Da che parte voglio stare!

di @ElianaComo. Nessuna “mediazione sociale” con chi ha preteso che la Val Seriana restasse aperta

A poche ore dagli Stati Generali di villa Pamphili, in una intervista rilasciata ai giornali, il segretario generale della Cgil dichiara che è il tempo di «investire nella mediazione sociale e nella contrattazione collettiva» e che non è «il momento di aprire fasi conflittuali».

Dissento, radicalmente. E non soltanto per le ragioni di fondo per cui avrei dissentito anche sei mesi fa a una simile apertura al patto sociale. Sei mesi fa, il mio dissenso sarebbe stato semplicemente politico. Oggi è un dovere morale.

Tra fine febbraio e marzo in Lombardia e nelle zone limitrofe i lavoratori e le lavoratrici hanno avuto PAURA di andare al lavoro. In quelle settimane cruciali, su cui in queste ore è in corso anche una inchiesta della magistratura, le imprese hanno fatto esplicite e a volte feroci pressioni affinché la produzione non si fermasse.

È con queste controparti che oggi sarebbe il tempo della “mediazione sociale”!?

Le stesse con cui, il 27 febbraio, proprio nei giorni in cui NON si decideva la zona rossa in Val Seriana, la nostra organizzazione firmava, insieme a Cisl e Uil, un comunicato in cui si auspicava «una rapida normalizzazione consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate». Il 27 febbraio le uniche attività bloccate erano le imprese della zona rossa di Codogno e Vo. Il messaggio, da parte delle imprese, era chiaro: non si dovevano bloccare altre zone, nonostante fossero già esplosi focolai altrettanto pericolosi.

Quel giorno ero già rientrata a Bergamo e dal terrazzo iniziavo a sentire, ora dopo ora, aumentare il suono delle sirene delle ambulanze. Quando ho letto quel comunicato, con la nostra firma in calce, ho pensato che a Roma i miei vertici non avevano capito niente di cosa stava per accadere qui.

Sia chiaro: per me le responsabilità nell’aver rimandato e poi mai deciso la zona rossa in quelle ore cruciali sono e restano degli industriali e della politica, a tutti i livelli: lo stato, la protezione civile, la regione, persino i sindaci e il prefetto, come ha spiegato bene l’avvocato Roberto Trussardi (vedi qui). Tutti potevano e dovevano intervenire e non lo hanno fatto, perché Confindustria non voleva. Peraltro mi interessa soltanto fino a un certo punto cosa deciderà la magistratura. Se anche fossero tutti assolti, se prevalesse l’incredibile scaricabarile di queste ore, per me è prima di tutto la storia che deve inchiodare i colpevoli alle loro responsabilità.

Ma chi se non il sindacato dovrebbe essere in prima linea nel chiedere conto delle responsabilità di chi ha sacrificato le nostre vite sull’altare del profitto! Credo che i nostri vertici lo debbano anche a tutti i compagni e le compagne della Cgil che in questi mesi sono stati in campo per garantire, come si poteva, nonostante tutto, tutela e servizi ai lavoratori e alle lavoratrici in una situazione inedita e complicatissima, in cui noi stessi spesso siamo stati in pericolo e tanti si sono ammalati.

La Val Seriana e poi Bergamo non dovevano diventare zona rossa perché i vari Persico, Radici e poi Bombassei, Rocca e via dicendo non potevano permettersi di spaventare i loro partner internazionali e perdere clienti e profitti. È già stato un errore da parte della Cgil nazionale non capirlo quel 27 febbraio. E ora, quattro mesi dopo, bisogna «investire sulla mediazione sociale»! Proprio oggi, che finalmente stanno uscendo fuori le responsabilità. Oggi che finalmente non è più soltanto qualcuno di noi a denunciare sui social cosa accadeva in quelle ore.

Per questo, dissento radicalmente da quella dichiarazione sulla «mediazione sociale», perché con essa il segretario generale della Cgil conferma anche oggi, come quel 27 febbraio, da che parte vuole stare. Non quella del conflitto, ma quella del dialogo, con tutti quelli che oggi si rimpallano vergognosamente la responsabilità di questa strage. Persino contrattaccando, come ha più volte dimostrato il neo presidente di Confindustria.

Io no, non starò dalla stessa parte di chi ha tali responsabilità. Davvero, non soltanto perché la concertazione non mi è mai piaciuta (peraltro mi chiedo, se non è il tempo di conflitti sociali ora, quando mai, nella nostra storia recente lo sia stato). Non posso, perché nella mia città sono morte 6000 persone in tre mesi. Pretendo verità e giustizia e non posso sedermi a un tavolo e invocare il dialogo con chi, in quei giorni, non ha avuto scrupolo di anteporre i propri interessi alle nostre vite, contro una raccomandazione dello stesso Istituto Superiore di Sanità.

Oggi più che mai, voglio stare dall’altra parte, in piazza. E finché avrò voce la userò per far sì che chi è responsabile paghi.

Di fronte alla storia, prima ancora che di fronte a un giudice.

Eliana Como – portavoce nazionale di #RiconquistiamoTutto 

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