I nostri STATI GENERALI di arte, cultura e spettacolo

Numero speciale del Notiziario, a cura di Pierina Trivero e Eliana Como - voci fuori dal coro

Liberiamo l’arte dal mercato e dalla politica
Il patrimonio artistico e culturale di un paese dovrebbe essere centrale nella costruzione di una società civile e democratica e di una cittadinanza più consapevole della propria storia, della propria cultura e della propria identità. E l’Italia è il paese che più di ogni altro al mondo presenta un patrimonio diffuso capillarmente sul territorio, fatto non solo di musei, siti archeologici e teatri, ma anche biblioteche e archivi che costudiscono la nostra memoria storica. E poi, ancora, conservatori, accademie, chiese, palazzi e monumenti, sia nelle grandi città che nei piccoli borghi e persino tra le montagne.
Eppure questo patrimonio è così spesso mortificato da scelte politiche per niente lungimiranti o sfruttato a uso e consumo del mercato, quasi fosse un oggetto su cui, di volta in volta, fare propaganda e profitto, ma non da custodire e valorizzare come la nostra stessa Costituzione vorrebbe. Con il rischio anche di non riuscire a proteggere il nostro patrimonio artistico e paesaggistico dalla cementificazione e dagli effetti del cambiamento climatico, spesso devastanti, come ha dimostrato recentemente Venezia (solo per citare il caso più clamoroso), condannata dalle grandi navi e dalle grandi opere, dall’acqua alta.
Arte, cultura e spettacolo come bene pubblico
C’è bisogno di una contro-proposta culturale su questi aspetti, che abbia il coraggio di mettere in discussione alla radice e radicalmente le politiche del settore degli ultimi 20 anni e in particolare il legame tra pubblico e privato, la mercificazione della cultura, la separazione tra valorizzazione e tutela del patrimonio artistico, la frammentazione del sistema in aree di eccellenza e aree di secondo ordine e, ovviamente, le politiche contrattuali, a partire dalla definizione dei contratti dove ancora non esistono e dalla loro applicazione dove ci sono ma non vengono rispettati, fino all’utilizzo selvaggio di lavoro precario e gratuito. Occorre inchiodare la politica alle sue responsabilità nei confronti del disatteso art. 9 della Costituzione e alla progressiva diminuzione del Fondo Unico per lo Spettacolo, che ha portato alla perdita del suo potere d’acquisto di oltre il 50%. L’Italia è riuscita a collocarsi così agli ultimi posti in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura.
In questi anni si è continuamente privatizzato questo settore. Bisogna mettere in discussione, a tutti i livelli, la retorica tossica che il ‘patrimonio culturale è petrolio’. L’arte può anche produrre soldi, (e certamente ne produce anche tanti). Ma, prima di ogni altra cosa, l’arte deve produrre crescita sociale, cultura, identità, e continuare a realizzarsi come luogo privilegiato di contaminazione e incontro con le altre culture. E come tale il patrimonio artistico, paesaggistico e culturale deve appartenere ai citta-dini, essere conosciuto, frequentato e amato prima di tutto da loro. I beni culturali e artistici devono essere beni e servizi pubblici essenziali, accessibili a tutti, fuori dalle logiche del mercato e dagli interessi usa e getta dei privati e delle Fondazioni. C’è bisogno di un investimento importante da parte della scuola pubblica, a tutti i livelli, a partire da quella dell’obbligo: lo studio delle discipline artistiche deve essere garantito e adeguatamente finanziato.
Con l’assunto essenziale del dogmatismo privatistico che “lo Stato non può dare di più” perché che non ci sono le risorse e con il cronico ricatto che “la sanità e la scuola stanno peggio” si è, invece, giustificata una politica per la quale il vuoto dello Stato nel settore dell’arte e della cultura dovesse necessariamente essere colmato dal privato. L’esterofilia di tecnici ed esperti del settore ha cercato di convincerci che teatri, musei, biblioteche all’estero funzionano magicamente meglio perché affidati al privato. In realtà è vero il contrario, visto che gli stati dell’Unione Europea stanziano mediamente il doppio dell’Italia per la cultura.
Il pubblico deve tornare a investire e non soltanto, come spesso accade, verso la cerchia dei grandi musei, siti culturali, teatri o produzioni cinematografiche, lasciando invece a se stessi tutta quella grandissima rete di presidi culturali e artistici periferici, diffusi e indipendenti, che rappresentano la grandissima ricchezza di questo paese e a cui non restano che le briciole, perché non producono profitto immediato o non servono alla propaganda elettorale del momento. Anche per questo va contrastato il tentativo di autonomia differenziata, che comporterebbe in questo settore il rischio di perdere il fondamen-to unitario nazionale del patrimonio artistico del paese e di separare ancora di più le aree ricche dalle aree abbandonate, soprattutto al sud.
La politica deve assumersi la responsabilità di far uscire le Fondazioni Liriche dall’ambiguità del loro status, problema che affligge tutti i teatri trasformati in fondazioni di diritto privato ma sorretti dalle sovvenzioni pubbliche di Comuni, Regioni e Stato. Servirebbe una riforma del settore sorretta da una autentica visione culturale che connetta non solo le fondazioni lirico-sinfoniche, i teatri di tradizione, le Istituzioni Concertistico-Orchestrali, i Festival e i circuiti, ma anche le scuole ed i Conservatori.
Bisogna investire sul settore della danza, pressoché condannato a morte da dismissioni, privatizzazioni, licenziamenti, precarizzazioni e una catena vergognosa di appalti e subappalti seguita alle chiusure dei principali corpi di ballo, l’ultimo dei quali quello di Verona tre anni fa; in tutta Italia ne sono rimasti solo 4 stabili (in Germania sono 50 e in Francia 95). Come se la danza non esistesse, in un paese che ha fatto la storia del balletto nel mondo e in cui 1milione 400mila ragazzi e ragazze frequentano scuole di danza.
Nel frattempo, nelle Fondazioni Liriche, abbiamo a che fare con un CCNL fermo al 2005; con la legge 81/2019, che continua a lasciare in uno stato di incertezza un numero imprecisato di storici lavoratori e lavoratrici precarie; con la possibilità della liquidazione coatta amministrativa prevista dalla legge Bray; con le responsabilità gestionali. E con l’ossessione per piani industriali, che puntano più alla commercializzazione che alla diffusione della cultura. E che dire dei lavoratori in sospensione del Petruzzelli di Bari, in attesa degli emendamenti che permettano loro di accedere alla cassa integrazione?
Altre professioni, come gli attori di cinema un contratto nazionale specifico non ce l’hanno proprio (gli attori di prosa ce l’hanno, per ora, soltanto in via sperimentale) e i ballerini soltanto se rientrano nei pochissimi corpi di ballo ormai rimasti nelle Fondazioni Liriche.
Va combattuta ovunque la precarietà, il lavoro gratuito e sottopagato, le gavette infinite e il volontariato che sono una piaga in questo settore e che contribuiscono a svalorizzare le tante professioni che ne fanno parte, sia quelle artistiche che quelle tecniche e amministrative, sia davanti che dietro le quinte. Basti pensare al settore dello spettacolo dal vivo oppure ai musei, alle biblioteche, ai servizi archivistici, dove, anche a fronte di altissime professionalità, a volte vere e proprie eccellenze (si pensi al settore del restauro e dell’archeologia) il volontariato, anche con l’alternanza scuola-lavoro, sostituisce regolarmente il lavoro pagato, con numeri disarmanti. Bisogna invece investire sul lavoro stabile e garantito, anche a fronte del progressivo turn over dei lavoratori e delle lavoratrici in organico, che, in alcuni comparti, soprattutto quelli pubblici, da anni non sono sostituiti da nuove assunzioni.
Riprendiamo la mobilitazione del 6 ottobre 2018
Sappiamo bene che c’è una crisi della partecipazione e spesso scarso interesse da parte degli stessi lavoratori e lavoratrici nei confronti di ciò che rappresentano attraverso le loro professioni: un presidio di democrazia. La verità è che tanti colleghi pensano che fintanto che arriva lo stipendio va tutto bene. Perché interessarsi di come viene gestito l’intero sistema e di quanto poco si investe sul futuro di esso? Perché preoccuparsi di chi è condannato alla precarietà a vita se si ha la sicurezza di un “posto al sole”? Perché domandarsi se i contribuenti, che con le loro tasse sostengono la cultura, hanno anche la possibilità di accedervi?
E’ però il sindacato che deve prima di tutto mettersi in discussione e interrogarsi profondamente sul fatto che esso venga da molti percepito più come un erogatore di servizi che come una possibilità collettiva di impegno per la difesa dei diritti e un luogo di condivisione dei valori di solidarietà, responsabilità, impegno civile e sociale. Il sindacato deve rispondere urgentemente a una generale perdita di credibilità, con una proposta forte sull’intero sistema della cultura, dell’arte e dello spettacolo, autonoma e indipendente dalla politica, capace di tenere insieme le diverse istanze dei vari settori, superare i particolarismi e lanciare una vera e propria campagna contro la privatizzazione, la lottizzazione politica, la precarietà cronica, il lavoro gratuito, la mancanza di investimenti.
Un primo passo importante in questa direzione è stata la manifestazione nazionale nata dai movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici della cultura, il 6 ottobre del 2018. Per la prima volta, sono scesi in piazza, a Roma, oltre 2000 lavoratori e lavoratrici della cultura, tra dipendenti delle fondazioni liriche, attori, professionisti dei beni culturali, archeologi, restauratori e tanti altri. La manifestazione è stata uno scatto di orgoglio di chi ha voluto mettere al centro non solo la propria dignità professionale, le proprie rivendicazioni, ma soprattutto il valore della cultura nel nostro paese.
È da lì, principalmente, che crediamo si debba ripartire. Dall’ascolto e dal protagonismo di tutti quei soggetti che il 6 ottobre hanno lanciato un loro grido di rabbia. Il sindacato non serve a chiedere incontri a un Ministro che dopo mesi a malapena si degna di rispondere. Tanto meno a giustificare scelte di questo o quel governo per pragmatismo politico. Il sindacato serve se è in grado di rispondere ai bisogni di chi lavora, se sa ascoltare le istanze che i movimenti lanciano, se sa raccoglierle, tradurle in piattaforme rivendicative e inserirle in una mobilitazione più generale, senza aver paura di contestare il governo o il sovraintendente di turno.
Allora, ben vengano gli Stati Generali della Cultura, che Cgil Cisl e Uil hanno annunciato da ormai oltre un anno. Anzi, basta rimandarli continuamente. Si facciano finalmente e si allarghino il più possibile ai movimenti, anche oltre gli steccati delle sigle sindacali. Si crei una vera e propria partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte. Abbiamo bisogno di discutere e di confrontarci, di dare voce a chi vive le contraddizioni di questo settore e a chiunque abbia idee e proposte, fuori dai riti e dalle burocrazie con cui spesso viene ingessata la nostra organizzazione. Soprattutto abbiamo bisogno di coraggio, indipendenza dalla politica e, perché no, radicalità. Guardate che belle le ballerine dell’Opera de Paris che hanno eseguito il Lago dei Cigni in piazza unendosi alle radicali mobilitazioni di tutto il movimento sindacale francese contro l’aumento dell’età pensionabile!
Per questo, iniziamo a mettere a disposizione di chiunque lo ritenga utile questo primo e parziale contributo e proponiamo una iniziativa pubblica di confronto con gli iscritti e le iscritte alla Cgil e anche con tutti coloro i quali vogliano, nel rispetto delle proprie appartenenze e dei propri ambiti di militanza, esprimere un punto di vista sulla questione e condividere un percorso per tradurre le nostre riflessioni in proposte e azioni.
Pierina Trivero e Eliana Como – voci fuori dal coro

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