Una lunga stagione di guerra, i rischi di una nazionalizzazione delle masse, la lotta per la pace
Care compagne e cari compagni,
la guerra che è scoppiata lo scorso 24 febbraio è stata per tutti noi in qualche modo una sorpresa. E’ un colpo di tuono che è rimbombato su tutto il continente e che, in qualche modo, ci ha preso alla sprovvista. Io credo che proprio noi, che rappresentiamo organizzazioni, lavoratori e lavoratrici, sindacati che si pongono sul terreno conflittuale, devono come dire esser consapevoli di esser stati presi in contropiede. Perché questa sorpresa che è avvenuta ci interroga. La guerra non è esplosa improvvisamente. Innanzitutto perché, i compagni e le compagne lo ricorderanno, per un mese la sua possibilità è stato il centro della politica internazionale, le prime pagine di tutti i giornali, la dinamica di confronto internazionale fra le diplomazie delle grandi potenze. Non è scoppiata improvvisamente, poi, perché le dinamiche che stanno dietro a questa guerra si sono dispiegate per moltissimi anni.
E’ oramai da quindici anni che è scoppiata la Grande Crisi. E’ oramai più di dieci anni che la Cina è emersa evidentemente non solo come la seconda potenza capitalistica del mondo, ma come una potenza capace di costruire le proprie propensioni imperialiste, dalle basi militari all’estero [a Gibuti e in Asia centrale] ad una politica di esportazione di capitali [Belt and Road Initiative]. Tutto questo ci parla di questa guerra, perché senza la profondità economica, politica, strategica e militare della Cina, la Russia non avrebbe prodotto l’invasione che ha prodotto poche settimane fa. Anche la dinamica della guerra ha iniziato a stringersi in maniera molto diversa da tempo, nelle nostre quotidianità. Dalla Siria al Rojava, al fatto che al confine dell’Italia, in Libia, sono presenti conflitti e interventi militari stranieri: una base militare turca a Tripoli, basi militari russe in Cirenaica e da ormai diversi anni una divisione del paese che corre su un fronte di guerra.
Sono tutte dinamiche che ci dicono di come questa guerra viene da lontano. Ci dicono soprattutto, ed è su questo che vorrei porre l’attenzione di compagne e compagni, che questa non è la stessa tipologia di guerra che abbiamo affrontato negli ultimi trent’anni. Non è la Serbia del 1999, non è l’Iraq del 1991 o del 2003. Non è una guerra neocoloniale, un intervento militare che si dispiega alla periferia del mondo, perché è una guerra che passa nel confine e nell’attrito fra grandi aree economiche, fra potenze mondiali capitalistiche.
Siamo di fronte sicuramente ad un’aggressione militare, un’invasione, che ha lanciato Putin, espressione di un regime basato su un capitalismo di rendita e quello che resta dell’apparato militare industriale erede dell’Unione sovietica. Però è una guerra di invasione sussunta nel quadro di un conflitto interimperialista. Lo vediamo nelle trattative, nelle dinamiche militari, politiche e diplomatiche che stanno giocandosi oggi sul conflitto: si stanno tracciando le linee di confine delle aree di influenza tra i grandi poli capitalisti mondiali (la Russia, l’Unione Europea, gli Stati uniti e la Cina).
Allora di fronte a questa guerra noi ci troviamo impreparati perché è una guerra che coinvolge e interessa l’insieme della società. Lo hanno ricordato molti interventi, lo ha annunciato il Presidente del Consiglio con il suo richiamo ad un’economia di guerra. Lo vediamo nel clima di mobilitazione nazionale, che mai come oggi è stato così pesante, asfissiante e repressivo: neanche quando l’Italia è stata direttamente in guerra, nel 1991, vi ricordate, con Cocciolone e Bellini, i nostri piloti abbattuti e catturati in Iraq. Neanche allora si è registrato un tale livello di controllo e propaganda di guerra. E questo ci dice che le dinamiche di mobilitazione sociale nazionalista, di guerra, sono potenti e ci interrogano, perché rischiano di coinvolgere rapidamente i nostri settori: i lavoratori, le lavoratrici, anche la classe operaia organizzata, in una dinamica di nazionalizzazione delle masse. Perché nel momento in cui scatta, si innesca, entra negli orizzonti degli eventi la possibilità di una terza guerra mondiale, nel momento in cui si costruisce e si sviluppa una dinamica di propaganda di guerra così pervasiva, l’obbiettivo e anche il processo è esattamente quello dell’irreggimentazione di un consenso di massa, profondo, proprio per reggere sul piano economico, politico e militare, quel tipo di mobilitazione.
La guerra di oggi non è la guerra degli ultimi trent’anni perché non guarda semplicemente ad un futuro di possibili conflitti che si ripeteranno, ma ci parla all’interno di una grande crisi capitalistica di come la competizione tra i poli e tra i principali blocchi continentali diventa nell’orizzonte degli eventi l’elemento che struttura le scelte politiche ed economiche e rischia di strutturare anche le dinamiche della coscienza e degli immaginari di classe.
Tutto questo lo dico perché questo lo affrontiamo in maniera estremamente impreparata e, come dire, difficoltosa, come soggettività organizzate dell’avanguardia di classe, come strutture politiche e sindacali, ma anche come classe lavoratrice. Nell’ultimo decennio si è sviluppata una profonda divisione della classe, dove ognuno è, come dire, rinchiuso in una nicchia, in un perimetro, di consapevolezza, di coscienza, di modalità di organizzazione, ma anche di condizioni di lavoro e conflittualità, di salario e struttura del salario, che oramai variano estremamente da settore a settore, da comparto a comparto. Io vengo dal pubblico impiego, persino da ministero a ministero nel pubblico impiego.
Allora davanti a questo, qui è risuonata più volte nella relazione e in molti interventi, il tema della convergenza. Io temo e sottolineo che questo è l’elemento principale che dobbiamo affrontare. Temo, perché unire è sempre difficile. Sottolineo, perché il problema non è semplicemente dare una risposta immediata contro l’invio di armi in Ucraina da parte del governo italiano, contro il sostegno a questo conflitto interimperialista, cosa che in ogni caso sicuramente dobbiamo fare. Il problema è che dobbiamo anche iniziare a strutturare, iniziare a strutturarci noi come soggettività conflittuali, all’interno di questo nuovo panorama. Allora, è stato ricordato, il 26 marzo a Firenze è stato un primo momento di convergenza importante, di piazza. Una convergenza tra soggettività e organizzazioni sindacali. Una convergenza tra diverse realtà, il mondo della fabbrica e quello degli studenti. Una convergenza tra il mondo del sindacalismo e del conflitto di classe e i movimenti che lottano per la questione ambientale ed il clima. Io credo che noi oggi dobbiamo avere la stessa capacità di riuscire a parlare a mondi diversi, approfondendo quella spaccatura che è presente nel movimento della pace: tra la piazza del 12 marzo a Firenze (una piazza con l’elmetto che sostiene la resistenza ucraina, esattamente nella logica dello scontro tra potenze) e la piazza del 5 marzo a Roma, soprattutto quella raccolta intorno alla piattaforma iniziale, che scegli invece di dire chiaramente no alla NATO, che sceglie di dire chiaramente no all’invio delle armi, che nella sua piattaforma inserisce anche la solidarietà e la vicinanza a lavoratori e lavoratrici russi e ucraini che lottano contro la guerra.
Contrastare e rompere il nazionalismo, e chiudo, io credo sia il nostro compito principale, dentro questo paese tanto quanto sul piano internazionale. Allora io credo che percorrere le convergenze sia soprattutto, nelle prossime settimane, costruire assemblee nei posti di lavoro, per portare questi discorsi nella classe, tra i lavoratori e le lavoratrici; io sottolineo anche due prossimi appuntamenti, il 25 aprile ed il 1 maggio, perché il 25 aprile non deve essere una giornata di sostegno alla resistenza ucraina ma noi dobbiamo costruire nelle piazze una presenza disfattista e antimilitarista, rispetto questo conflitto e lo scontro imperialista in corso; infine, poi, certo, nella forma della convergenza più ampia possibile, costruire momenti di generalizzazione della lotta e anche di sciopero generale. Una tappa: perché tutto non finisce il 20 maggio, tutto non finisce in queste settimane, io credo che veramente dobbiamo presentarci e prepararci ad una cupa stagione, che sarà purtroppo di lunga durata.
Luca Scacchi
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