Una stagione di lotta
Giorgio [Airaudo, segretario regionale del Piemonte] nel primo intervento di questa discussione ha posto un tema, che è quello della necessità che abbiamo come organizzazione sindacale di recuperare un rapporto, una dialettica, un confronto, anche una capacità di coinvolgere, attivare e mobilitare l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici di questo paese.
Io credo che abbia proprio ragione. Anche con quello spirito e quell’urgenza che ha posto nell’incipit del suo intervento. Perché, anche come dire rispondendo a Pedretti [segretario nazionale SPI], certo purtroppo non siamo in una situazione in cui il popolo è rivoluzionario. Davanti a una situazione che richiederebbe, per la gravità e la pesantezza delle attuali dinamiche sulla vita di tutti i lavoratori e tutte lavoratrici, ma in generale di tutte le persone, una capacità di attivazione e di mobilitazione, questa invece non è la reazione spontanea che si sta innescando. Anzi, purtroppo ci troviamo di fronte ad un lavoro che è scomposto, ripiegato, perimetrato sulle proprie appartenenze e le proprie realtà, di stabilimento, di fabbrica, di settore, di categoria, di professione. Tutto questo rende esattamente difficile la costruzione di una mobilitazione. Ma proprio questo assegna a noi, CGIL, una responsabilità. Perché assegna ad un sindacato generale e confederale come il nostro, assegna a noi che siamo la CGIL e che apparteniamo a quel mondo che vuole difendere il lavoro nel suo insieme, il campito di riunificarlo e riattivarlo.
Da questo punto di vista, io credo che la piazza di sabato non ci aiuta. E’ stata una bella piazza, capace come dire di attivare e mobilitare il nostro gruppo dirigente, il nostro apparato, i delegati e le delegate che sono la parte più attiva dell’organizzazione, ma purtroppo non ci aiuta. Guardate, non per la piazza in sé. Non ci aiuta perché dopo quello che è successo negli ultimi sei mesi, di fronte alla gravità delle condizioni di vita e dei processi sociali in corso, non è una piazza che si pone in continuità con qualcosa.
Perché l’ultimo sciopero che abbiamo fatto, più di sei mesi fa, in un’altra stagione e in un altro tempo [prima della guerra in Ucraina e delle sue conseguenze sociali ed economiche], era una sciopero che annunciava una stagione di mobilitazione. Nelle stesse conclusioni di Maurizio [Landini], nella discussione anche abbastanza accesa che noi facemmo in Direttivo sia prima di quello sciopero sia dopo, nel direttivo diciamo di Natale. Quella era una piazza che doveva annunciare e costruire un percorso di mobilitazione continuativo. Ad un certo momento ricordo che all’interno di quella discussione si disse persino sin da gennaio [mentre era ancora da attivarsi e concludersi la procedura di elezione del Presidente della Repubblica]. Una mobilitazione continuativa che doveva esser capace di vivere e di articolarsi nei territori e nelle categorie, ma di mantenere nel corso della primavera anche una capacità di dispiegarsi con una piattaforma generale esattamente per riattivare e unificare il lavoro.
Noi questa dinamica in realtà non l’abbiamo costruita. Rischiamo, e rischiamo anche il prossimo autunno dichiarando semplicemente uno sciopero a settembre/ottobre, di costruire mobilitazioni occasionali, in realtà nella percezione e nel vissuto delle persone, di lavoratori e lavoratrici ma anche del mondo politico, isolate l’una dall’altra e in qualche modo anche dalla stessa dinamica della realtà, mi viene da dire.
In questo, non aiutano rispetto a quella che invece è la priorità, appunto la ricomposizione del lavoro e la sua attivazione. Guardate lo dico a partire dai fatti e dalle esperienze di questi ultimi sei mesi.
Il primo problema che abbiamo, la guerra. La guerra è il primo problema, lo ha detto anche Maurizio lo hanno detto molti dal palco, per come cambia completamente non solo le politiche economiche e sociali, ma la stessa dinamica della competizione mondiale, a partire da una nuova stagione di confrontazione tra grandi potenze. Una nuova stagione che comporta e comporterà conseguenze generali sempre più evidenti nel nostro futuro. Uno dei problemi che abbiamo, e io credo che come gruppo dirigente della CGIL dobbiamo dircelo e dobbiamo capire come uscire da questa situazione, è che nei confronti della guerra oggi c’è un movimento, come dire, diviso e sparuto, in una dinamica complessa e difficile: non ci sono le piazze piene, l’attenzione sociale e la capacità di reazione che si sono evidenziate in altri conflitti, per certi verso molto più limitati, pensiamo alla guerra del 2001, l’invasione dell’Iraq e la scesa in campo della cosiddetta seconda potenza mondiale. O ad altri episodi su interventi militari all’estero negli ultimi decennio [come ad esempio la guerra in Bosnia o in Kossovo]. No. Abbiamo un grande consenso sul fatto che questa è una guerra sbagliata, abbiamo nei sondaggi un grande consenso sul fatto che è sbagliato inviare armi in Ucraina, ma non c’è e non c’è stata in questi mesi la capacità di far vivere anche nelle nostre mobilitazioni (il 25 aprile e il primo maggio), un movimento per la pace e contro la guerra, nei posti di lavoro, nei territori come a livello nazionale.
Anche sulla questione salariale. Ne hanno segnalato in tanti la priorità, è evidente ad ognuno di noi dal momento che abbiamo un IPCA al 4,7% e un’inflazione al 6,7%. Quella è oggi l’emergenza. Però, attenzione, non è un’emergenza creata dalla guerra, è un’emergenza che risiede negli squilibri e nelle contraddizioni dell’attuale fase economica, di una gestione capitalistica della crisi che ha radici profonde negli ultimi dieci e quindici anni, ma che soprattutto rischia di non essere di breve durata, al di là del 2022. Arrivo a dire, in termini sindacali, se anche si avverassero le previsioni che ci parlano di un’inflazione al 2,4 o al 2,5% nel 2023 e intorno al 2% nel 2024, cosa che ritengo difficile rispetto alla dinamica reale dei prezzi e dell’economia che c’è in questo momento, anche di fronte ad un’inflazione di quel tipo noi ci troveremmo di fronte ad un problema reale di difesa delle condizioni salariali e del potere di acquisto di lavoratori e lavoratrici. Per l’attuale modello contrattuale, stante l’attuale dinamica contrattuale e nell’attuale quadro dei rapporti di forza [a meno che, appunto, non li modifichiamo]. Innanzitutto, e lo dico perché problema che dovremmo iniziare a porci, a partire dalla durata dei contratti: in una fase di inflazione azzerata se non di deflazione, noi siamo arrivati ad avere contratti che si rinnovano triennalmente, spesso anche con durate effettive di 4 o addirittura 5 anni. Davanti ad un’inflazione annua sul 2% e quindi, sul complesso del rinnovo, al 6 o 7%, noi non siamo spesso in grado di stare dietro a questa dinamica: anche perché, lo ha ricordato Eliana [Como], abbiamo accettato un meccanismo di riconoscimento ex post che a questo punto pesa significativamente su tutti i salari (per esempio tra i metalmeccanici). Noi abbiamo bisogno di un’iniziativa straordinaria, che non può esser centrata tanto sul bonus quanto sulla defiscalizzazione, che ha elementi regressivi in sé stessa. E allora, per andare verso la conclusione, io credo che noi abbiamo bisogno esattamente sulla questione del salario di una mobilitazione forte, significativa, immediata, per la riconquista di meccanismi di scala mobili, di strumenti straordinari di difesa del salario.
In secondo luogo, la questione del pubblico. Come hanno ricordato molti, come ha ricordato Pagano [segretario CGIL della Lombardia] in uno degli ultimi interventi, c’è poi la difesa del settore pubblico. Noi abbiamo il PNRR che sta concretamente per esser messo a terra in questi giorni, in queste settimane, senza che come confederazione siamo riusciti a incidervi concretamente. È messo a terra con l’obbiettivo di far uscire pezzi di stato sociale, di servizi sociali, dal perimetro pubblico. Guardate, in tutti i settori. Ha ricordato Pagano le case della salute e la sanità. Io vorrei ricordare il mio settore, l’università. Miliardi di euro, 3/4 miliardi ad oggi, sono agiti nei progetti di ricerca, in queste ore in questi giorni attraverso la costituzione di fondazioni private da parte degli atenei, che saranno i reali collettori dei fondi e quelli che (nel loro perimetro privato) attueranno progetti e ricerche con personale a tempo determinato.
Così, in terzo luogo, si pone la questione dell’autonomia differenziata. Domani, dopodomani, la Ministra Gelmini andrà a presentare un progetto di legge che rilancia e radicalizza i processi di autonomia differenziata su tutti i settori della Pubblica amministrazione.
Infine, come ricordava sempre Eliana [Como], la questione delle pensioni che ci trasciniamo da anni.
Allora, davanti a tutto questo, io credo che il problema non sia dichiarare lo sciopero generale a settembre/ottobre, ma costruire e spiegare e coinvolgere i lavoratori e le lavoratrici in una reale vertenza unificante, che sappiamo non potrà risolversi per gli attuali rapporti di forza in un semplice sciopero generale, ma dovrà come dire mettersi a terra concretamente, certo a partire dall’autunno ma forse anche prima, nei territori come a livello nazionale, con dei percorsi e una nuova stagione di lotta che non si potrà appunto esaurirsi in uno sciopero occasionale ma dovrà provare ad incidere concretamente nelle politiche economiche e sociali di questo paese con una lotta prolungata.
L’ultima cosa che dico, finendo, io credo che tutto questo non lo dobbiamo fare da soli, ma io credo che l’elemento prioritario non sia quello dell’unità con le altre confederazioni [che hanno modelli e linee sindacali diversi e oggi divergenti, in particolare la CISL], ma sia quello che ha sottolineato De Palma [segretario FIOM] nel suo intervento, sia agire con i movimenti sociali che in questi mesi sono tornati ad esprimersi in questo paese (dagli studenti a Friday for future, dalla campagna per l’acqua pubblica all’esperienza di convergenza promossa dal Collettivo di fabbrica GKN e da #insorgiamo).
Luca Scacchi
Rispondi