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#RiconquistiamoTutto in SLC - spettacolo dal vivo

La fase 2 che vorremmo. La resistenza della cultura

Per una società che metta al centro chi lavora e non consideri la produzione di bulloni più importante della «produzione» di bellezza

Qui in PDF.

Fin dall’inizio di questa pandemia, come militanti dell’area di minoranza Slc Cgil abbiamo voluto affermare con forza che noi lavoratrici e lavoratori dello spettacolo dal vivo non siamo fuori dalla realtà. Noi delle fondazioni liriche veniamo spesso dipinti come privilegiati, o si pensa agli attori come se tutti avessero la carriera (e i guadagni) di Pierfrancesco Favino.

Stefano Massini ha scritto addirittura un monologo televisivo per dire che non siamo inutili, indovinando il sentimento che ci attraversa, e per respingere un immaginario collettivo che ci vede più come guitti che come professionisti di un comparto che produce, oltre che intrattenimento, cultura e persino ricchezza economica.

Già, la questione economica: sempre richiamata con numeri e percentuali, ora per quantificare il valore di un comparto, ora per falcidiare le masse stabili dei teatri. Ma si parla di un valore pari al 17% del PIL per l’intero settore produttivo culturale e creativo, cui si aggiunge il 13% generato dal turismo: in sostanza il Mibact rappresenterebbe una buona fetta di questo 30% del PIL, eppure i professionisti che contribuiscono a questa percentuale sono nella maggior parte invisibili, precari, bistrattati.

Se la guerra tra poveri era già in corso ora è al parossismo, con l’attesa di una fase 2 che lascia ai lavoratori la scelta fra la paura di ammalarsi e la paura della miseria. Ma la paura non è solo quella del presente, non è solo l’affanno sul sito dell’Inps per avere 600 euro o la consapevolezza di pagare i disavanzi di bilancio dei teatri con gli ammortizzatori sociali (che peraltro pagano solo i lavoratori e forse sarebbe meglio destinare agli altri settori). La paura riguarda soprattutto, nel futuro a medio e lungo termine, la tenuta di un comparto che era già in pesantissima crisi prima del Covid-19.

Gli ultimi anni sono stati segnati, nel mondo dello spettacolo dal vivo, dalla crescente proposta di realizzare anche spettacoli in streaming, per allargare l’offerta culturale ad un pubblico più vasto. Abbiamo letto proposte di streaming nei piani industriali, nelle mozioni comunali, nelle interviste di tanti dirigenti teatrali. Persino il
Ministro Franceschini ha ipotizzato un Netflix della Cultura (mentre qualcuno gli ha ricordato che un canale a pagamento esiste già, si chiama RAI e lo paghiamo con il canone). Noi lavoratori dello spettacolo abbiamo sempre saputo che lo streaming può essere un servizio in più per il pubblico, ma non sostitutivo della performance dal vivo; né lo potrà mai essere, salvo decretare veramente la morte dei teatri, chiuderli tutti e farne delle sale gioco o dei parcheggi. Ma se lo streaming era, prima dell’emergenza Covid-19, il mantra dei dirigenti e dei politici, ora che a chiederlo sono i lavoratori si incontrano tutte le difficoltà possibili nel realizzarlo.
E mentre nella stanza dei bottoni si organizzano task force, webinar e briefing sul patrimonio culturale, gli artisti – come troppo spesso succede – continuano a lavorare gratis, con le loro performances pubblicate sui
social media. La cultura gratis (non pubblica) on demand arriva su indicazioni dell’instancabile Franceschini, che con il Dantedì invita a leggere il Sommo Poeta e a condividerlo sui social. Il risultato è la più grande Corrida Facebook che si possa immaginare, in cui l’incoscienza collettiva recepisce e moltiplica il messaggio che l’intrattenimento e la cultura possano essere fatti da chiunque.

Di recente si è visto circolare un video, in verità molto emozionante per la sua umanità, di un gruppo di medici che cantavano in ospedale alla fine del turno. Ci è venuto però da immaginare, per simmetria, un video di artisti del coro che, nelle proprie abitazioni, realizzano un intervento chirurgico non troppo complicato, una semplice appendicectomia al figlio, una vena safena alla moglie, cose così. Con questo non si vuole dire che i medici non debbano cantare, anzi: la musica ha un valore talmente universale e una forza tanto dirompente che proprio in un momento di enorme fatica, stress e dolore diventa necessaria per stare meglio, esercitando una vera funzione terapeutica per chi la fa, oltre che per chi la ascolta.

Ma è proprio in virtù di questa capacità della cultura, dello spettacolo, della musica di occupare uno spazio tanto importante nella vita di ognuno di noi, che un Ministro della Cultura non può permettersi di livellare verso il basso l’offerta culturale, mettendo sullo stesso piano il prodotto amatoriale e quello professionale e riducendo la cultura a puro intrattenimento a colpi di hashtag.
Al di là dello streaming, che comunque deve essere prodotto e nel migliore dei modi, come ha scritto molto bene Andrea Porcheddu sul Corriere della Sera “il problema non è tanto salvare il teatro in tv, quanto salvare il teatro in teatro”.

Non è un mistero che i teatri siano stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a ripartire. Ma la pandemia non ha creato la crisi del settore dello Spettacolo dal Vivo: ha semplicemente scoperchiato il vaso di Pandora, e da questo momento le organizzazioni sindacali, che si sono prontamente adoperate per tutelare molti dei nostri colleghi più vulnerabili, devono considerare a rischio l’intero sistema, senza indugiare in una graduatoria deleteria tra “chi sta peggio e chi sta meglio”, affinché chi ha conquistato delle tutele continui a conservarle e queste vengano estese a chi ancora non le ha.

Ma c’è un’ulteriore riflessione da cui non possiamo esimerci. I lavoratori dello spettacolo non producono beni tangibili, ma svolgono un servizio in cui essi stessi costituiscono il “prodotto”, risultante da una serie di competenze e abilità, acquisite in molti anni di studio e di formazione, che richiedono un continuo esercizio che dura tutta la vita. Si pensi ad un ballerino, le cui capacità non prescindono da un allenamento quotidiano per tutto l’arco della sua carriera lavorativa. Possiamo immaginare quale possa essere la prestazione, e anche la forma fisica, di un ballerino professionista che stia inattivo per mesi e mesi? La stessa cosa vale per i musicisti ed i cantanti. Il capitale umano costituito dai lavoratori dello spettacolo, che è parte integrante del nostro patrimonio culturale, non ha bisogno di assistenzialismo: ha bisogno di essere tutelato e valorizzato per non diventare l’ennesimo spreco nazionale firmato da un Ministero che, mentre favorisce interessi privati (e ricordiamo quel 30% del PIL!), degrada secoli di storia e ignora la Costituzione.
Noi lavoratori dello spettacolo dobbiamo essere messi nelle condizioni di riprendere al più presto le nostre attività, con nuove modalità nella fase 2 (smart working, streaming…), ma in funzione del recupero di quella dimensione unica che è il teatro, dell’interazione tra esecutori e pubblico, dell’aggregazione sociale condivisa e partecipata.

Mai come oggi serve una visione che lanci una sfida per la ricostruzione del Patrimonio Culturale, prescindendo da valutazioni ideologiche o di partito. Ci ispiriamo a quella di Tomaso Montanari, che sentiamo più affine alla nostra area e alla Costituzione, e ne sintetizziamo i punti salienti: reinternalizzare i servizi, dalle biglietterie alla vigilanza, dalla didattica alle pulizie; ridistribuire conoscenza attraverso la realizzazione professionale di contenuti on line e televisivi dei teatri lirici e di prosa italiani; incentivare la fruzione degli spettacoli con nuove strategie tariffarie studiate per tutta la popolazione; essere comunitari per essere globali: il crollo del turismo internazionale deve aprirci gli occhi: le nostre città d’arte ormai deserte ci ricordano che siamo diventati gestori di un patrimonio che non frequentiamo e non conosciamo più.

Si faccia, letteralmente, di necessità virtù:

– riaprire davvero il patrimonio ai cittadini;

– realizzare collaborazioni con la Scuola, prima interlocutrice di ogni politica del patrimonio culturale;

– sostenere il patrimonio diffuso: recuperare e investire in tutti quei presidi culturali costituiti da migliaia di teatri di prosa, lirici, cinema d’essai, costruendo sinergie tra le diverse realtà culturali e sociali del territorio;

– riqualificare i teatri in senso democratico, in antitesi alla versione elitaria attuale: bisogna cambiare radicalmente retoriche e messaggi, tornando a parlare a cittadini sovrani, non a consumatori o clienti;

– imporre una moratoria dei teatri: che nell’età del Covid sono comunque tra le manifestazioni più a rischio: concentriamo risorse economiche e intellettuali al patrimonio permanente;

– incentivare il mecenatismo: in Francia, attraverso il mecenatismo, si raccoglie un miliardo di euro l’anno;

– garantire sostegno pubblico, in termini fiscali e non solo, a tutte le realtà capaci di veicolare il patrimonio ad ogni cittadino, contro l’imprenditoria privata della cultura, a partire da un ripristino del FUS che recuperi il dimezzamento degli stanziamenti degli ultimi 30 anni.

La sfida che ci viene posta da questa emergenza riguarda la capacità di ripensare le priorità stesse della società e, da parte nostra, di unificare i bisogni e gli interessi di tutti i lavoratori e le lavoratrici. Che tipo di società è quella che non si fa scrupoli di affrettare la ripartenza delle fabbriche, in nome del profitto, mettendo i lavoratori a rischio di contagiarsi o di diffondere il virus, mentre non si preoccupa nemmeno lontanamente di riaprire le scuole, i musei, i teatri e in generale i luoghi della cultura? Sia chiaro, il nostro appello non è un grido prepotente per tornare al lavoro ad ogni costo, ma la richiesta del riconoscimento del nostro ruolo nella società: adesso, durante la pandemia, ma soprattutto dopo, quando pretenderemo di ridisegnare una diversa società economica.

La visione d’insieme ci mostra che tutti noi lavoratori e lavoratrici viviamo la contraddizione tra la paura di ammalarci e il bisogno di tornare al lavoro per provvedere a noi e alle nostre famiglie. E ci indignano le parole del presidente lombardo di Confindustria che ha definito “irresponsabili” coloro che hanno scioperato per il
diritto alla salute, perché avremmo scioperato anche noi se ci avessero costretti a lavorare a rischio della salute nostra e dei nostri cari, oltretutto gravando su un sistema sanitario al collasso. E tutti abbiamo assistito con angoscia alle macabre immagini dell’esercito a Bergamo che trasportava centinaia di bare.
E allora, mentre il Paese ragiona su come far ripartire il motore dell’economia, a come riaprire industrie e fabbriche non essenziali, noi ci chiediamo: se si ritiene che scuole, teatri, musei non siano sicuri per ripartire, come possono esserlo le fabbriche? E se, viceversa, le fabbriche fossero davvero sicure, che senso avrebbe allora ritardare il più possibile l’apertura delle scuole, dei musei e dei teatri? Così come ci si interroga sul riaprire le spiagge o i mega parchi divertimento, perché non ci si pone il problema di pensare a come riaprire scuole e teatri? Perché l’istruzione e la cultura, che dovrebbero essere la base stessa di una società democratica, vengono considerate invece le ultime cose che dovranno ripartire?

Dopo tanta sofferenza, quello che vorremmo è semplicemente una società che non consideri la produzione di automobili o bulloni più importante della «produzione» di intelligenza e bellezza.

 

#RiconquistiamoTutto in SLC – spettacolo dal vivo

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