Il traghetto di Caronte: il welfare sociale e scolastico abbandonato.

Un contributo di Marco Lentini, Rsa/Rls FP Cgil di Torino

E il traghetto di Caronte prese il posto della barca comune: per il welfare dell’inclusione sociale e scolastica non c’è posto in terapia intensiva

Il sostegno alle persone in difficoltà è sempre stato ed è riconosciuto tutt’ora un pilastro del welfare. Dall’abolizione delle scuole speciali, all’affermazione dell’integrazione scolastica ed in ogni altro contesto di vita, fino al riconoscimento della didattica inclusiva, il ruolo del III settore è risultato, seppur in modo ambivalente, in molta parte determinante.
Per un verso, laddove il sistema lo ha consentito (sostanzialmente in ambito socio-sanitario, disabilità, cronicità, dipendenze, 3.a età e psichiatria… con progressiva marginalizzazione, per esempio, di gran parte degli interventi a tutela dei minori a rischio, in situazione di povertà e/o abbandono, fatta eccezione per quelli a valenza “riparativa/afflittiva” condotti c/o gli istituti penitenziari dedicati o in comunità affini) ha garantito un’effettiva presa in carico integrale, globale e plurale del bambino, dell’adolescente, dell’adulto disabile, dell’anziano, del malato cronico.
Per un altro, è risultato un formidabile grimaldello attraverso cui procedere al progressivo smantellamento dell’intervento pubblico in ambito sociale, con conseguente “abdicazione” in favore del privato no profit e for profit, non solo di meri compiti organizzativi e operativi, ma anche e soprattutto di gran parte delle funzioni e responsabilità in tema di gestione, regolazione e compensazione delle disuguaglianze

Su questo terreno si sono sperimentati, messi a punto e generalizzati tutti gli strumenti messi in campo, nel corso di decenni, dal modello politico e socio-economico liberale/liberista: dall’autonomia differenziata, alla sussidiarietà verticale e orizzontale, all’intervento residuale dello stato, alla deregolamentazione, alla privatizzazione di servizi, alla compressione di diritti, alla deflazione salariale.
La legge-quadro 328 del 2000 istitutiva del “sistema integrato di servizi ed interventi sociali” pone in capo agli enti territoriali la titolarità di funzioni in materia socio-assistenziale. Si tratta di un testo legislativo paradigmatico, per la contemporanea esaltazione delle “magnifiche sorti e progressive” del lungo ed inarrestabile percorso di dismissione di funzioni, prerogative e responsabilità pubbliche (in nome della “mistica” dei dogmi della sostenibilità economica, della compatibilità di bilancio ed efficienza gestionale privata, secondo quanto prescritto dalla letteratura, dalla pubblicistica e dalla politica apologetica del modello aziendalistico) e l’impianto di un regime istituzionale a chiara matrice “medievalistica” che legittima, di fatto, ogni Comune a disporre come, quando e nella misura in cui meglio ritiene, dei diritti delle persone in difficoltà e di quelli di coloro che se ne occupano quotidianamente.
Così capita che un comune o un consorzio di comuni preveda l’utilizzo del sistema dell””accreditamento”, altri enti optino per quello della “convenzione”, altri ancora operino in regime di appalto pubblico. Capita che ciascuno di essi riconosca monte-ore differenti agli utenti e, di conseguenza agli operatori, realizzando l’esatto opposto di quanto prescritto dalla Costituzione in tema di eguaglianza formale/sostanziale e di parità di diritti. Come capita che il comune “X” preveda il recupero delle ore di intervento non effettuate, integralmente o in parte, e il comune “Y” no.
E capita che in questa allegra brigata curtense di vassalli, valvassori e valvassini, a distinguersi per ferocia nei confronti della classe lavoratrice siano i comuni tradizionalmente “più rossi”. Ad esempio, vero “campione delle giostre carolinge” dei territori del nord ovest, il comune di Collegno, in provincia di Torino, non riconosce alcuna possibilità di recupero delle ore di intervento non fruite e dispone autoritativamente la perdita corrispondente della retribuzione a carico degli operatori; e lo fa in qualità di autentico depositario della più fedele tradizione del progressismo di sinistra.

Le cose non vanno meglio sul versante dell’educativa scolastica.
Se la legge 104/’92 ha fornito un apporto decisivo al fine di promuovere l’integrazione degli alunni con disabilità, aprendo, da un certo punto di vista, le porte di una delle istituzioni cardine in tema di produzione e riproduzione dell’ideologia dominante alla contaminazione di culture, pensieri e pratiche eterogenee, apertamente critiche e, in alcuni casi potenzialmente conflittuali, dando il via ad un’opera di lenta erosione di pregiudizi, consuetudini discriminanti, stigmatizzazioni sociali; da un altro punto di vista, ha finito col rappresentare, anche in questo caso, nel lungo periodo, una preziosa risorsa esogena cui ricorrere al fine di garantire quella riduzione dei costi di gestione relativi ad un capitolo rilevante della spesa pubblica, qual è l’istruzione.
E così, le scuole pubbliche di ogni ordine e grado hanno accolto, in prosieguo di tempo, un numero sempre più significativo di educatori da impiegare a fianco degli insegnanti di sostegno e, sempre più spesso, in sostituzione di essi, assicurandosi manodopera altamente specializzata “a costo zero”, essendo l’onere finanziario dei progetti di assistenza all’apprendimento scolastico appannaggio esclusivo  (appunto) degli enti territoriali ed essendo l’esercito di riservisti del sociale scaricabile “in tempo zero” in caso di crisi o di emergenza.

Venendo a questi tragici giorni, la tragedia “pandemia covid-19” non poteva che risultare amplificata nella sua drammaticità dalla consustanzialità tra feudalesimo, neo-corporativismo, digital revolution ed industry 4.0 che caratterizza l’attuale nostra triste epoca.

Se in ambito socio-sanitario la residenzialità per gli anziani è divenuta, per gli ospiti e per gli operatori, l’arena principale della mattanza quotidiana cui assistiamo impotenti, rassegnati ed ecumenicamente soggiogati dall’attivazione coattiva di atavici e potenti dispositivi di controllo dell’io collettivo (quali la celebrazione di rituali di guerra e del culto dell’unità nazionale, retaggi di origine paleolitica perversamente rivisitati in chiave interclassista dal clero del sindacalismo interconfederale unito in aeternum, in salute e malattia, con le organizzazioni di rappresentanza delle controparti, nei santi conclavi degli enti bilaterali, della concertazione, del consociativismo, in ogni istituzione di vertice, diramazione, articolazione, d’apparato, territoriale, politica e organizzativa, senza alcuna eccezione); in ambito socio-assistenziale non si è totalmente immuni da quegli stessi miasmi putridi che esalano dai luoghi della co-gestione complice e colpevole dell’esistente, se non a livello qualitativo, nel senso che il posto dei corpi senza vita viene preso dai simulacri vuoti dei diritti dei lavoratori.

Succede, infatti, che da una parte si moltiplichino gli appelli a “non lasciare nessuno da solo” e dall’altra si interrompano drasticamente tutti gli interventi territoriali, finanche quelli gestibili con modalità a distanza, allo scopo di consentire agli enti gestori la realizzazione di avanzi primari d’esercizio da dirottare su altri capitoli di spesa; il tutto come traduzione empirica di un antico mistero eucaristico. Quello secondo cui, in piena emergenza “ciascuno debba fare la sua parte”, il che vale a dire, molto più prosaicamente che “i più debbano fare la parte di pochi altri” e, nel caso specifico, che i soldi per assicurare qualche cura a qualche “eletto” o la sopravvivenza a qualche “privilegiato” vadano reperiti direttamente presso la fonte dell’eterna giovinezza nascosta tra i pendii scoscesi delle retribuzioni dei lavoratori.

E succede anche, che in pieno giubileo della divina provvidenza che ci ha dotato di quelle nuove tecnologie indispensabili al fine di garantire la continuità di apprendimento in favore di ogni alunno, in ogni scuola di ogni ordine e grado, ci si dimentichi proprio di quegli operatori sociali senza la cui presenza non è possibile assicurare un milligrammo di effettiva didattica dell’inclusione, stante la presenza di difficoltà funzionali, psicologiche, emotive e relazionali non gestibili esclusivamente a livello scolastico-istituzionale. Per essi residua l’eventualità puramente teorica che possano continuare a lavorare a distanza ma solo nei limiti di quanto venga stabilito dall’ente territoriale competente (comune, consorzio, asl ecc.).

In caso contrario e, se disponibili, restano gli ammortizzatori sociali. Insomma, la salute, la vita, l’istruzione, la socializzazione, il benessere sono diritti soggettivi e, in quanto tali, pienamente esigibili. Solo uno fra essi non lo è mai completamente, fino in fondo: quello alla retribuzione dei lavoratori che garantiscono quotidianamente l’effettività di quegli stessi diritti.

A noi, un posto sicuro è riservato sulla zattera di Caronte. Non sulla barca del padrone.
E a patto di possedere due monete da appoggiare sugli occhi chiusi, per il traghettatore e per pagare l’ultima illusione.

Marco Lentini
Rsa/Rls FP Cgil di Torino

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