CD CGIL. L.Scacchi: non è [mai] tempo di cogestioni, è proprio ora di uno sciopero generale
Compagne e compagni,
nella relazione e in alcuni interventi, mi è sembrato di cogliere l’impressione che il lavoro e il sindacato stiano reggendo in questa fase. Certo con difficoltà e con problemi, [ma mi sembra di capire che la valutazione di diversi/e compagni/e sia che] abbiamo però fermato l’offensiva di Confindustria e ottenuto risultati importanti. Ecco la mia impressione è diversa. Siamo in un’emergenza epocale, siamo nel pieno di una Grande Crisi decennale iniziata nel 2008/09: quest’emergenza è diventato il terreno e l’occasione per modificare rapporti di forza tra le classi e per aumentare lo sfruttamento, per avviare come ha appena detto Michele [Azzola, segretario CGIL del Lazio] dinamiche di impoverimento diffuso che rischiano e rischieranno di diventare pesantissime esattamente con la fine della situazione di emergenza sanitaria.
Ed allora non mi convince il quadro tracciato dalla relazione e da questa discussione.
Innanzitutto, il quadro internazionale: il silenzio che abbiamo come CGIL in questi mesi sul quadro della precipitazione della competizione internazionale e della logica dei blocchi. Non è che il problema è un’Unione Europea che deve sottrarsi ad una nuova guerra fredda, ma che l’Unione Europea è protagonista, è uno dei protagonisti insieme a Stati Uniti e Cina, di un quadro internazionale di sempre maggior competizione che si sta muovendo secondo una logica di aree valutarie e di blocchi commerciali, anche con un profilo militare. A partire dal mediterraneo e dai pattugliamenti che vi stanno avvenendo esattamente per la divisione tra le varie aree di influenza, nel mare di Cipro e non solo. Anche davanti alla Libia e con le numerose basi militari, di potenze mediterranee e non, a poche decine di chilometri dall’Italia.
Come non mi convincono alcuni riferimenti al quadro americano [all’analisi delle elezioni USA e alla vittoria di Biden]. Esattamente in questo clima internazionale, che è sempre più di scontro e di conflitto, segnato da evidenti propensione nazionalistiche, il risultato delle elezioni USA ci dice che non si è spezzato il consenso di massa del trumpismo: nonostante il disastro del covid ha aumentato i voti assoluti ed ha tenuto unito il suo blocco sociale, facendolo pesare sulle elezioni a tutti i livelli [dagli Stati alle Camere federali].
Come non mi convincono le osservazioni sull’Unione Europea [e il Recovery Fund]. Non c’è oggi una revisione dell’austerità o dell’impianto ordoliberale delle sue politiche economiche. Certo, è sospeso nell’emergenza sanitaria il cappio dei protocolli e certo si è avviato un importante intervento finanziario. Però questo intervento è direzionato. Il tema su cui secondo me dovremmo porre sempre più attenzione è che il recovery non è direzionato a recuperare e ricostruire quel modello sociale europeo che Draghi nel 2012 aveva, come dire, indicato come esaurito e che le politiche neoliberiste europee di tagli radicali hanno eroso in questi anni in tutti i paesi del continente. Anzi, tutti gli interventi del Next Generetion sono diretti e centrati a sostenere una ristrutturazione produttiva ed industriale, appunto secondo l’essenza ordoliberale secondo cui gli investimenti pubblici devono essere direzionati a sostenere l’impresa, il risultato economico, le capacità di esportazione del blocco di riferimento.
[Questo impianto di classe delle politiche e della gestione capitalistica della crisi], tutto questo lo vediamo anche sul terreno dell’emergenza di questi mesi. Lo hanno sottolineato alcuni interventi. Abbiamo rivisto le centinaia di morti giornalieri, abbiamo rivisto gli ospedali collassati, abbiamo rivisto i lavoratori e le lavoratrici della sanità dover affrontare quella situazione senza strumenti. Abbiamo visto una scuola destinata a passare on line nel giro di un mese, con i banchi che arrivano in maniera surreale in queste settimane, in una dinamica di collasso del sistema dei trasporti pubblici. Con una pressione sul lavoro che è insostenibile, per cui in realtà la sicurezza dentro i posti di lavoro continua a non esser garantita. Lo vediamo anche nelle vicende di queste settimane, in aziende come l’AIA di Treviso o tante altre: quando i contagi hanno iniziato a diffondersi, anche in maniera preponderante, c’erano enormi resistenze a chiudere le aziende sia da parte dei datori di lavoro sia da parte delle autorità pubbliche. Lo abbiamo visto nelle scelte del CTS, che ha portato all’ all’80% l’affollamento sui mezzi pubblici o da 2,5 metri a 90 cm la distanza fisica dentro l’università, secondo una logica di funzionamento e non di tutela della salute.
Lo abbiamo visto nel lavoro [nei rapporti di produzione], dove certo l’offensiva padronale di Bonomi lanciata mediaticamente questa estate si è infranta. Mi viene da dire che però, più che per la nostra azione di resistenza contrattuale, si è infranta nella ripresa della pandemia, si è infranta contro il proseguo del blocco dei licenziamenti e degli ammortizzatori sociali, per la ripresa della curva epidemica. Nel CCNL si continua a mantenere la gabbia del patto di fabbrica. Ed anche dove si affermano i rinnovi, come negli alimentaristi, si inseriscono elementi che vanno esattamente contro quell’inclusività che tanto riempie la nostra attenzione o dovrebbe riempire la nostra conferenza di programma: oggi, per esempio, con il nuovo contratto gli appalti possono avere contratti diversi da quello del settore [si cancella la frase in cui si precisa “il rispetto delle norme contrattuali confederali del settore merceologico cui appartengono le aziende appaltatrici stesse”, sostituendola con “all’applicazione dei CCNL del settore merceologico delle attività appaltate, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”].
In tutto questo, c’è il problema del governo e del rapporto con il governo. In cui il primo elemento sui cui noi dovremmo avere attenzione, che dovremmo denunciare e su cui dovremmo intervenire, è il rafforzamento dell’autonomia differenziata di fatto che esiste nel paese. Una logica regionalista dove il Titolo V [della Costituzione] è diventato uno strumento per smantellare l’unità innanzitutto dei diritti e dei servizi sociali. Lo abbiamo visto nella logica allucinante delle ordinanze e delle contro ordinanze di queste settimane nelle varie regioni. Lo abbiamo visto con la fragilità evidente del sistema sanitario nazionale, che oramai non è un sistema nazionale ma è diventato regionale: dovremmo chiedere con sempre più forza non solo l’ampliamento e il rafforzamento della sanità, ma in primo luogo il ritorno ad un SSN realmente nazionale, che garantisca stessi diritti e lo stesso servizio in tutto il paese.
In secondo luogo, bisogna considerare le politiche di fondo di questo governo. Nei miei settori [Istruzione e ricerca], sul precariato, sull’autonomia scolastica [e universitaria], sull’uso di una logica di mercato nella distribuzione delle risorse, questo governo non solo non ha cambiato indirizzo rispetto i precedenti (la Gelmini o la Buonascuola), ma anzi sta proseguendo con rinnovata energia secondo una logica meritocratica.
Da questo punto di vista lo sciopero del 9 dicembre è uno sciopero giustissimo. Non è solo la reazione ad attacco ad un concetto generale di pubblico, non è solo la difesa dei contratti nazionali della pubblica amministrazione, ma come hanno sottolineato diversi interventi e la stessa Serena [Sorrentino, segretaria generale della FP] è difesa del salario sociale di tutti. Cioè è difesa dei servizi universali per tutto l’insieme del lavoro. Da questo punto di vista, non va lasciata sola la Funzione Pubblica: tutta la CGIL, la confederazione e tutte le categorie, dovrebbero porre quel tema e difendere quello sciopero, non per una generica solidarietà indiretta ma perché si difende direttamente tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici, il loro salario globale.
C’è infine, il tema enorme dei rapporti con il governo, delle relazioni sindacali. Conte lo ha detto esplicitamente e chiaramente, in pubblico: non sognatevi che ci sia una concertazione! Noi abbiamo lanciato in questi mesi, nei nostri documenti, nella nostra riflessione, nella nostra azione, un’ipotesi non solo e non tanto di semplice concertazione, ma addirittura di suo superamento con una cogestione dentro le imprese e con il governo [a partire dai progetti relativi al recovery fund]. E in questi sei mesi non abbiamo ottenuto neanche l’accesso informativo ai tavoli dove si definiscono queste partite. Il punto non è che mancano le idee, il piano progettuale o la capacità di connettere i diversi interessi. Non manca la nostra capacità di interloquire con il governo. Il punto è che il governo ci sta dicendo, sia nei fatti sia a parole: io vi ascolto, non esiste esecutivo che ha fatto così tanti tavoli come in questo periodo, ma non concerto e non cogestisco con voi, in termini di scelta comune nelle cose. Nelle parole e nei fatti: in questi mesi, nei diversi settori, nei diversi territori, nei diversi Ministeri, iniziano a tracciarsi già progetti, previsioni, prospettive di dove andranno a direzionarsi le risorse del recovery. Progetti, programmi e discussioni da cui noi siamo tenuti semplicemente fuori, come sindacato, in maniera totale.
Allora, da questo punto di vista, quello che ci manca è la forza per imporci. Non è che l’impostazione della legge di bilancio è sbagliata perché hanno capito male, è sbagliata perché ha un segno di classe, non è dalla parte del lavoro ma dalla parte dei padroni. Quindi oggi serve stare in campo, servirebbe stare nelle piazze, contro quell’impianto e contro quelle politiche. Bisognerebbe sviluppare oggi delle mobilitazioni, bisognerebbe andare in una logica di sciopero generale. Bisognava andarci sulla legge di bilancio, a partire da alcuni temi generali e trasversali [una vertenza generale in grado di riunire il lavoro, oggi diviso sempre più proprio dalla pandemia]: dalla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario alla patrimoniale [una patrimoniale vera sulle grandi ricchezze], senza dimenticarci il problema della nazionalizzazione delle aziende in crisi (dalla Whirlpool all’Ilva). Per difendere i salari, il salario sociale complessivo, i diritti ed i servizi universali (salute, trasporti, istruzione).
Luca Scacchi
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