Diario di una commessa ai tempi del Covid19
Mi chiamo Isabella e sono una commessa: lavoro da anni part time in una grande catena di abbigliamento sportivo.
La mia azienda, come tutta la grande distribuzione non alimentare, ha chiuso i negozi per il lockdown dopo il decreto dei primi di marzo, anzi, a dirla tutta, aveva scelto di anticipare di un paio di giorni la chiusura, sia per l’incertezza di quei giorni e la paura palpabile di tutti, sia per senso di responsabilità. Avevamo apprezzato quella scelta, bilanciata però subito dopo dalla decisione di limitare ma mantenere la vendita online, che di fatto non è mai stata interrotta.
Centinaia di miei colleghi in Lombardia e Piemonte, quindi, hanno continuato a lavorare nei depositi della logistica come se niente fosse anche durante il picco dei contagi di aprile.
Nemmeno nella restrizione delle attività produttive che potevano essere autorizzata dalle prefetture tramite deroga, ebbene nemmeno in quell’occasione la vendita di attrezzatura sportiva è stata esclusa dalle attività essenziali: le aziende sono decisamente più avanti di quello che pensiamo e per essere precisi la mia si era registrata presso le Camere di Commercio anche con un codice Ateco che non è mai stato sospeso. E così i tappetini per lo sport casalingo, i pesi, le cyclette e tutti gli altri attrezzini sono diventati merce essenziale durante tutto il lockdown per accompagnare la quarantena degli italiani con lo sport a casa, mentre i miei colleghi della logistica lavoravano in condizioni difficili, già allora cercando di capire cosa si dovesse fare per proteggersi e barcamenandosi tra ritmi di lavoro assurdi e assenteismo per malattia e paura.
Noi dipendenti dei negozi invece abbiamo vissuto la sospensione e la cassa integrazione in deroga con tutte le incertezze di quello strumento che ancora oggi non abbiamo ricevuto dall’Inps. Grazie alla trattativa sindacale siamo riusciti a ottenere l’anticipo della cigd tramite il pagamento anticipato della 14ª mensilità da parte dell’azienda: non tutti i datori di lavoro hanno previsto questo trattamento, ma la nostra è un’azienda multinazionale che negli anni della crisi del 2008 in Italia ha sempre comunque aumentato le sue cifre d’affari e le nuove aperture, ecco perché sarebbe stato strano che mancasse della liquidità per anticipare il trattamento di cassa integrazione, come invece la cassa in deroga potrebbe provvedere. Sin da subito ho pensato che quello non fosse lo strumento giusto per noi, azienda del commercio sopra ai 50 dipendenti, ma sembra che sia stata l’unica a osare dirlo e ormai ci tocca aspettare il pagamento diretto dell’Inps. Chissà quando…
Tutto sembrava ‘funzionare’ – mi permetto questa parola nonostante il contesto, la sospensione e la cassa integrazione – fino al 14 aprile: vi ricordate le prime riaperture?
A quei tempi la mia azienda aveva deciso in gran fretta e unilateralmente di provare a rimettersi in gioco: lo stock fermo nei negozi chiuso e rimasto invenduto da più di un mese era una cosa inaccettabile per il dinamismo del commercio, così senza neanche dirlo alle parti sindacali nei negozi, né tantomeno a livello nazionale si decise di utilizzare gli articoli nei negozi per la vendita online e si mise in moto in gran segreto il ripescaggio dalla cassa integrazione, ma solo dei profili dei responsabili, non di tutti, quindi solo pochi ‘eletti’ hanno potuto ricominciare a lavorare un mese prima degli altri.
Ma le sorprese non erano finite: infatti il 28 aprile addirittura l’azienda decise che non si poteva più stare fermi e che bisognava riconquistare visibilità ed essere sul mercato prima degli altri, e il 29 aprile arrivò la decisione: il 4 maggio si riapre! Solo ed esclusivamente per i codici concessi allora in tutte le Regioni, anche in quelle più restrittive come la mia, il Piemonte, e quindi soltanto abbigliamento per bimbi, alimentari, ricambi per biciclette, prodotti per la cura della persona, tutori e articoli paramedici. E poi le biciclette, grazie all’aggiornamento dei codici Ateco in vista del bonus ambientale.
Dal 4 maggio abbiamo concordato che potessero rientrare dalla cassa integrazione soltanto i volontari e io non mi sono sentita di tornare al lavoro se non la settimana successiva: un po’ perché non ero del tutto rassicurata dalle condizioni di sicurezza in negozio, vista la riapertura preparata in così poco tempo senza consultazione nemmeno dei i rappresentanti dei lavoratori, e un po’ perché non ero sicura di cosa sarebbe successo.
Oggi, mentre vi scrivo, è passata una settimana dalla riapertura di tutte le attività produttive ed economiche (tranne cinema e teatri chissà perché poi…) e posso solo dirvi che quasi non riconosco più il lavoro che facevo prima del lockdown: la mascherina per tutto il giorno dà fastidio, riscalda e si fatica a respirare al chiuso, soprattutto per chi fa un lavoro in movimento (per esempio, caricamento scaffali, scarico merci, preparazione dei pacchi dell’online, che continua ad essere uno dei maggiori affari) ma anche per chi sta in cassa o all’accoglienza.
Gli orari sono cambiati: abbiamo solo una settimana di orari pianificati, siamo sempre tutti part time flessibili ma non sappiamo cosa ci succederà fra due settimane; abbiamo turni anche da otto ore, anche se non siamo dei part time verticali; non si riescono a programmare ferie o permessi, perché queste due settimane saranno il test di come andranno le cifre d’affari e anche i genitori vengono obbligati a usare solo i congedi Covid al 50% e non le loro ferie o permessi residui… Passiamo giornate intere e di nuovo domeniche intere in cassa o alle casse automatiche e raramente siamo nel reparto a cui eravamo assegnati prima della crisi.
Insomma, le condizioni sono peggiorate: siamo più incerti, più flessibili, abbiamo mansioni ancora più promiscue e passiamo tutti da una mansione all’altra. Nel reparto ciclismo poi è ancora peggio, perché tutti stanno spendendo decine di migliaia di euro ogni giorno in biciclette, sperando nel bonus ambiente e i miei colleghi che sanno minimamente montare una bicicletta sono stati arruolati tutti in quel reparto con ritmi frenetici!
Le code fuori dal negozio, alle casse, alle casse automatiche, nel reparto ciclismo sono disordinate, assembrate e vedono intere famiglie insieme, vicine. Sembra impossibile riuscire a far rispettare le distanze tra i clienti e tra i clienti e noi commessi.
Lo stato d’animo che proviamo ogni giorno è di frustrazione, forse già di rassegnazione, e poi di incomprensione completa, perché se si può stare in 220 persone in un esercizio commerciale (questo il contingentamento massimo del mio posto di lavoro in base ai metri quadrati) ma concentrate in poche zone del negozio, allora perché non si può stare all’aperto nei parchi, a fare la movida, oppure nei cinema e nei teatri o ai concerti?
Siamo tutti disorientati e non capiamo più se stare con i guanti o se non servono, se sono obbligatori o se li prevede il protocollo o le linee guida o il DPCM! Non capiamo più se è un problema la coda e la mancanza di distanziamento, oppure se basta la mascherina quando non c’è la distanza. Regna la confusione e la perdita di senso.
L’unica cosa che abbiamo chiara e lampante è che abbiamo perso molto di quello che avevamo prima: chiarezza, turni, organizzazione comunicazione, diritti. Tutto questo l’abbiamo già perso.
Chi credeva nel cambiamento?
Isabella Liguori, RSA Filcams Torino
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