Decreto maggio. Soldi alle imprese, briciole a chi lavora

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Il decreto di aprile, che per i ritardi diventato decreto di maggio, è ormai definitivo.

Il decreto definisce la quantità di risorse stanziate per l’emergenza e la loro distribuzione. Una sorta di «legge di stabilità per Covid». Aldilà dei dettagli di oltre 500 pagine, è la sproporzione di fondo a saltare agli occhi.

Le risorse per le imprese per le imprese sono ingenti, tra sgravi vari (sulle bollette, sugli affitti, sulle spese per la messa in sicurezza) e soprattutto il taglio dell’IRAP, l’imposta regionale sulle attività produttive (solo questo sono 4 miliardi per 2 milioni di imprese, risorse che, vergognosamente, verranno così sottratte alla sanità pubblica, visto che l’IRAP finanzia in larghissima parte proprio il servizio sanitario).

Per i lavoratori e le lavoratrici, invece, poco più che la proroga della cassa integrazione per Covid e in deroga e altri 15 giorni per i congedi.

Cassa integrazione che copre in media poco più che il 50% del salario (peraltro i lavoratori dipendenti pagano regolarmente i contributi per la cassa integrazione). Paradossalmente, il bonus per i lavoratori autonomi a 1000 euro è superiore alla normale copertura della cassa (e non andrà solo ai precari con partita iva, ma a, come è già accaduto, anche a notai e liberi professionisti).

Con il fatto grave che, ad oggi, il pagamento della prima tornata di cassa in deroga (o quella ordinaria non anticipata dall’azienda) è letteralmente in alto mare, con ritardi clamorosi nelle regioni, che stanno piegando lavoratori e famiglie. Tanto più che, come era del tutto prevedibile, gli accordi con ABI per l’anticipo attraverso le banche si sono rivelati inefficaci, spesso contribuendo a esasperare i lavoratori, purtroppo anche a discapito di chi lavora nelle filiali delle banche che, loro malgrado, non hanno potuto dare risposte.

Il decretone di maggio fotografa la situazione vissuta fin qui: il governo stanzia risorse e scrive provvedimenti inseguendo le pressioni di Confindustria e delle altre associazioni padronali, accompagnate da una retorica quasi mainstream fatta di imprenditori, artigiani e professionisti che piangono rovina sull’orlo del baratro. Retorica a cui non corrisponde invece il racconto reale di tutti quei lavoratori e lavoratrici che a vario titolo hanno pagato il prezzo più duro di questa emergenza: chi è stato costretto a andare al lavoro anche durante il lockdown, nei settori essenziali ma non soltanto, chi ha già perso il lavoro perché era precario, chi ha avuto soltanto la cassa integrazione, chi non ha ancora avuto un centesimo dall’INPS, chi era saltuario o in nero e non ha avuto nemmeno la cassa.

Retorica che evidentemente travolge anche quella degli «eroi» degli ospedali, visto che il premio una tantum di 1000 euro, che, nella discussione di queste settimane sembrava essere loro destinato, è stato cancellato… per mancanza di coperture.

C’è la proroga del blocco dei licenziamenti per altri tre mesi, bene. Ma non può essere l’unica vera contropartita che spetta al mondo del lavoro. Tanto più che non basta a risolvere il tema occupazionale, che ci cascherà comunque addosso allo scadere del blocco  (oltre a lasciare irrisolto il tema dei mancati rinnovi dei precari).

E i fondi stanziati per il reddito di emergenza sono inadeguati.

E nonostante i titoli dei giornali di qualche giorno fa, prontamente smentiti in qualche ora, non c’è traccia di riduzione dell’orario di lavoro, misura che invece sarebbe necessaria oltre che urgente, per rispondere agli effetti della crisi, ma anche per rendere meno gravosa la condizione di lavoro, visto l’obbligo di DPI a causa del Covid.

C’è una incapacità di fondo del decreto, che è quella di non affrontare complessivamente la ripartenza e la ripresa. O meglio di farlo in modo iniquo, straziando soldi a pioggia per le imprese ma senza i fondi adeguati sulla sanità, senza uno straccio di progetto sugli screening di massa, senza un potenziamento adeguato dei servizi ispettivi per il controllo della sicurezza nei posti di lavoro, senza un piano di investimento adeguato né sui trasporti pubblici né sulla scuola.

Scuola che resta la grande incognita di questa cosiddetta ripartenza, dove riaprono fabbriche e centri commerciali, tra un po’ ristoranti e turismo ma in cui si rimanda la ripartenza delle scuole a data da destinarsi, prevedendo oggi fondi del tutto insufficienti: 1,5 miliardi, ma in due anni (850 milioni per il 2020), di cui 1 mld per il Fondo per la gestione del rientro a scuola a settembre; 331 milioni per device, connettività, sicurezza, spazi in vista del rientro; 39 milioni l’esame di Maturità in presenza; 80 milioni per la fascia 0-6. Misure del tutto inadeguate se solo qualche settimana fa, a metà aprile, si parlava di 3 miliardi (il doppio) per riaprire le scuole a settembre. E da avere in 4 mesi, non entro il 2021 come nell’attuale proposta.

Anche sulla regolarizzazione dei migranti, la risposta è purtroppo a metà. Via libera alla messa in regola dei migranti, ma giusto il tempo di essere sfruttati per la raccolta agricola. Una regolarizzazione a termine, che non affronta le condizioni di vita né tantomeno la questione sanitaria nei ghetti e di fatto utilizza un diritto sacrosanto e di civiltà a uso e consumo dello sfruttamento, ora che è risultato evidente che altrimenti manca manodopera nei campi.

Di fronte a questo squilibrio, la risposta del sindacato è stata, di nuovo, quella di inseguire la linea imposta ferocemente dalla classe imprenditoriale e finanziaria del paese.

Le risorse per i lavoratori e le lavoratrici arriveranno quando si rivendicherà la patrimoniale, la riduzione dell’orario di lavoro, il reddito e l’occupazione per tutti, gli investimenti nel welfare a partire da sanità, scuola trasporti. Pensare di ottenere anche un decimo di questi misure a un tavolo con questo governo e soprattutto con queste controparti è semplicemente impossibile.

Così, come con questo decreto, il mondo del lavoro è condannato a raccogliere le briciole cadute dal piatto.

Per questo, invece di inseguire la linea dei tavoli con il governo, è necessario, oggi più che mai, chiamare alla mobilitazione ed allo sciopero generale, per la difesa di sicurezza, salari e occupazione. Non basta dire che non pagheremo noi la crisi, come fu nel 2008. Bisogna mobilitarsi da subito perché così la stiamo già pagando noi.

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