E.Como. Non concordo su auspici e raccomandazioni.
Non concordo con l’interpretazione che è stata data del testo firmato con Confindustria e le parti martedì scorso. Titoli e dichiarazioni di ieri per me sono state imbarazzanti. Questa propaganda non è nemmeno utile, anche perché con un testo di così poche righe, che tutti possono leggere, c’è poco da fare propaganda. Tutti leggono: “presa d’atto”, le parti “auspicano”, “raccomandano”, “si impegnano a raccomandare”. Quest’ultima non capisco nemmeno in italiano cosa voglia dire o quale nuova figura retorica sia.
Non so nemmeno cosa voglia dire firmare una “presa d’atto”. Facevo già fatica a capire quando firmavamo i verbali di riunione, anni fa: non capivo perché dovevamo firmarli se non eravamo accordo. Ora firmiamo la “presa d’atto”, ma a me pare che “prendo atto” quando non sono d’accordo e dico appunto che non condivido una decisione che viene presa unilateralmente, senza il mio accordo. E secondo me è proprio quello che significano quelle sette righe: il governo e la Confindustria decidono unilateralmente, perché non c’è mezzo vincolo su quell’impegno o raccomandazione. È meno di una promessa. Meno che se firmassimo una stretta di mano. Firmandolo abbiamo assecondato e anzi partecipato a una narrazione in cui Draghi ha mediato e noi “abbiamo piegato Confindustria”. Ma non è vero.
Era meglio dire che noi ci abbiamo provato, ma il blocco dei licenziamenti non c’è più (tessile escluso). Quello che ha messo in campo Draghi sono 13 settimane di cassa integrazione in più, gratis per le aziende. Punto. Non va bene e quindi il governo deve assumersene la responsabilità.
Era più trasparente dirla così. Anche perché che il blocco dei licenziamenti sarebbe finito lo sapevamo. Avremmo fatto meglio a dire, come sento da voi da circa un anno, che è comunque stato un miracolo ottenerlo e siamo comunque l’unico paese in Europa che lo ha avuto. Abbiamo fatto quello che potevamo, ma “prendiamo atto” (nel senso vero del termine) che non c’è più e quindi avanti tutta con le mobilitazioni per ottenere la riforma degli ammortizzatori (non una promessa di essa) e soprattutto sulle pensioni, perché con la fine del blocco dei licenziamenti quello che più di ogni altra cosa servirà è agganciarsi alla pensione. E da gennaio noi torniamo a 67 anni e 7 mesi.
Quello che è uscito ieri è invece che Draghi ha fatto la mediazione e noi siamo soddisfatti, anzi, diciamo che è il frutto delle mobilitazioni di sabato. Questo anche per me è un errore per tre ragioni:
Primo, perché chi poi legge quelle sette righe non ci mette tanto a chiedersi di cosa dovremmo essere soddisfatti.
Secondo, come sapete io pensavo che senza sciopero le manifestazioni di sabato fosse meno del minimo sindacale, però in quelle piazze ho comunque sentito “non si arretra di un millimetro”. Passare l’accordo di martedì, con la fine del blocco dei licenziamenti, come il risultato di quelle piazze secondo me è un boomerang e non gratifica nemmeno chi a quelle manifestazioni ha partecipato, al limite sapendo che potevamo anche perdere, ma appunto che saremmo andati avanti con le mobilitazioni e indietro di un millimetro se non ce l’avessimo fatta.
Terzo, perché invece che far assumere a Draghi la responsabilità politica di aver rotto con noi, ci assumiamo noi quella di sostenerlo, in cambio di un “auspichiamo”.
E questo è tanto più grave dopo i fatti di Novara. Tutti/e noi sono certa, ed è stato detto nell’introduzione del direttivo, abbiamo la consapevolezza della gravità dei fatti accaduti. Se un sindacalista muore ammazzato, durante un picchetto e uno sciopero, le sigle sindacali non c’entrano proprio niente.
Se tutti lo sappiamo, credo però che la nostra risposta avrebbe dovuto essere più forte, come quella che tante Rsu e di alcuni territori che hanno dichiarato subito sciopero, perché di fronte a una cosa così grave, non bastano le dichiarazioni. Tant’è che ieri, di nuovo, si è sfiorata un’altra tragedia, con la stessa dinamica.
Va bene che qui si discuta oggi finalmente del fatto fatto che c’è un tema specifico della categoria dei trasporti. Ma secondo me va oltre quello che qui ho ascoltato e prima avevo letto sui giornali. Cioè che noi come Cgil nella categoria ci siamo, siamo i primi dentro Amazon e firmiamo i contratti nazionali.
Il punto vero, ed è meglio affrontarlo, è che, al netto delle scelte politiche, noi in quella categoria rappresentiamo – bene o male, non è questo il tema ora – soltanto una parte di lavoratori, quelli che appunto i contratti li hanno. Tutto il resto, quello fatto di appalti e subappalti, in larghissima parte stranieri e con condizioni pessime di sfruttamento, non li rappresentiamo noi, ma i sindacati di base, – bene o male, anche questo non è il tema.
Lo so che tocco un tasto delicato e, sia chiaro non piacciono nemmeno a me le scelte di chi fa i presidi davanti alle nostre sedi. Però il tema della rappresentanza di quel settore c’è, esiste e va affrontato. Se vogliamo davvero affrontare il tema della contrattazione inclusiva tanti altri tasti delicati dovremo toccare.
Quindi, sulla morte di Adil avremmo dovuto fare di più, a partire dal chiederne conto al Governo, perché c’è un filo conduttore tra quello che è successo a Novara e quello che era accaduto una settimana prima a Lodi alla Fedex, dove le squadracce dell’impresa hanno preso a bastonate i manifestanti con la polizia che per dieci minuti buoni non fa niente. Il messaggio che è passato è che davanti ai cancelli delle fabbriche e dei centri della logistica può accadere qualsiasi cosa. E ci stupiamo poi se un camionista forza un picchetto e investe un lavoratore in sciopero!
A proposito, al comizio di Milano, ho sentito il segretario generale dire che anche il camionista è un lavoratore come gli altri. NO, di picchetti ne abbiamo fatti tanti: quando uno decide di forzarlo, non si ferma nemmeno di fronte alle guardie, sfonda il picchetto e trascina per 10 metri un uomo, scusate, ma non è un lavoratore come tutti gli altri. Lo dico perché io non ci sto alla narrazione della guerra tra poveri. Per me questa è guerra contro i lavoratori e le lavoratrici, soprattutto è guerra contro la libertà sindacale e il diritto di manifestare e la stanno facendo le imprese in uno dei settori a più alta intensità di sfruttamento del lavoro. Il punto non è, come è stato detto, le forme di lotta o il fatto che qualcuno forza troppo. Il punto è il clima che si sta determinando contro chi lotta. La rivoluzione non era un pranzo di gala e d’altra parte i picchetti non si fanno a passi di danza. Il problema è la repressione e le condizioni di sfruttamento, non che pezzi del mondo del lavoro in quel settore lottano troppo o sono troppo conflittuali.
Eliana Como
Qui il video da Facebook
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