E.Como: sull’attacco di Confindustria e sul referendum
È condivisa tra di noi la consapevolezza della portata dell’attacco che Confindustria ha formalizzato nella lettera ai suoi associati. Per me, senza mezzi termini, è una «dichiarazione di guerra». Contro di noi, prima di tutto sulla politica contrattuale. Contro il paese, perché arriva contestualmente all’annuncio di un milione di licenziamenti. E contro il governo.
Nell’introduzione è stato detto che in segreteria vi siete interrogati se quella di Confindustria sia una posizione di forza o piuttosto di debolezza. Io non so se sia una posizione di forza, ma di certo non di debolezza. Mi pare casomai una posizione feroce. Ma non la ferocia di un cane che si trova spalle al muro. Piuttosto, la ferocia di un cane che non vuole lasciare a nessun altro nemmeno un osso. Cioè nemmeno un euro dei soldi del Recovery Fund.
Credo che la ferocia di Confindustria non sia francamente una novità e fosse invece già chiara da marzo, quando Bonomi ne ha preso la guida. Tanto che, come sapete (perché l’ho detto in tutte le riunioni che abbiamo fatto online in questi mesi), ho ritenuto debole la nostra posizione da marzo (altro che forte, come ci raccontiamo nelle nostre riunioni e negli organismi). Debole sul protocollo sicurezza, sul ritardo nel lockdown, sulle deroghe al dpcm del 22 marzo… Debole non soltanto rispetto alla portata della catastrofe umanitaria che era in corso in alcune aree del paese, ma soprattutto rispetto al tiro di forza messo in campo dall’attacco di Confindustria.
La novità mi pare casomai che Confindustria oggi attacca esplicitamente il Governo. E lo fa a ridosso di elezioni regionali «incerte», diciamo così. Dichiarando un evidente progetto politico, come è stato detto nell’introduzione. In modo inedito, certo. D’altra parte, inedite sono anche le risorse in campo. E il punto è che Confindustria, che ha già incassato ad agosto, ora pretende di avere ancora. E ancora, ancora e ancora. E dico che «ha incassato» perché, vero che è stato prorogato il blocco dei licenziamenti (in modo parziale peraltro), ma in cambio le imprese hanno avuto tanti di quegli sgravi e sconti, che di fatto le nuove assunzioni gliele paghiamo noi.
Confindustria vuole le risorse del Ricovery Fund. Risorse che, ricordiamocelo, sono un prestito, che rischiamo di pagare noi in termini di controriforme a cui esso è condizionato, a partire dalle pensioni. Con il paradosso che potremmo non vedere un euro di quelle risorse, che poi finiremo per dover ripagare. Non un euro su sanità pubblica, scuola e trasporti pubblici, difesa dell’occupazione e quindi riduzione dell’orario di lavoro e dell’età pensionabile.
E se l’attacco di Confindustria è tanto feroce, altrettanto deve essere la nostra risposta. Cioè dobbiamo lavorare affinché si apra una stagione di conflitto ampia nel paese, a partire dai ccnl (bene le iniziative di categoria che ci sono e altre spero ci saranno e bene se, come detto, si aprirà un percorso generale di mobilitazione che tenga insieme tutti i settori). Ma la lotta sui ccnl non può ridursi per me alla legge sulla rappresentanza e, ancora meno, alla detassazione degli aumenti contrattuali. Primo perché gli aumenti rischiamo di non vederli proprio o, in una categoria come la mia, di averli così bassi da rendere anche la detassazione irrisoria. Secondo perché, se ci diciamo che abbiamo un tema centrale di difesa dello stato sociale, a partire dalla sanità pubblica, noi dobbiamo difendere il salario diretto tanto quanto quello indiretto: i salari devono aumentare a prescindere dalla detassazione, che sarebbe solo illusoria e drenerebbe invece risorse allo stato sociale.
Sia chiaro, io non penso che sia facile. Perché è evidente che l’attacco di Confindustria è straordinario. Ma mi pare che nessuna risposta possa essere all’altezza, se non «alziamo la voce» tanto quanto la nostra controparte. Dobbiamo contrattaccare, non basta difenderci, tanto meno serve difendere il Governo, a prescindere dal fatto, più volte qui si è richiamato, che un governo alternativo di centro-destra sarebbe comunque peggiore. Altro che difenderci! Noi dobbiamo lanciare una grande campagna di attacco a Confindustria. E rendere noi debole la posizione di Bonomi. Gli argomenti non ci mancano: a partire dalle responsabilità criminali di marzo, dall’utilizzo illegale della cassa (mentre i lavoratori aspettavano mesi e mesi per prendere metà dello stipendio con la cassa in deroga!), fino alle responsabilità dell’intero sistema capitalistico italiano, che abbraccia la bandiera dell’ultraliberismo, mentre non sta in piedi letteralmente un minuto senza continue risorse dello stato e senza continuamente piangere miseria per averne altre ancora.
E va spiegato anche che è vero quello che dice Bonomi sulla scuola, che rischia di riaprire nel caos o non riaprire proprio. Certo, ma non solo per le responsabilità di un ministero incapace che ci ha tenuto mesi a discutere di ridicoli banchi a rotelle o di un Governo che complessivamente ha sottovalutato la riapertura della scuola, che invece doveva essere da subito una priorità. Il punto è che la scuola riapre nel caos, anche perché le risorse non sono state usate per investire e assumere sul settore e sul trasporto pubblico locale. Le risorse sono state usate altrove, a partire da quelle che Confindustria ha preteso!
Per fare tutto ciò, per me non basta una serata a piazza Santi Apostoli come prima dell’estate, né, lo dico chiaramente, una giornata di mobilitazione, come quella che qui si propone il 18 settembre, cioè con iniziative di piazza di gruppo dirigente (apparato o delegati che siano), senza sciopero generale.
Sul Referendum sarò ancora più esplicita: non sono proprio d’accordo con la posizione proposta dalla segreteria e indicata qui nella introduzione. Condivido, certo, le ragioni NO, ma, proprio per questo, credo che la nostra organizzazione dovrebbe impegnarsi in prima linea per sostenerle. E non soltanto per «libertà di scelta dei singoli», come è stato detto. Quella non è proprio in discussione: di faccia ne abbiamo una e ognuno di noi la userà. Il punto è che dovremmo poter impegnarci non solo con le nostre facce, ma con la nostra organizzazione e il nostro simbolo. Perché questo è un referendum populista e si alimenta di una facilissima antipolitica e di un quasi banale sentimento anticasta. E chi se non noi deve e può andare a spiegare ai nostri lavoratori e lavoratrici, proprio nei luoghi dove più attecchisce quel populismo, che se è vero come è stato detto che già oggi il mondo del lavoro non è rappresentato in parlamento, tanto meno lo sarà se verrà ridotto il numero dei parlamentari. Chi se non noi deve e può andare a spiegare che, se si volessero davvero ridurre i costi della politica (ammesso e non concesso: perché per me la democrazia non deve essere un costo, lo dico anche qui al nostro interno, ogni volta che parliamo di piattaforme per le riunioni online), bisogna tagliare gli stipendi dei parlamentari, i loro incredibili privilegi, gli sprechi, la corruzione. Non il loro numero.
Eliana Como
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