Il lavoro si fa strada. Ma quale strada?
Commento al documento della CGIL sulla contrattazione inclusiva
Nelle prossime settimane, le AG territoriali e regionali della Cgil discuteranno ai vari livelli il documento Il lavoro si fa strada, presentato dalla segreteria nazionale, dopo colloqui con le segreterie nazionali delle categorie, come bozza di avvio per una discussione e la sperimentazione di vertenze di contrattazione inclusiva. Discussione che porterà nel 2020 alla Conferenza di organizzazione.
Il tema della contrattazione inclusiva è senza dubbio importante: come dare risposte contrattuali alla frammentazione del lavoro nei siti produttivi dove è sempre più difficile l’identificazione della categoria di riferimento, a causa principalmente dell’esplosione delle forme contrattuali precarie e delle catene degli appalti e dei subappalti.
Ma siamo sicuri che il documento Il lavoro si fa strada lo affronti davvero? Francamente riteniamo di no, perché il tema non è inquadrato nella dimensione politica che invece meriterebbe, si basa su una analisi perlomeno impressionistica e, di fatto, non contiene vere e proprie proposte, né politiche né operative.
Vediamo nel dettaglio.
Il documento si basa sull’assunto che “dalla crisi è emerso un modello produttivo notevolmente differente rispetto al passato: una nuova organizzazione del lavoro che deve definitivamente interrogare la CGIL sui nuovi strumenti di iniziativa sindacale, di tutela individuale e collettiva, di solidarietà sociale funzionale a rinvigorire il ruolo del sindacato confederale quale strumento di trasformazione e di cambiamento sociale e generale della società”. Di fronte a questa “nuova” organizzazione del lavoro (“scomposizione dei cicli produttivi, riorganizzazione dei servizi pubblici, uso senza limiti degli appalti e frammentazione del lavoro”) servirebbe, secondo il documento, una “nuova architettura della nostra organizzazione”, quella che storicamente, in tempi di organizzazione tradizionalmente fordista del lavoro, la Cgil si era data. Con la strutturazione, cioè, per categorie (verticalità) e camere del Lavoro (orizzontalità).
Se questo è l’assunto analitico da cui si parte, ci sembra francamente un po’ poco. Davvero pensiamo che la “nuova” organizzazione del lavoro sia soltanto il frutto della crisi e non sia invece il portato di un processo almeno trentennale di trasformazioni socio-economiche e produttive e soprattutto di scelte politiche precise (in particolare quelle degli anni 90, frutto anche di politiche concertative condivise dalla Cgil)? Tanto più che il tema della “nuova” organizzazione del lavoro viene incredibilmente posto, sia nella analisi che nelle proposte, in una ottica esclusivamente nazionale, come se fosse un processo soltanto italiano, ignorando le dinamiche internazionali della globalizzazione, le trasformazioni dei mercati e soprattutto il principale processo di frammentazione del lavoro determinato dalle delocalizzazioni.
Anche aldilà dell’analisi, non ci convince, in ogni caso, l’idea che, di fronte ai cambiamenti del mondo del lavoro, si proponga di mettere in discussione la struttura organizzativa, senza affrontare davvero i nodi politici. Siamo consapevoli che in questi decenni la contrattazione non sia stata in grado di dare risposte alle trasformazioni del mondo del lavoro (peraltro, non soltanto nei settori dei servizi ma anche in quelli più tradizionali del pubblico impiego e del manifatturiero). A chi può sfuggire il tema dei lavoratori e delle lavoratrici precarie, il crescente numero di soggetti non contrattualizzati, l’esplosione del lavoro para-suburdinato, le catene di appalti e subappalti determinati da esternalizzazioni e privatizzazioni, il proliferare di contratti nazionali anche dentro la stesso sito produttivo. E chi può negare che in questi decenni, anche a causa di nostre responsabilità, i perimetri contrattuali siano stati spesso stravolti e i contratti nazionali siano entrati in competizione l’uno con l’altro, producendo dumping all’interno delle stesse filiere produttive.
Non è da oggi che scopriamo che all’operaio di una fabbrica si applica il contratto dei metalmeccanici, dei chimici o dei tessili (per esempio), mentre nella stessa fabbrica chi lavora in mensa guadagna la metà perché gli viene applicato il contratto dei multiservizi. Contratti nazionali che, nella maggior parte dei casi, abbiamo firmato noi stessi.
Il tema da affrontare, però, secondo noi non sta necessariamente nella struttura organizzativa verticale e orizzontale della Cgil. Organizzazione che, già agli albori, nasceva dall’idea che né la categoria né il territorio fossero sufficienti da soli a rispondere ai bisogni del mondo del lavoro, ma fosse l’interazione tra i due livelli (l’idea di confederalità che sempre evochiamo) a rispondere alla complessità di una classe lavoratrice all’epoca molto più identificabile di oggi, ma comunque mai monolitica.
Se parliamo di organizzazione della Cgil per noi il tema centrale (così come abbiamo proposto nel documento alternativo RiconquistiamoTutto) resta quello di una sua minore burocratizzazione, della maggior partecipazione dei delegati, della democrazia e del protagonismo delle lotte.
Ma, in ogni caso, non ci convince a monte il fatto che il problema della contrattazione inclusiva sia individuato in un dato oggettivo, cioè nella struttura dell’organizzazione in sé, e non piuttosto in un dato soggettivo, cioè nelle scelte politiche che in questi decenni hanno governato l’organizzazione, non contrastando come avremmo dovuto la precarizzazione, le privatizzazioni e le esternalizzazioni e lasciando che, anche dal punto di vista contrattuale, ogni categoria seguisse una sua strada. Basti pensare alle deroghe ai ccnl, alle forme di salario di ingresso per i nuovi assunti, all’indice IPCA, ai flexible benefits. E più in generale alla contrattazione del welfare nei singoli contratti nazionali e nelle singole categorie, come se ci accorgessimo solo ora di quanti (soprattutto pensionati e precari) ne sono stati di fatto esclusi e di quante risorse pubbliche hanno finito così per essere dirottate al privato.
Se vogliamo davvero affrontare il tema di come dare risposte contrattuali alla “nuova” organizzazione del lavoro, prima di esercitarci su soluzioni organizzative che “cambino tutto, per non cambiare niente”, dovremmo provare a fare maggiore autocritica rispetto alle scelte politiche e contrattuali di questi decenni, con umiltà e rigore. A partire da quelle che hanno riguardato i contratti nazionali e il salario, tanto più vista la discussione politica di questi mesi sul salario minimo. Discussione che avrebbe richiesto un maggiore approfondimento, di analisi e di proposta, a partire al limite proprio dalla riflessione sulla contrattazione inclusiva e di cui invece si tace in questo documento.
È paradossale che la Cgil avvii la discussione che ci porterà il prossimo anno alla Conferenza di organizzazione con un documento focalizzato soltanto sulla contrattazione inclusiva, senza avanzare peraltro, anche su questo, alcuna proposta che non sia quella da tempo perseguita di “rivendicare nuove iniziative nei confronti dei legislatori” (non ci stanchiamo di dire che in assenza di una mobilitazione all’altezza dell’obiettivo, la Carta dei Diritti giace in Parlamento ormai da tre anni) o quella di costruire percorsi di partecipazione nei luoghi e nelle filiere, attraverso la distribuzione di questionari per ottenere una “prima” (!) mappatura dei lavoratori e delle tipologie contrattuali. Francamente, anche volendo discutere soltanto di contrattazione inclusiva, ci pare un po’ poco…
Anche la lista dei temi contrattuali che viene proposta dal documento, quelli che la contrattazione inclusiva dovrebbe affrontare (temi in sé condivisibili come appalti, diritti sindacali, salute e sicurezza, accesso ai servizi aziendali eccetera) appare perlopiù priva di indicazione su quali possano essere poi gli strumenti operativi da proporre alla discussione. Verrebbe da dire: va bene, ma come?
Il documento Il lavoro si fa strada affronta anche il tema della contrattazione sociale e territoriale. Anche su questo senza grandi novità e proposte, ma soprattutto, secondo noi, senza affrontare il tema centrale della difesa del welfare pubblico e universale per tutte e tutti, pensionati, lavoratori e precari. A cosa serve una contrattazione sociale che non coinvolga tutti questi soggetti nella definizione di piattaforme e di lotte comuni a livello di territorio? E soprattutto, a cosa serve una contrattazione sociale, se non c’è a monte la scelta politica di difesa della sanità e dei servizi pubblici, contro ogni privatizzazione, esternalizzazione e contrattualizzazione del welfare?
Mancano proposte anche sul tema più strettamente legato alla esplosione della precarietà e su come dare risposte a lavoratori e lavoratrici parasubordinati, a chiamata, in partite iva… Come se non fossero 30 anni che ci interroghiamo su questo tema e come se non avessimo fatto e confermato in questi decenni precise scelte, politiche tanto quanto, in questo caso, organizzative. Che NIdiL piaccia o meno, si può davvero affrontare questo tema senza una analisi su come ha funzionato o non ha funzionato in questi anni? Non ce ne è traccia in questo documento. Nemmeno quando si affronta il tema del tesseramento: non una parola sulla difficoltà che i nostri delegati e delegate hanno di rappresentare/tutelare/iscrivere i loro colleghi somministrati, non potendoli accogliere nella categoria ma dovendoli indirizzare al NIdiL, fuori dal posto di lavoro. Se di una scelta organizzativa abbiamo bisogno, questa per noi è proprio la necessità di non ghettizzare i lavoratori precari (almeno quelli che hanno un posto di lavoro fisicamente determinato) ma ricomprenderli nella categoria di appartenenza.
Infine, sempre a proposito del tesseramento. Nel documento si parla di una “forte contraddizione” tra l’adesione alle nostre campagne pubbliche (referendum, Carta dei diritti…), il consenso ai nostri documenti congressuali e le conclusioni “unitarie” (!) del XVIII Congresso e, dall’altra parte, “la costante flessione del numero dei nostri iscritti e iscritte”.
Sorvoliamo sul fatto che chi ha redatto il documento era forse distratto al Congresso di Bari, tanto da dimenticare che quella discussione si è aperta e chiusa con la larga maggioranza, vero, ma non all’unanimità (il punto non è riconoscere il nostro peso congressuale, quanto pretendere il rispetto minimo di tutti e tutte. Quel rispetto che imporrebbe in un documento come questo di non “dimenticare” nessuno, fosse anche il 2% di questa organizzazione, per ragioni politiche e di buon senso prima ancora che statutarie).
Aldilà di questo, siamo proprio convinti che si tratti di una contraddizione e non piuttosto di una illusione di cui siamo tutti e tutte consapevoli pur non volendola riconoscere come tale? Siamo sicuri che dietro la montagna di voti che i verbali congressuali registrano, così come dietro le raccolte di firme di questi anni ci sia un generale consenso alle scelte della nostra organizzazione? Non sarebbe meglio interrogarsi sulla difficoltà crescente che abbiamo a far partecipare i lavoratori e le lavoratrici alle nostre iniziative e persino alle assemblee (nei congressi quanto nelle nostre varie campagne)? Siamo davvero soltanto noi a vedere queste difficoltà?
Non è utile a nessuno nascondersi dietro a un dito, tanto più in vista di una Conferenza di organizzazione. Non serve dirsi che va tutto bene e che il calo degli iscritti è una variabile indipendente dalle trasformazioni produttive e organizzative tanto quanto dalle nostre scelte politiche. Così come, per invertire il trend negativo degli iscritti (o perlomeno per provare a bloccarlo) non basta proporre “un vero e proprio rilancio della pratica del proselitismo ad ogni livello, attraverso anche opportuni interventi formativi volti a rafforzare il senso di identità e di appartenenza”, come propone il documento. Ben venga di fare formazione ai delegati e rafforzare il senso di indentità e appartenenza alla Cgil, ma pensare che questa sia la risposta al calo degli iscritti è francamente disarmante. Se diminuiscono gli iscritti, il problema non è dei delegati e delle delegate che non vogliono o che non sanno più chiedere ai loro colleghi di iscriversi. Il calo degli iscritti è tutt’altro che una contraddizione. Quanto prima lo accettiamo, tanto prima saremo in grado di provare a avanzare proposte che aiutino davvero i delegati e le delegate nei luoghi di lavoro, tradizionali o nuovi che siano.
Un ultima nota, di metodo, ma non meno importante. Questo documento verrà discusso nelle prossime settimane a tutti i livelli, territoriali e regionali. Bene: allargare il dibattito alle AG e discutere un documento programmatico in modo diffuso è senza dubbio positivo. Molto meno il fatto che la bozza su cui si discuterà non sia stata mai oggetto di discussione del Direttivo nazionale. Ben venga la “democrazia dal basso” (la abbiamo sempre chiesta e continueremo a farlo), ma attenzione che non diventi in questo modo il precedente per superare i nostri organismi di rappresentanza e sostituirli con una assai meno nobile “democrazia plebiscitaria”.
RiconquistiamoTutto
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