un tema poi che riguarda le molestie sul lavoro, vale per le donne come per tutte le molestie di genere. La legge prevede già che il rischio di molestia debba essere inserito nel DVR, ovviamente a seconda del livello di rischio. Ma non succede. Il rischio di molestia è una rarità nei DVR. Dobbiamo lanciare una grande campagna su questo, possibilmente insieme, non riguarda solo le donne. Inserirlo nel DVR significa riconoscere che esiste una responsabilità del datore di lavoro: cioè se avviene una molestia, chi la commette è il colpevole, ma il datore di lavoro che non la ha impedita è responsabile. Cambia completamente il punto di vista. Come Non Una di Meno Bergamo abbiamo lanciato una campagna, spero che in autunno riusciamo a rilanciarla, anche insieme. Lavoriamoci su questo, è centrale e peraltro, in questo caso, la legge esiste, non dobbiamo inventarcela. Dobbiamo “solo” farla applicare.
Per il resto, io penso che fate benissimo a scrivere nel documento di questa assemblea che ci vediamo in autunno nelle mobilitazioni che ci saranno e che costruiremo insieme. La convergenza non si enuncia soltanto, si pratica. Da entrambe le parti. Quindi ci vediamo in autunno nelle nostre comuni mobilitazioni.

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