L’autunno immobile. È ora di (s)muovere il lavoro.

Considerazioni su una stagione, i suoi rischi, i nostri compiti. Di Luca Scacchi (Direttivo nazionale CGIL).

In queste settimane si sta concludendo il lungo percorso congressuale della CGIL. Praticamente per un anno il maggior sindacato del paese, l’unica organizzazione di massa rimasta nella sinistra politica e sociale, si è concentrata a discutere di linee sindacali e soprattutto organigrammi. Negli ultimi mesi, dopo la chiusura ai primi di ottobre delle assemblee di base, questo ripiegamento sembra esser diventata la cifra dominante del congresso.
Da una parte, la vexata quaestio della candidatura a prossimo segretario generale. Vexata quaestio, in latino significa letteralmente “questione tormentata”: è un modo di dire per sottolineare che la questione è conosciuta e ampiamente discussa. Oramai infatti, ne parlano tutti/e. Ce la farà Landini a succedere alla Camusso? La domanda racchiude oramai senso e cronaca di questo lungo congresso, dopo l’esplicitazione della candidatura da parte della segreteria generale (con quella particolare e lunga relazione), il contrastato Direttivo del 27 ottobre, le battute e le liti sui social, il discorso di Milano, le prese di posizione dai palchi dei congressi.
Dall’altra, anche alla luce di questa divisione pubblica ed urlata, l’ostentazione dell’ampia unità politica della maggioranza. La discussione politica, le eventuali crepe, qualche tensione e qualche inciampo, tutto è occultato dietro le quinte e cancellato dai comunicati stampa. Così, i riferimenti significativi, se non i tormentoni, che sino a quest’estate dominavano molti interventi per declinare in un senso o nell’altro la linea (e che in qualche modo davano forma e senso alle diverse candidature) sono ora il tessuto connettivo di tutti: la parabola dell’“unità organica con CISL e UIL” nel dibattito da marzo ad oggi è paradigmatica e, per molti versi, paradossale. Sui palchi ci si stringe tutti sorridenti, compatti e felici, a salutare congressi conclusi e segretari rieletti (mettendo tra parentesi qualche riunione un po’ troppo protratta nella notte e qualche incrinatura su questo o quel segretario).
Tutto questo, in ogni caso, nelle foto, nei video e nelle cronache sembra esser diventato il congresso CGIL.

Tutto questo sembra molto lontano dal clima del paese. Le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte. Non è però la rabbia contro le morali bigotte, l’autorità, i padroni, lo sfruttamento ed il sistema di cui ci cantava Guccini qualche decennio fa. È la paura e l’insicurezza di una società impoverita, disillusa e scomposta: una moltitudine di solitudini, colpite da una lunga crisi da cui non c’è uscita, dalle divisioni e gli arretramenti del lavoro, della sua forza e della sua coscienza. Così, da una parte, è una rabbia sorda, che si scarica contro tutto ciò che è diverso e debole (profughi e migranti, zingari e ladri). Cioè contro un capro espiatorio saliente (identificabile) e su si può vincere facile (almeno una volta): sdoganando, nella nostra quotidianità, discriminazioni, violenze ed aggressioni. Così, dall’altra, è una solitudine che si affida alla promessa di una nuova solidarietà ed una nuova comunità, ai nuovi uomini forti e le loro illusioni: movimenti reazionari trovano cioè la strada di consolidare il consenso delle classi subalterne di questo paese. Questa è in fondo la cifra di questi mesi, dal ponte di Genova a quota 100, dalle tensioni europee sul 2,4% all’ipotesi di reddito di cittadinanza, dalle elezioni amministrative ai selfie di Salvini.
In realtà, tutto questo a me pare molto lontano anche solo dal clima delle assemblee congressuali nei luoghi di lavoro e nelle Leghe dei pensionati. Diversamente dai congressi regionali e da quelli di categoria, infatti, non sono stati momenti sorridenti, convinti e compatti. I dati ci dicono che rispetto al 2014 hanno votato 300mila iscritti in meno (circa un quinto di quelli che allora si erano espressi). Già questo, per chi conosce la CGIL e le sue mirabolanti consultazioni, è un dato che fa riflettere. Per non parlare del sentimento e la dinamica di quelle assemblee. Io le ho viste spesso mute, disilluse e disorientate: ho sentito la fatica di vivere e la difficoltà di ascoltare. Nelle grandi fabbriche come nelle scuole, nelle piccole imprese come nel retro dei grandi magazzini. Ho sentito la stessa rabbia sorda e la stessa paura che si incontra per le strade. In più di un’assemblea, soprattutto in quelle piccole dove è più facile che qualche lavoratore e lavoratrice prenda la parola, mi è capitato talvolta di sentire difendere il governo e le sue politiche (anche da parte di iscritti CGIL): “lasciateli lavorare”, “vediamo quello che fanno”, “certo, i profughi sono poveri cristi come noi, però in qualche modo si deve affrontare la situazione, finalmente qualcuno ci sta provando”…

Questo clima non è senza effetti. Questo clima, se non è contrastato, costruisce coscienze. Soprattutto, in questo clima avanza una gestione reazionaria della crisi.
Questo governo reazionario sta smantellando il sistema sociale del paese. Non solo sta portando avanti politiche xenofobe ed escludenti, persino nella scuola (da Monfalcone a Lodi), provando a ribaltare quell’impostazione universale e inclusiva che caratterizza il sistema formativo da diversi decenni (in particolare per quanto riguarda i livelli di base dell’istruzione, nei quali non a caso vengono infatti attenuate le divergenze di classe). Soprattutto, questo governo ha delineato ed avviato i processi di autonomia rafforzata delle Regioni: a braccetto con il centrosinistra di Emilia, Marche e Toscana, riprendendo la spinta dei referendum di Veneto e Lombardia, sta impostando un nuovo sistema di welfare, nel quale i diritti sociali sono strutturalmente subordinate alle disponibilità delle risorse e conseguentemente diversificati nei territori di questo paese.
Questo governo reazionario sta giocando da mesi sui dettagli della quota cento. Quello che è comunque certo è che vuole tenere in piedi i cardini della Fornero, di quel sistema pensionistico regressivo che è stato imposto a questo paese negli ultimi venticinque anni: l’età pensionabile sarà sempre legata alla speranza di vita con meccanismi automatici di rivalutazione; il limite “normale” degli attuali 67 anni per il pensionamento di uomini e donne non sarà infranto; il calcolo contributivo per la determinazione delle pensioni rimarrà inalterato. Saranno solo introdotte finestre, più o meno una tantum, per pensionamenti anticipati, pagati come con l’APE a caro prezzo da lavoratori e lavoratrici (ben oltre il 15% del proprio assegno mensile).
Questo governo reazionario sta costruendo un infame reddito di cittadinanza. La precarietà prolungata e strutturale, portata in Italia con il pacchetto Treu, ha reso sempre più urgente un reale sistema universale di difesa dalla disoccupazione. Da anni è al centro di molte mobilitazioni (da Sanprecario a uniticontrolacrisi). La proposta di questo governo è infame, perché ne riprende rivendicazioni e aspettative, per fare qualcosa di diverso. Il problema non è il quantum (750 euro o come probabile meno) o le condizioni (ISEE e proprietà). Il problema è si vuole costruire un sistema esplicitamente ispirato a quello inglese della Thatcher o tedesco dell’Harz IV: il cosiddetto RdC, infatti, non sarà solo subordinato all’accettazione di un qualunque lavoro, ma ci saranno controllori per verificare attitudini e comportamenti. Cioè sarà un sistema in realtà finalizzato a disciplinare le persone e inserirle in un mercato del lavoro di piccoli impieghi e bassi stipendi (i lavoretti).
Questo governo reazionario sta proseguendo una politica di sostegno ai padroni. Le proposte fiscali sostengono infatti una parte sola, la solita. Le entrate tributarie in Italia sono nell’ordine dei 500 miliardi di euro annui: quelle da capitale sono ridotte (IRES e IRAP, 35 e 23 miliardi); l’IVA (indiretta) conta per 120 miliardi; le accise per 25 miliardi; Imu/Tasi per 17 miliardi; 210 miliardi sono invece Irpef. L’Irpef cioè incide per quasi 3/4 delle imposte dirette e poco più di 1/3 di tutte le entrate. L’80% è versato da lavoro dipendente e pensionati. Non solo. Dal 2008 ad oggi, le entrate dai cittadini sono aumentate (Irpef +0,9%; Irpef locale +40%, Imu/Tasi +91%, accise +15%), quelle sul capitale sono diminuite (IRES -35%, IRAP -44%, rendite finanziarie -36%). Mentre non è previsto nessun intervento su lavoro e pensioni, si interviene ancora su partite IVA, piccole imprese e Ires (dal 24% al 15%). A cui si aggiunge l’ennesimo condono.
Questo governo reazionario non ha nessuna intenzione di rinnovare i contratti del pubblico impiego. Dopo più di dieci anni di blocco, imposto dalle politiche d’austerità, l’anno scorso finalmente i lavoratori e le lavoratrici della pubblica amministrazione hanno visto ripartire i loro contratti ed i loro stipendi. Però dopo aver perso centinaia di migliaia di posti di lavoro e quasi 300 euro al mese (solo di potere d’acquisto), hanno avuto da Renzi e compagnia aumenti intorno agli 85 euro lordi. I contratti, per di più, appena firmati sono già scaduti. Per il nuovo triennio (2019-2021) ci sono risorse solo per 14 euro al mese, mentre si prevede di inasprire i controlli e comandi sulla prestazione di lavoro. Un impianto contrattuale di bassi salari e potere delle direzioni che rischia di allargarsi a tutto il mondo del lavoro.
Nel frattempo, in tutti i posti di lavoro, sono colpiti salari e diritti. Si sta infatti tentando di implementare contratti, accordi e ristrutturazioni che rendono i salari sempre più legati alla presenza ed alla prestazione, il processo di lavoro sempre più monitorato, i ritmi dello sfruttamento sempre più intensi. Dalla digitalizzazione di industria 4.0 alla generalizzazione del welfare e degli incentivi fiscali legati al salario variabile, si intensifica cioè lo sfruttamento del lavoro.

Eppure, per molti mesi, la CGIL è stata immobile. Non uno sciopero (generale o di settore). Non una campagna. Non una mobilitazione dispiegata nei posti di lavoro, nelle strade e nelle piazze. Neanche su quelle questioni, o su quei settori, su cui è stata storicamente più attenta (dalle politiche fiscali al pubblico impiego). Questa immobilità non è dovuta solo al percorso congressuale. Non è solo dovuta al ripiegamento sulle sue vicende interne (a partire dalla vexata quaestio sul segretario generale).
La CGIL infatti è da tempo inconcludente, ma ora è anche stupefatta. La linea sindacale della CGIL è dall’inizio di questa lunga crisi inconcludente, perché ha provato ripetutamente e senza speranza a contrattare con governo e padronato la gestione della crisi. Proprio la profondità della crisi, e la debolezza del lavoro in questa lunga stagione, rende infatti difficile questo grande accordo. Da dieci anni assistiamo alla ripetuta ridefinizione di trincee (contrattuali, salariali e sui diritti), che vengono quindi abbandonate in una ritirata senza prospettiva. Ora però la linea della CGIL è anche stupefatta. Davanti al crollo della sinistra, davanti alla perdita di un qualunque riferimento stabile e consistente nel governo e nel Parlamento, si è ritrovata anche con un’egemonia reazionaria sulle classi subalterne. Ed allora, si sottrae ad ogni prova di forza. Evita che milioni di lavoratori e lavoratrici misurino contraddizioni e contrasti tra il loro orientamento politico e i propri interessi di classe, per evitare il rischio di soccombere.
Innescare una mobilitazione sociale dispiegata, magari in stile francese e non la semplice passeggiata a cui siamo ultimamente  abituati, avrebbe cioè due rischi diversi ma entrambi strategicamente insostenibili: da una parte, il rischio di fallire (e quindi logorare quel ruolo che invece si spera in qualche modo di mantenere); dall’altra il rischio di riuscire, cioè di innescare una dinamica di contestazione su salari e diritti che rischia di mettere in discussione ogni possibile accordo strategico con il padronato (il rischio cioè di travolgere, nelle piazze, ogni accordo quadro con Confindustria).
Non solo. Quando finalmente ha deciso di muoversi, proprio per questo ha evitato un confronto reale con il mondo del lavoro. Alla fine, cioè, davanti all’approssimarsi di una pesante legge di Bilancio, la CGIL ha dovuto fare una mossa. Ha fatto quella sbagliata. Per provare a stare in campo nel confronto con il governo, ha costruito un’iniziativa unitaria con CGIL CISL UIL. Il problema di questa mossa non è tanto nel merito: una piattaforma di compromesso tra capitale e lavoro, che chiede un intervento keynesiano e di redistribuzione sociale, ad un governo ed in una stagione politica che sono dominate da altre dinamiche. Il problema principale è che questa iniziativa unitaria la si è costruita solo ed esclusivamente su attivi territoriali di delegati e dirigenti sindacali. Si è cioè costruito un’iniziativa per parlare solo agli attivisti sindacali. Si è cioè voluto costruire un’iniziativa il cui scopo principale non era parlare al lavoro ed al paese, ma semplicemente affermare l’unità d’azione con le altre organizzazioni. Un’iniziativa utile al dibattito congressuale (l’ostentazione dell’unità interna) e a far pesare sui tavoli col governo i milioni di iscritti di un fronte sindacale compatto. Fuori però dai posti di lavoro, dal dialogo con i lavoratori e le lavoratrici, dalla loro attenzione e persino dalla loro testa. Insomma, si è voluto costruire un’unità astratta e burocratica, senza anima. Senza l’anima del lavoro.
Questo immobilità inconcludente e stupefatta, questa unità sindacale astratta e burocratica, sarà pagata a caro prezzo. Evitando di parlare con il mondo del lavoro, evitando di (s)muovere milioni di lavoratori e lavoratrici, di contrastare orientamenti e senso comune, di indirizzare speranze e aspettative intorno agli interessi del lavoro invece che agli immaginari comunitari promossi dai movimenti reazionari, si accompagna la deriva in corso. Rischiando di moltiplicare passività, involuzioni e disorientamenti.

In questi mesi infatti c’è stata anche una resistenza, talvolta carsica e talvolta emergente. Pensiamo alle tante piazze e cortei contro il razzismo e le discriminazioni. Pensiamo alla manifestazione nazionale del 10 novembre, contro Salvini ed il decreto sicurezza. Pensiamo ai cortei degli studenti a ottobre e novembre, o alle più recenti mobilitazioni dei precari determinati nelle università. Pensiamo al corteo notav dell’8 dicembre a Torino. La CGIL, però, non è stata in praticamente nessuna di queste piazze.
Quello che servirebbe, in ogni caso, è sostenere, allargare, generalizzare questa resistenza. Soprattutto, servirebbe radicarla nel lavoro. La CGIL, proprio perché ancora un’organizzazione di massa e radicata in tanti posti di lavoro, dovrebbe avere il coraggio e la determinazione di avviare una politica di contrasto di massa a questa deriva in corso. Mobilitare il lavoro, tutto il lavoro, in difesa dei suoi interessi e dei suoi diritti.
Per far questo, serve mettere in discussione provvedimenti ed iniziative del governo, mostrarne contenuti e pericoli, contestarne il profilo sociale e le conseguenze di classe. Sarebbe cioè necessario sviluppare contro queste politiche una reazione ed una protesta. Sarebbe cioè necessario, in questa protesta, raccogliere le diverse rivendicazioni ed i diversi interessi della moltitudine del lavoro, ricomponendoli in una piattaforma rivendicativa generale.  Non serve cioè un’astratta politica di governo del paese, costruita o meno con le altre organizzazioni sindacali, ma una piattaforma generale di ricomposizione degli interessi del lavoro, in una fase di lunga e drammatica crisi capitalistica.
Servirebbe discuterne nelle aziende, negli uffici, nelle fabbriche, con tutti i lavoratori e lavoratrici. costruendo una piattaforma di difesa dei salari, dei diritti, delle condizioni di lavoro. E tornando ad animare le piazze per difenderli. Come diciamo nel nostro documento congressuale, infatti, con la crisi, e ancora più vero che ogni conquista e il prodotto di lotte di massa in grado di rimettere in discussione un sistema basato sullo sfruttamento capitalistico. Da una parte e allora necessario ricostruire una resistenza nei luoghi del lavoro, sostenere l’autorganizzazione, la democrazia consiliare, la formazione di comitati di lotta, assemblee e coordinamenti nella costruzione delle piattaforme e degli scioperi. Dall’altra ė necessaria una conflittualità diffusa, in grado di riprendere il controllo sull’organizzazione del lavoro (salario, orario, diritti e tutele) e, al tempo stesso, di costruire una vertenza generale per ricomporre le lotte.

Altro che discutere del prossimo segretario generale, in forma più o meno incomprensibile, in cui non si capisce nemmeno se in gioco c’è solo un nome o anche un modello ed una linea sindacale (perché a parole, tutti sembrano dire la stessa cosa). Anche perché, chiunque sia, questi mesi peseranno su di lui come un macigno. Non solo i mesi dell’immobilismo stupefatto, ma anche quelli dell’unità astratta con le altre organizzazioni sindacali.

Per questo penso, che al di là del nostro piccolo risultato, il nostro impegno e la nostra prospettiva non debba terminare con il congresso. Ricostruire un protagonismo ed un conflitto sociale del lavoro non sarà facile. Non solo per le inconcludenze e le paralisi di questa linea sindacale. Ma anche perché questi anni e questi mesi, le sconfitte ed i silenzi, le assenze e i tentennamenti hanno scavato dei solchi profondi. Tornare a sviluppare il conflitto sociale, sostenere e accompagnare le resistenze nei processi di lavoro, contribuire a dargli una connessione, un’identità, una forza, non sarà un impegno breve e non sarà facile.
La CGIL, nonostante tutto, è ancora un’organizzazione di massa. E nonostante tutte le sue derive, le sue inconcludenze, le sue involuzione e le sue stupefazioni, è ancora un sindacato plurale e contraddittorio. Un sindacato generale in cui si intreccia contrattazione nei settori (categorie), azione generale sui diritti e la politica economica (concertativa, ma non solo), servizi (CAAF e patronati), pratiche assistenziali di carattere compartecipativo (enti bilaterali, fondi pensione e sanitari, ecc) e organizzazione dei pensionati. Un sindacato in cui è ancora presente una tensione tra la tendenza ad esser sindacato della forza lavoro ed esser sindacato dei lavoratori/delle lavoratrici. Anzi, proprio il dispiegarsi della crisi, l’egemonia reazionaria nelle classi subalterne, la sua inconcludenza e la sua stupefazione, rilanciano queste tensioni e contraddizioni. Sosterranno cioè nel futuro tendenze e spinte diverse, tra le categorie e nell’organizzazione: contrapposizioni, oscillazioni e strappi; con il rischio anche di strette, svolte e ambiguità, rapidi cambi di impostazione e collocazione. Come, certo, anche la possibilità, in tutto questo movimento contraddittorio, di una sostanziale protrarsi di questa immobilità.
In questo universo, nei suoi organismi dirigenti e nella sua discussione, ma soprattutto nelle concrete prassi sindacali (nelle RSU, nei luoghi di lavoro e nelle lotte), sarà allora importante una piccola e determinata componente classista. In grado di muoversi in direzione ostinata e contraria. Perché finalmente il sindacato torni ad esser un’altra cosa, e a fare il suo mestiere.

Luca Scacchi

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