Irriverenti e libere
Lettera aperta di Eliana Como su quanto è accaduto alla Cgil di Bologna
Si può essere irriverenti e libere dentro la Cgil? Sì certo, si può. Però bisogna sapere che non è scontato esserlo. Si paga un prezzo.
Oggi il prezzo lo paga una mia compagna, di cui non serve che scrivo il nome, chi deve saperlo, lo sa.
La mia compagna lavora nell’apparato della Cgil di Bologna in via Marconi. La sua competenza è fuori discussione, la sua esperienza anche. Dal 1 febbraio, a pochi mesi dalla pensione, è «comandata» dalla segreteria a prestare servizio in una sede decentrata, per un «progetto di sindacalizzazione delle ditte artigiane».
Anche i muri della Camera del Lavoro di Bologna credo sappiano che dietro la lettera che le comanda il trasferimento c’è una operazione palesemente punitiva, seguita a un direttivo territoriale a dicembre durante il quale lei e un’altra compagna hanno subito un processo per aver firmato un appello di solidarietà di alcune lavoratrici, sostenuto da Non Una di Meno e dal coordinamento migranti di Bologna. L’ho firmato anche io quell’appello, convintamente. Ho già spiegato le ragioni, chi vuole le legga qui (link). Ma il merito importa fino a un certo punto. Questa vicenda è così miserabile che finiamo tutti per guardare il dito, non la luna.
E il dito è che se tu sei funzionaria della Cgil e firmi un appello che non piace al segretario, devi essere pronta a subire prima il processo, poi la punizione. Non importa che quello che hai fatto sia legittimo. Il segretario sa che non hai violato lo statuto della Cgil e hai legittimamente espresso una opinione. Ma sa altrettanto bene che ha il potere di fartela pagare. Può farlo e lo fa. Esercita il suo potere, con buona pace del diritto al pluralismo. Tu puoi ancora esprimere una opinione, ma lui può trasferirti con ordine di servizio e tanto di «progetto di sindacalizzazione».
A me piacerebbe che il segretario di Bologna avesse scritto una bella lettera nella quale le diceva: «cara mia, hai osato dissentire e ora io, d’ufficio, ti punisco». Bella, pulita, persino onesta. Senza «progetti di sindacalizzazione», senza ipocrisia, senza sensi di colpa.
Sensi di colpa, sì. Perché se non si ha il coraggio di esplicitare la ragione reale del trasferimento, se ci si deve nascondere dietro un dito è perché sotto sotto ci si vergogna. Ci si sente in colpa di esercitare il proprio potere e ammettere che si gestisce una organizzazione come la Cgil, alimentando meccanismi di potere e legami fiduciari, dove dissentire è possibile, certo. Ma solo a patto di essere pronti a pagare un prezzo.
Lo so bene perché quel prezzo l’ho visto pagare tante volte. Io stessa lo pago dal 2012, da quando mi cacciarono a calci dalla Fiom di Bergamo richiamandomi a Roma per «un progetto di valorizzazione dei quadri e di ringiovanimento dell’apparato».
Mi fa arrabbiare quanto accade a Bologna? Sì, da matti. Perché in tutto questo non c’è in gioco solo la garanzia del pluralismo nella mia organizzazione, ma una compagna e il rispetto che, dopo una vita passata nella Cgil, ti aspetti le si riconosca. Oltre alla luna, che ci dimentichiamo sempre di guardare, cioè il sostegno a lavoratrici che denunciano comportamenti machisti e razzisti da parte della loro azienda.
Ma sapete una cosa? Io quell’appello lo rifirmerei. E anche la mia compagna, ne sono certa. Perché le punizioni, nel nostro caso non servono come ammonimento. Anzi, ci convincono ancora di più della differenza che passa tra noi e la burocrazia.
La differenza è che noi siamo irriverenti e libere. Il segretario di Bologna e chi lo ha sostenuto in questa vicenda possono dire altrettanto?
E guardate, qualcuno potrà anche pensare di far finta di niente, perché tanto la vicenda non lo riguarda direttamente. Ma non è così, perché anche tacere significa alimentare quel sistema fiduciario e punitivo, interiorizzarlo, legittimarlo e in qualche modo accettare che domani possa accadere ad altri, per molto meno.
Allora sì, mi dispiace quanto avviene oggi, mi fa arrabbiare e lo denuncio perché né io né la mia compagna vogliamo rassegnarci. Ma non siamo pentite, neanche per un momento. Preferiamo essere irriverenti e libere!
Eliana Como
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