Sindacato. Quale unità e per che cosa?
Una riflessione su divergenze ed unità sindacali, di Luca Scacchi (Direttivo nazionale CGIL)
Un mese fa l’unità sindacale ha conquistato le pagine dei giornali. L’intervista a Maurizio Landini uscita su Repubblica in occasione del primo maggio e la successiva riunione congiunta dei direttivi confederali di CGIL CISL UIL a Matera hanno aperto la discussione pubblica. Quello che più colpisce, nei commenti sulla stampa come nelle riflessioni della sinistra politica e sociale, è che questa proposta è apparsa nuova. Non è così.
La proposta è in campo da più di un anno. Pur avendo segnato in qualche modo tutto il percorso del XVIII congresso della CGIL, pur avendo caratterizzato la stessa candidatura e in qualche modo il successo di Maurizio Landini, è stata paradossalmente sino ad oggi poco discussa sia nell’organizzazione sia fuori da essa.
Questa proposta, infatti, è emersa in CGIL nella primavera 2018. Sia nella Commissione politica per il congresso sia in alcune Assemblee generali territoriali e di categoria che hanno discusso le prime bozze del documento proposto dalla segreteria confederale. Ad avanzarla con particolare determinazione sono stati alcuni esponenti ed alcuni settori dell’organizzazione, non casualmente poi coalizzati intorno alla candidatura di Vincenzo Colla come nuovo segretario generale. Non hanno proposto un semplice rilancio dell’unità d’azione nelle politiche contrattuali o nel rapporto con il governo. E neanche un generico rilancio di un’unità sindacale. Hanno invece delineato proprio la prospettiva di cui si parla in questi giorni: una nuova fase della storia sindacale in grado di superare l’attuale divisione in più confederazioni. Roberto Ghiselli, in un testo sul Diario del lavoro che presentava proprio il profilo programmatico della candidatura Colla, riportava come il “documento congressuale della Cgil nelle sue ultime pagine volutamente lascia aperto ad ulteriori riflessioni e proposte il capitolo dell’unità sindacale. Sarebbe utile riempire questo capitolo proponendo, a noi stessi e agli altri, una sfida ambiziosa e di alto significato, come quella di lavorare per “una fase costituente per un nuovo sindacalismo confederale”. Chiaro ed esplicito, sia nella notazione sui testi congressuali, sia nell’avanzare invece una proposta precisa: una fase costituente per un nuovo sindacalismo confederale. Infatti, nel documento congressuale Il lavoro è (approvato con quasi il 98% dei consensi) sull’unità sindacale come su una serie di altri nodi politici e contrattuali era stata definita una formulazione vaga, in grado quindi di ricomprendere le diverse articolazioni, differenze e contrapposizioni presenti nella maggioranza CGIL. “L’obbiettivo strategico” dell’unità del mondo del lavoro era quindi posto attraverso una generica “nuova proposta di unità sindacale” (sostenuta dal Testo unico, dagli accordi unitari ed anche da eventuali ulteriori percorsi legislativi sulla rappresentanza), ma senza richiamare particolari processi politico-organizzativi (senza alcun riferimento a quella che nel linguaggio sindacale si definisce “un’unità organica” e tantomeno ad eventuali percorsi costituenti). E quel testo, alla fine, è stato approvato a Bari senza nessuna revisione o integrazione su queste righe.
Però, con una certa sorpresa nelle file dell’organizzazione, tale proposta era stata ripresa ad ottobre dallo stesso Maurizio Landini. Subito dopo la formalizzazione della sua contrastata candidatura in un infuocato direttivo nazionale, nelle sue conclusioni del Congresso della Camera del Lavoro di Milano. Quel “discorso di Milano” (qui una mia riflessione scritta subito dopo) ha in qualche modo rappresentato per Landini la prima occasione di tracciare pubblicamente il profilo programmatico della sua candidatura. In Direttivo, infatti, da molto tempo non prendeva la parola. Al centro di questo profilo programmatico Landini aveva deciso di collocare, non casualmente, proprio quella proposta di un’unità sindacale nei mesi precedenti avanzata da Colla, Ghiselli ed altri compagni/e (oltre che il ragionamento da tempo avanzato dalla Camusso su una nuova centralità politico-organizzativa delle Camere del Lavoro). Un segnale, cioè, che la sua candidatura, pur avendo un particolare profilo ed avendo proprio in quel momento innescato una contrapposizione nella CGIL, poteva in ogni caso farsi portatrice di nuclei tematici e proposte che caratterizzavano proprio i settori di maggioranza più critici nei suoi confronti.
Come si è concluso il congresso di Bari è oramai cronaca. Dopo tanto tuonare si è arrivati ad una ricomposizione al fotofinish (subito prima della convocazione della commissione elettorale che avrebbe dovuto prender atto delle liste contrapposte per gli organismi dirigenti), con il riconoscimento del 40% ai settori legati alla candidatura Colla, l’elezione a larghissima maggioranza di Landini, l’introduzione delle figure di due vicesegretari (uno dei quali è lo stesso Colla, l’altra un’esponente molto vicino alla gestione Camusso come Gianna Fracassi), la permanenza di Susanna Camusso nel gruppo dirigente della CGIL (con due incarichi: uno di rappresentanza come la responsabilità del Dipartimento internazionale, l’altro che le permette di esser presente in tutta l’organizzazione come la responsabilità delle politiche di genere). Dopo un’aspra contrapposizione durata diversi mesi, in cui erano emersi pubblicamente i diversi profili programmatici e i diversi modelli sindacali presenti nella maggioranza CGIL, il congresso nazionale si è quindi chiuso sotto il segno di una grande ricomposizione. In primo luogo, dei gruppi dirigenti. Una volta trovata la quadra su quelli, infatti, si sono ricomposte anche le diverse impostazioni, evitando accuratamente che arrivasse al voto della platea congressuale qualunque emendamento, o qualunque ordine del giorno, che potesse esser o che potesse esser letto come identificativo dei diversi schieramenti. Tale semplice lettura burocratica, però, rischia di omettere un elemento rilevante. Guardando retrospettivamente il percorso, infatti, se la candidatura di Maurizio Landini è stata resa possibile dalla firma alla fine del 2016 del peggiore contratto dei metalmeccanici della storia (passaggio che gli ha permesso di uscire dalla FIOM, superare le storiche contrapposizioni con la Camusso ed entrare nella segreteria CGIL), è stato il suo ulteriore e deciso spostamento proprio sull’unità sindacale che ha permesso la sua elezione a segretario generale evitando ogni frattura nell’organizzazione. La sua aperta assunzione di quella prospettiva strategica, infatti, ha segnato politicamente la sua elezione, permettendo sia al corpo camussiano sia ai settori colliani di sostenerne l’azione. Ed infatti la segreteria Landini è stata segnata in questi mesi da una parte da una continuità d’azione (o meglio, di inazione: rinvio di ogni prova di forza ed ogni sciopero generale, diluizione di ogni conflitto, conferma delle linee contrattuali), dall’altra da un rilancio del suo profilo concertativo verso il padronato (Manifesto per l’Europa) e con, appunto, il rilancio retorico sull’unità sindacale.
Ed eccoci allora all’intervista su Repubblica. La prima cosa che balza agli occhi, proprio come nel discorso di Milano, è la superficialità della sua argomentazione politica, storica e sindacale. Il nucleo fondante pare infatti questo: CGIL CISL UIL si sono divise in un’altra era storica, la guerra fredda è finita, i partiti di allora non ci sono più, non ci sono più le ragioni politiche di quella divisione e c’è invece una larga condivisione di proposte, iniziative e prassi sindacali. Quindi, avviamo oggi una nuova unità sindacale. Il punto, come ho sottolineato già all’indomani di quel discorso, è che “la CGIL nasce (rinasce), dopo la lunga parentesi fascista, per un accordo politico siglato il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e Emilio Canevari per la componente socialista. Il PCI si è sciolto nel 1991, il PSI e la DC nel 1994. Sono passati 25 anni. Non solo. Diversi soggetti politici eredi di questi partiti ne hanno formato uno unico nel 2007: il PD, che vide tra i suoi fondatori, dirigenti e parlamentari, Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani, Ottaviano del Turco e Franco Marini, Giorgio Benvenuto e Pierre Carniti, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza. Cioè non solo le ragioni politiche delle divisioni sindacali appartengono oramai da tempo alla storia di questo paese, ma molti dei principali dirigenti di CGIL CISL e UIL, mi viene da dire persino alcuni suoi esponenti storici, hanno fondato insieme un partito più di dieci anni fa (che infatti ha avuto nella sua parabola politica referenti sindacali molteplici, in tutte e tre le confederazioni sindacali).”
Le ragioni politiche e storiche della divisione sindacale del 1948, cioè, sono state definitivamente superate da molti anni. Dai primi anni novanta. Da un’intera stagione politica e sociale, possiamo dire. Un stagione nella quale tutte e tre le principali confederazioni hanno conosciuto processi di trasformazione (la nuova CGIL lanciata da Trentin e sviluppata poi con Cofferati, il rinnovamento CISL di D’Antoni e Pezzotta, la UIL che si volge al nuovo con Larizza e Angeletti, dopo la lunga stagione di Benvenuto). Eppure, nonostante l’intenso rapporto unitario nel quadro della concertazione, non sono venute meno in questi ultimi decenni diversità e differenze tra queste organizzazioni. Anzi, proprio quando viene fondato il PD (che racchiude in unico soggetto politico larga parte delle tradizioni politiche di riferimento dei gruppi dirigenti di CGIL, CISL e UIL), proprio allora si sviluppa la stagione degli accordi separati e della loro massima contrapposizione. A dimostrazione che le ragioni storiche e politiche di quella divisione sono oramai sganciate da molto tempo dalla vita delle tre confederazioni.
Quelle divisioni storiche e politiche, d’altra parte, non hanno impedito in altre stagioni percorsi di unità, anche organizzativa, come mostra la storia decennale della FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici). Quell’unità, però, fu sostenuta allora dalle dinamiche dei processi produttivi e dai suoi conflitti: portava cioè il segno della ricomposizione del lavoro nelle lotte e dello sviluppo di una grande autonomia di classe (un’autonomia cioè del lavoro dal capitale prima ancora che dai partiti parlamentari). La stagione dell’autunno caldo, dei consigli e poi dell’unità organica CGIL CISL UIL (a partire dalla FLM) fu infatti costruita su un grande protagonismo operaio, sulla conquista di un sistema pensionistico contributivo e universale, l’eliminazione delle gabbie salariali e del cottimo, aumenti uguali per tutti e meccanismi automatici di progressione salariale (dalla scala mobile all’anzianità), oltre che il riconoscimento di diritti civili, sociali e sindacali nei posti di lavoro (Statuto dei lavoratori). Cioè si fondò contemporaneamente, in un intreccio forgiato dal conflitto, su una grande attivazione politica di lavoratori/lavoratrici (ben oltre i confini delle organizzazioni sindacali e al culmine di un lungo processo di industrializzazione centrato sull’operaio massa) e su un fronte rivendicativo ricompositivo (in cui cioè le conquiste, anche quando erano strappate solo dai settori più centrali ed organizzati della classe, diventavano rapidamente conquiste di tutti/e e per tutti/e). Non a caso quell’unità si sfalda al termine di quel ciclo conflittuale: dopo l’esaurimento della resistenza metalmeccanica alla politica dei sacrifici e alla svolta dell’EUR (manifestazione del 2 dicembre 1977 contro la politica economica del governo di unità nazionale, manifestazione del 22 giugno 1979 per il rinnovo del CCNL), dopo la sconfitta dei 35 giorni alla FIAT; quando con l’accordo Scotti inizia a delinearsi una nuova politica concertativa nel nostro paese ed i sindacati si dividono proprio sul rapporto con il governo Craxi (decreto di San Valentino).
Oggi però l’unità sindacale appare astratta sia dalla dinamica dei processi produttivi sia dai suoi conflitti. Gli ultimi vent’anni, infatti, sono stati segnati dalla scomposizione del lavoro e dalla frammentazione delle vertenze sindacali. Una dinamica innescata dall’esplosione del precariato (dopo il pacchetto Treu approvato dal centrosinistra e la Legge Biagi definita dal centrodestra) e le ristrutturazioni seguite alla crisi degli anni novanta, che è stata rilanciata ed approfondita dalla doppia recessione e la lunga stagnazione dopo il 2008/09. Si è scomposto il lavoro, con lo snellimento delle grandi fabbriche, l’esplosione delle filiere produttive, l’inserimento delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei processi di lavoro. Si è divisa la forza lavoro, con la diffusione di un precariato generico e professionale, cooperative, subappalti e tempi determinati: mille forme di flessibilità e negli ultimi anni anche centinaia di contratti diversi. Una moltitudine del lavoro che, spesso tenuta separata anche dalla stessa azione sindacale, ha originato un conflitto frammentato e disperso. Nei grandi gruppi ci si è spesso divisi anche per stabilimenti: dalla FIAT-FCA ad Almaviva, dall’ILVA a Fincantieri, tutte i grandi conflitti sindacali sono stati infatti gestiti stabilimento per stabilimento, talvolta purtroppo stabilimento contro stabilimento. Nella scuola, le grandi mobilitazioni del precariato, che hanno interessato decine se non centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, hanno spesso visto linee di faglia se non di diretta contrapposizione tra gruppi e condizioni diverse (abilitati e non abilitati, Siss e Pas, ecc). La doppia recessione (2009/2012) ha poi determinato l’esplosione di una contrattazione difensiva (chiusure aziendali, licenziamenti e cassa integrazione), con la diffusione di contratti di solidarietà, revisioni delle condizioni di lavoro o di quelle salariali, pur di salvaguardare almeno parte dell’occupazione. Il segno della stagione è stato dato dal nuovo contratto Alitalia, con la privatizzazione del 2008, che ha imposto una diminuzione nominale del salario. In questo quadro, ogni categoria ha cercato un suo punto di tenuta (o più spesso di caduta): i chimici hanno iniziato a prevedere deroghe al CCNL sin dai primi anni duemila, il commercio ha introdotto gli enti bilaterali, i bancari welfare aziendale e salari d’ingresso, i postali il rinnovo su base triennale. Il pubblico impiego, poi, ha visto per quasi un decennio la contrattazione di fatto bloccata (dal 2009 al 2018).
Certo, i sindacati confederali italiani, in controtendenza rispetto alla maggior parte dei paesi a capitalismo avanzato, hanno tenuto iscritti (ben oltre 10 milioni CGIL CISL e UIL, probabilmente vicino ai 15 milioni nel complesso) ed un alto tasso di sindacalizzazione (oltre il 30%, con RSU elette in quasi tutta la pubblica amministrazione e in oltre il 70% delle grandi aziende). Questo risultato, però, è stato ottenuto moltiplicando nelle stesse confederazioni modelli, funzioni ed interpretazioni sindacali: un ruolo generale (intervento e vertenza sulle politiche economiche generali del paese), la rappresentanza di categoria (ccnl, contratti aziendali, difesa individuale), la rappresentanza dei pensionati (circa il 50% degli iscritti), i servizi (Caaf, Inca, ecc), la sussidiarietà sociale e produttiva (dagli enti bilaterali ai fondi, dalla gestione del welfare alla “partecipazione” aziendale). Così, in ogni confederazione, si sono moltiplicate divergenze e diversità, tenute insieme dalla stessa cornice politico-organizzativa ma dispiegate in pratiche e prassi molto diverse, a seconda delle categorie, dei contratti, delle specifiche condizioni. Determinando talvolta frizioni e competizioni tra i diversi settori, al di là di ogni retorica su inclusione e confederalità.
Una divisione di pratiche e modelli che ha interessato anche i sindacati di base. Lo sviluppo di pratiche neocorporative e concertative, dalla svolta dell’EUR in poi, hanno infatti favorito la nascita di un sindacalismo classista e radicale, che pur interessando solo una parte limitata del mondo del lavoro (intorno ai 150mila iscritti nel suo complesso) ha sviluppato un radicamento ed un influenza di massa in diversi settori (dai trasporti ad alcuni comparti pubblici, dalla logistica ad alcune singole realtà aziendali), oltre che un ruolo rilevante in alcuni conflitti o momenti storici (dalla scuola ai precari pubblici, dalle ferrovie al bracciantato migrante). Nel corso del tempo si è tentato più volte processi di unità d’azione e anche di avviare percorsi di unificazione od integrazione, al di là delle diverse appartenenze. Nell’ultimo decennio, si sono sviluppati con sempre maggior evidenza percorsi divergenti: dalla rivendicazione di USB di non esser più un sindacato di base (con la firma del 10 gennaio ed il tentativo di raggiungere la maggior rappresentatività ovunque possibile) al modello SiCobas di costruzione di un sindacato-partito su una particolare composizione di classe; dall’impianto categoriale della CUB alla centralità delle singole esperienze di lotta di molti Cobas. Divergenze che negli ultimi anni hanno reso sempre più complesso praticare fronti comuni, convergenze di lotta o condurre anche solo iniziative comuni (se non parzialmente, episodicamente e, in ogni caso, sempre con dinamiche anche molto conflittuali).
Davanti a questa frammentazione del mondo del lavoro e delle prassi sindacali, le confederazioni hanno reagito in questi ultimi anni con una centralizzazione verticistica della contrattazione. Sul lato del pubblico impiego, il riavvio della contrattazione dopo il lungo blocco è partito da un’intesa (quella di Palazzo Vidoni del 30 novembre) che ha accuratamente delimitato sia gli aumenti salariali (gli 85 euro) sia la parte normativa (accettando nella sostanza l’impianto dei decreti Madia). I rinnovi contrattuali nei diversi comparti si sono quindi svolti nel giro di poche settimane, se non di pochi giorni, senza nessun possibile coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici (non solo in un’eventuale mobilitazione, ma anche nella definizione della piattaforma). Un percorso che rischia di esser replicato nel prossimo rinnovo (quando e se ci sarà). Sul lato privato, l’accordo quadro del febbraio 2018 ha ingabbiato la struttura salariale, prevedendo da una parte che il TEM (trattamento economico minimo) sia strettamente legato all’andamento dell’inflazione (indice IPCA), mentre nel TEC (trattamento economico complessivo) sono ricompresi trattamenti salariali non monetari (welfare aziendale) e gli aumenti nei contratti di secondo livello devono concentrarsi su trattamenti variabili e possibilmente prestazionali (a livello individuale, di squadra o ufficio, di ente o stabilimento). Cioè, nel quadro di una divergenza contrattuale che non mette limite ai peggioramenti (dalle deroghe ai salari di ingresso), viene però strettamente tenuta sotto controllo la possibilità di conquistare aumenti o uscire da una struttura salariale in cui devono sempre più pesare le componenti variabili (e quindi l’insicurezza degli stipendi nominali).
Questo nuova proposta di unità si intreccia quindi con le concrete prassi di questi anni, come è anche richiamato dal documento congressuale della CGIL: il Testo unico del 2014 e la Carta dei Diritti, la centralizzazione che ingabbia la contrattazione come il recente appello CGIL CISL UIL e confindustria in relazione alle prossime elezioni continentali (Manifesto per l’Europa). Di tutti questi passaggi, dei loro contenuti e delle loro strategie, si è parlato poco fuori dal sindacato. Però nella lunga depressione italiana, nella crisi mondiale irrisolta, il filo che unisce questi percorsi è quello della centralità delle organizzazioni (non della partecipazione di lavoratori e lavoratrici), della divisione rivendicativa (dal welfare aziendale agli aumenti accessori e variabili, quindi solo per alcuni), del compromesso con il padronato (specifico, come con gli accordi quadro, e generale, come nel Manifesto per l’Europa). Un’unità cioè sempre più segnata da un’interpretazione del sindacato come organizzazione sussidiaria della produzione, in grado cioè di contribuire al suo successo attraverso una gestione ottimale del fattore lavoro. Un sindacato, cioè, della forza-lavoro più che dei lavoratori e delle lavoratrici in carne ed ossa. Una prassi ed un’idea sindacale che si è diffusa proprio non solo in FCA e non solo in FIM: dagli enti bilaterali al sostegno dell’occupabilità (vedi ultimo accordo quadro con Confindustria). In questo quadro, allora, per la costruzione dell’unità sindacale non solo sembra mancare la spinta partecipativa dal basso, non solo non si sta sviluppando un’azione rivendicativa ricompositiva, ma proprio in questi anni si sono sviluppate nei sindacati confederali prassi e concezioni verticistiche, che subordino il sindacato generale ad altri interessi (quelli dell’impresa) e che tendono anche a frantumare l’iniziativa sindacale e del lavoro impresa per impresa, settore per settore, categoria per categoria.
Ecco, oggi l’unità sindacale ha allora questo sapore: quello dell’astrattezza dai processi reali, della frammentazione del lavoro, della centralizzazione verticistica, della risposta burocratica. Questo sindacato confederale indebolito, diviso nelle sue prassi e nei suoi percorsi (non solo tra confederazioni, ma nelle confederazioni tra funzioni, categorie e territori), negli ultimi anni si è per di più trovato di fronte a governi che hanno teorizzato e praticato le vie della disintermediazione. Da Renzi all’esecutivo giallobruno. Davanti a processi di autoritarismo e bonapartismo politico, è cresciuta allora la tentazione di far pesare su governo e controparti la forza degli apparati congiunti, dei milioni di iscritti all’insieme delle confederazioni. La tentazione di una risposta verticistica, per pesare nel palazzo più che nel paese.
Nella CGIL poi, si aggiunge forse un’altra tentazione. La storia della CGIL è profondamente intrecciata a quella del movimento operaio novecentesco, alla sua impostazione classista e socialista. Dal 1912 all’avvento del fascismo, è stata legata ad patto d’azione pubblico con il Partito socialista e la Lega delle cooperative. Nel 1944, fu ricostituita per un patto politico nel quadro del CLN e, dopo le scissioni del 1948-49, legata strettamente ai cosiddetti partiti del movimento operaio sino ai primi anni novanta (PCI, PSI e terza componente, poi Democrazia consiliare legata a DP). Un legame politica e ideale con la sinistra e con quella concezione del movimento operaio, con un’aspirazione di fondo per quanto generica non solo alla difesa del lavoro ma anche alla trasformazione sociale, che la sua riconfigurazione programmatica nei primi anni novanta non ha sciolto. Oggi, in pratica, si trova ad esser l’unica organizzazione di massa della sinistra, però senza alcun solido riferimento politico. Il PD, con la segreteria Renzi, ha definitivamente rescisso ogni legame con questa radice: non è stato solo un contrasto diretto con un gruppo dirigente sindacale, è stata una rottura sociale e di massa di un rapporto storico (progressivamente indebolito negli anni ma che era ancora esistente). Negli anni novanta, in CGIL ci si poneva di fronte il problema di una crescita in alcune aree di un consenso alla Lega Nord anche tra i suoi iscritti: riaffermando l’indipendenza tra sindacato e politica, la confederazione si è comunque impegnata in prima persona contro l’ipotesi scissionista e le derive razziste di quel partito politico (contrastando e schiacciando in breve tempo sia la proposta organizzativa del sindacato padano, il SINPA, sia processi di divisione etnica o regionale nei processi e nei conflitti di lavoro). Negli ultimi anni, Lega e 5 Stelle hanno conquistato l’egemonia nelle classi subalterne del nostro paese, un consenso ampio e diffuso anche nella classe operaia centrale, quella più organizzata e cosciente. Si è diluita l’identità, l’organizzazione e la coscienza politica del lavoro. Allora, di fronte alla marginalità di una sinistra politica che raccoglie pochi punti percentuali ad ogni elezione, la CGIL subisce inevitabilmente la tentazione ad aprire una stagione diversa. Oggi la CGIL fatica a prender posizioni inequivocabili contro la regionalizzazione, come a sviluppare un’azione determinata e di massa contro le politiche razziste del governo (a partire dalla chiusura dei porti). In altre stagioni, infatti, proprio questo nucleo identitario, legato ad una rappresentanza generale del lavoro (della classe) e non solo degli iscritti, legato al protagonismo ed alla forza della classe operaia organizzata, legato alla consapevolezza di un irriducibile conflitto tra lavoro e capitale, legato alla prospettiva di un ruolo politico generale del lavoro nella trasformazione di questo modo di produzione, ha rappresentato un freno al prevalere di tendenze burocratiche. E quindi un discorso sull’unità sindacale organica con CISL e UIL, con quel sapore prima ricordato, riesce più facilmente a dispiegarsi.
In questo quadro, però, non stiamo forse parlando di un effettivo processo costituente, di una reale unità sindacale. Stiamo solo parlando di una “rappresentazione dell’unità sindacale” magari poi mimata in qualche appuntamento, in qualche conferenza, in qualche vertice burocratico. Come i direttivi unitari CGIL CISL e UIL a Matera, a metà fra un convegno ed un comizio su Europa e Cultura, con una lezione di Prodi e qualche intervento colto, senza alcun rapporto reale con l’iniziativa sindacale. Non un concreto processo politico ed organizzativo nel paese e nel lavoro, ma solo un’unità di vertice, attraverso cui provare a pesare nel e sul Palazzo o attraverso cui provare a rivedere e rettificare progressivamente un’identità storica oggi forse troppo pesante. Un passaggio per rinsaldare l’unità d’azione e contrattuale tra CGIL CISL e UIL, ma senza entrare nella frantumazione e nell’arretramento del lavoro, anzi in qualche modo consolidando proprio attraverso questa azione unitaria (come le ultime vicende nel comparto istruzione e ricerca dimostrano). In fin dei conti, come spesso avviene in questi tempi confusi, un processo costituente mediatico ed ideale che, non essendo sorrette da processi reali e scontrandosi con le inevitabili resistenze burocratiche, rimarrà probabilmente sospeso a lungo nel nulla.
In conclusione, il problema oggi non è quello di avviare questa o quella costituente, questa o quella unità organizzativa tra i diversi sindacati. Perché la forma di qualunque costituente sindacale, oggi, non può esser che quella verticistica ed astratta dell’ingabbiamento delle lotte, del controllo o della sovra determinazione (burocratica o politica) dell’autonomia della classe. Il problema oggi è in primo luogo quello di ricostruire una conflittualità diffusa, la partecipazione di lavoratori e lavoratrici, il loro protagonismo e la loro organizzazione. Cioè in primo luogo da ricostruire non c’è l’unità dei sindacati, ma l’unità del lavoro, delle sue lotte e delle sue vertenze. Al contrario di quello che concretamente stanno facendo CGIL CISL e UIL, che nelle pratiche contrattuali e in quelle vertenziali pongono al centro di ogni processo il protagonismo e il consenso delle strutture e degli apparati sindacali, la necessità oggi è quella di sperimentare, ricostruire, ridar senso e forza alle strutture dei lavoratori e delle lavoratrici. Ridare non solo la parola, ma la gestione delle vertenze e la decisione sugli accordi a comitati di lotta e coordinamenti di delegati. In queste realtà, sviluppando convergenze nelle lotte e nelle pratiche sindacali. Un processo costituente che, proprio perché rivolto ad un recupero degli interessi del lavoro ed a pratiche democratiche e partecipative, inevitabilmente dovrà far proprio da una parte l’aspirazione all’unità del lavoro, ma dall’altra anche ad uno spirito di scissione con ogni logica di semplice sussidiarietà alla produzione, contro ogni particolarismo professionale, contro ogni divisione settoriale. Sindacato del lavoro e non della forza lavoro.
Luca Scacchi
(Direttivo nazionale CGIL)
Rispondi