Ponte Morandi. Simbolo di rinascita: ma quale?
Il 28 aprile, in una città deserta, già provata da una profonda crisi preesistente, ulteriormente aggravata dal crollo del ponte e dall’emergenza sanitaria, in una città con un tasso di disoccupazione tra i più alti tra le regioni del Nord e Centro Italia, si è svolta l’ennesima cerimonia di inaugurazione.
Il presidente del Consiglio Conte, la ministra de Micheli, presidente della Regione e Commissario/Sindaco, circondati da un assembramento gaudente, hanno celebrato l’innalzamento dell’ultimo impalcato del ponte crollato nell’agosto del 2018, portandosi con sé nel vuoto 43 vite innocenti.
Ma la passerella della politica è proseguita anche in occasione del 1°Maggio, che ha visto la presenza nel cantiere della presidente del Senato Casellati.
Accompagnata dalle autorità cittadine e regionali, la presidente ha voluto sottolineare il proprio ringraziamento al sindaco Bucci, al presidente della Regione Toti e infine ai lavoratori per l’impegnoprofuso nelle ricostruzione di un’opera così strategica non solo per la città, ma per l’intero Paese, evidenziandone il valore simbolico con queste parole:
“Il ponte è il simbolo della rinascita dell’Italia che ce la fa senza vincoli e burocrazia.”
Si presenta così come una “Rinascita” la non eludibile ricostruzione di un ponte crollato per responsabilità politiche e del profitto, frutto e conseguenza delle politiche di privatizzazione delle infrastrutture pubbliche fondamentali per il funzionamento del sistema Paese.
Canali di comunicazione e di trasporto realizzati con denaro pubblico e affidati a gruppi privati come Benetton, Gavio ed altri, che hanno subordinato sicurezza, manutenzione e vita umana alle leggi del profitto, impiegando ogni mezzo lecito e illecito per speculare sui materiali, falsificare rapporti, eludere le manutenzioni e trasformare lavori ordinari in manutenzione straordinaria per non accollarsi le spese, realizzando enormi profitti grazie a tariffe di pedaggio in costante aumento.
A questo riguardo e a riprova di quanto sopra accennato, basti ricordare che negli stessi giorni di queste “celebrazioni”, suscitando meno clamore mediatico, sui giornali sia comparsa la notizia che Atlantia, società in capo al Gruppo Benetton, gestore della tratta autostradale che comprende il Ponte Morandi, a Roma offriva 2,9 miliardi di euro per chiudere ogni contenzioso con il Governo rispetto alle proprie responsabilità gestionali, evitando così che prendesse corpo ogni ipotesi di revoca delle concessioni.
Tuttavia la volontà di rappresentare l’esecuzione dei lavori di ricostruzione del Ponte Morandi come “Modello Genova” da estendere a livello nazionale assume ben altro valore rispetto all’uso di propaganda elettorale, in senso stretto e immediato.
Senza citare direttamente cosa la precettazione commissariale comporta ed evitando prudentemente di dire in cosa essa consiste in tema di “deroghe al contesto legislativo” che vincolano l’affidamento, l’esecuzione e la direzione dei lavori, invece si preferisce mettere in risalto il superamento dei cosiddetti “vincoli burocratici”, senza peraltro citarli.
Ciò ben sapendo che la gestione commissariale interviene in modo “sospensivo” anche nell’ambito della sicurezza e delle norme che regolano l’organizzazione del lavoro contenute nei contratti nazionali di lavoro.
Per queste ragioni, come già successo in altre tristemente note vicende (vedi Taranto, ex ILVA), i Commissari chiedono l’immunità civile e penale!
Ma se è questo il “Modello Genova” che per effetto di una situazione di effettiva urgenza, di disagio sociale e di pesanti ricadute economiche, può trovare facile credito e assurgere a “modello di rinascita e sviluppo”, come vorrebbe un intero ceto politico, per occultare le proprie responsabilità e i propri interessi di bottega … beh, allora proprio non siamo d’accordo!
Dal nostro punto di vista, questo non può essere considerato “il Ponte della Rinascita!”, ma piuttosto “l‘emblema di un fallimento!”
Se ancora ci fosse bisogno di dimostrarlo, questo modello incarna il fallimento delle politiche di privatizzazione, di svendita del patrimonio pubblico e dei beni fondamentali, che ha coinvolto negli anni passati gli asset strategici produttivi del Paese, le infrastrutture, i servizi, il patrimonio naturale dei territori, distruggendo l’ambiente, gli insediamenti abitativi e in ultimo la salute stessa delle comunità, sia in ambito lavorativo, sia in tutti gli altri contesti sociali, come l’esplosione epidemica dovuta al covid-19 testimonia.
Emblema di fallimento e tragica insostenibilità sociale del modello economico del capitalismo, fondato sulle diseguaglianze e lediscriminazioni, sul privilegio di pochi a discapito dei molti, che favorisce i profitti e la libertà d’impresa, nella devastazione di interi territori, creando inquinamento, condizioni di lavoro gravose,disoccupazione e miseria.
Questo è lo scenario che si vorrebbe nascondere con l’evocazionesimbolica del “Ponte della Rinascita”, facendo leva psicologica sul legittimo e salutare sentimento e bisogno di superare l’attuale difficile momento che l’intero corpo sociale subisce per l’effetto combinato di pandemia e crisi economica recessiva.
Nulla di quanto è successo è normale, etico o giusto, come non è normale che questo ceto politico, totalmente subalterno al padronato e alle sue organizzazioni, sia lasciato libero di continuare su questa linea fallimentare che neanche le macerie di un ponte, le ferite di una città intera e le richieste provenienti dal mondo del lavoro sono riuscite a cambiare!
E ancora, proprio non siamo d’accordo
sulle prospettive definite nel “loro progetto di rinascita” per il territorio cittadino coinvolto dal crollo del Morandi e per l’interavallata del Polcevera, sulla quale andrebbero a impattare altre “grandi opere”, quali la Gronda, già in predicato di affidamento alle società del Gruppo Benetton, responsabili del disastro del ponte, … ecc., ecc.
Ecco che la “loro Rinascita” si concretizza nella trasformazione della Valpolcevera nella funzione di “retro-porto” di Genova, con siti ad alta tecnologia e automazione e infrastrutture in grado di spostare velocemente le merci. Già da tempo Confindustria, Spediporto,Logistica sollecitano investimenti e vantaggi per favorire l’insediamento di nuove aziende, come se attualmente non esistessero insediamenti produttivi da rilanciare per sostenere attivamente il tessuto economico e sociale del territorio, attraverso politiche di mantenimento dei livelli occupazionali e riconversione produttiva!
Per queste ragioni sommariamente accennate riteniamo profondamente sbagliata la scelta delle direzioni sindacali di voler, inqualche modo, condividere questo percorso proposto dalle organizzazioni padronali attraverso la mediazione della politica.
Una scelta che di fatto lega il “diritto occupazionale” dei lavoratori alla realizzazione di “Grandi opere”. Opere che per di più, nel corso di realizzazione, possano essere svincolate da regole legislative, controlli normativi e accordi sindacali!
Il nostro sindacato, la Cgil, non può e non deve adeguarsi al ricatto padronale per uno spirito “falsamente unitario” con Cisl e Uil, nella “pia illusione” di poter gestire con la contrattazione questi processi.
Non sono certo le Grandi opere che potranno garantire lavoro regolare, occupazione e sviluppo economico e sociale del territorio nel rispetto della salute e dell’ambiente!
Occorre cambiare strada!
Non servono investimenti in Grandi opere, senza prima risanare e risolvere le numerose e complesse criticità esistenti sul territorio.
Criticità che sono conseguenza proprio di quel modello di ricostruzione che, nell’interesse economico e finanziario padronale, oggi viene riproposto come unica condizione per favorire un rilancio del territorio dal punto di vista ambientale, economico e sociale.
Ma questo uso vergognoso delle catastrofi, sia quelle “naturali” come i terremoti verificatisi in altre regioni, o quelle “prevedibili”, come il crollo del Ponte di Genova, che sono dovute direttamente o indirettamente al modello economico del “libero mercato delle merci e degli uomini”, non sono in nessun modo accettabili!
In questa prospettiva di “ricostruzione” avanzata dal Governo per bocca delle sue autorità più rappresentative, stimolata a livello regionale e comunale da giunte di destra e fortemente voluta dalle organizzazioni padronali, non vi è nulla che sia realmente favorevole agli interessi dei lavoratori e della collettività!
Ciò che ancora una volta viene proposto e indicato come “modello di rinascita” risulta essere la cifra di una “casta politica” funzionale solo a garantire a sé stessa la propria sopravvivenza, dedicandosi integralmente a un unico compito: fare in modo che il flusso di denaro pubblico sia costantemente drenato a favore “dell’impresa”. E magari è ancor meglio e più facile, se questo avviene senza alcun controllo sociale!
La “ricostruzione” che vogliamo è un’altra!
Passa attraverso:
a) un piano di messa in sicurezza del territorio e di prevenzione in grado di fronteggiare l’impatto dei cambiamenti climatici che si verificano con sempre maggior frequenza;
b) un piano capillare di messa in sicurezza delle infrastrutture, degli edifici pubblici, delle scuole, con programmi di manutenzione periodica e costante;
c) una revisione della viabilità, concepita in funzione di una mobilità di persone e merci eco-sostenibile, potenziando e integrando il trasporto pubblico e riducendo il traffico su gomma;
d) un piano sanitario che preveda la realizzazione un sistema di prevenzione e di cura della popolazione, basato su studi epidemiologici in grado di valutare l’impatto delle attività produttive e delle fonti inquinanti sulla salute delle persone residenti.
e) la realizzazione di una rete pubblica di medicina di prossimità e di strutture sanitarie in una logica di equa distribuzione territoriale, centrata sui bisogni reali e non su logiche aziendali o di profitto privato.
Il nostro sindacato, la Cgil, non può e non deve, per uno spirito “falsamente unitario” con Cisl e Uil, adeguarsi al ricatto padronale che strumentalmente contrappone il lavoro alla salute e alla difesa del territorio!
Allo stesso modo la Direzione confederale della Cgil non può ancorauna volta accontentarsi di tavoli di confronto con le controparti, rinunciando alla mobilitazione necessaria, nella “pia illusione” di poter gestire con una “adeguata contrattazione” i cambiamenti dei processi produttivi dentro le fabbriche e le ricadute sociali che essi comportano e comporteranno a seguito della pandemia, sottoscrivendo accordi come quello firmato in relazione alla cosiddetta “fase due” di riapertura delle fabbriche e delle aziende.
Così facendo le Segreterie sindacali si rendono indirettamente corresponsabili di far correre ai lavoratori il rischio di incorrere in una recrudescenza del contagio pandemico, diventando loro stessi agenti di contaminazione e di diffusione virale, quando ancora la stessa curva epidemica non decresce in modo stabile!
Anche le direzioni sindacali non devono dimenticare che la nostra vita vale di più dei profitti.
Il diritto alla salute non è contrattabile!
Genova, maggio 2020
Coordinamento confederale dell’Area “Riconquistiamo tutto!” – Opposizione CGIL / Genova e Liguria
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