Lavoro, sfruttamento e contrattazione nella crisi!
Il nostro punto di vista nella Conferenza di Programma CGIL.
La vera innovazione è tornare a essere un sindacato di classe.
Qui sotto da leggere e qui per esser scaricato in .pdf, il contributo del Sindacatoaltracosa-OpposizioneCgil per la Conferenza di programma della Cgil, Milano, 30 e 31 gennaio 2018.
1. Il lavoro sta cambiando. In peggio. In questi decenni il precariato si è diffuso sempre di più. Il pacchetto Treu (centrosinistra) e la legge Biagi (centrodestra) hanno moltiplicato le tipologie contrattuali. I governi tecnici e quelli Renzi-Gentiloni hanno ulteriormente ampliato l’insicurezza: dal Jobs act alla cancellazione delle causali, dai voucher ai PrestO. Così oggi più dell’80% dei nuovi contratti è a termine, anche di brevissima durata. Senza considerare le nuove forme iper-precarie (gestite da piattaforme digitali come Uber, Deliveroo o Fedora), che in altri paesi sono oramai considerati lavoro subordinato a tutti gli effetti. Il precariato si estende quindi per tutto il corso della vita e in tutti i settori. Quelli tradizionali quanto quelli innovativi, quelli manifatturieri tanto quelli dei servizi, nelle piccole imprese tanto quanto nelle multinazionali. Dalla logistica alle campagne, dal turismo alla grande distribuzione, dalle scuole agli ospedali, dalle fabbriche ad Amazon.
Insieme al precariato, sono aumentate le disuguaglianze: tra italiani e migranti, giovani e anziani, nord e sud. Tra tutte, spicca quella di genere. Ancora oggi molte donne sono tenute ai margini del mercato del lavoro da discriminazioni occupazionali e salariali, oltre che da modelli sociali che, in assenza di servizi pubblici adeguati, rendono sempre più difficile la conciliazione del lavoro produttivo con quello riproduttivo, quasi sempre ancora tutto sulle loro spalle.
La forza lavoro in Italia però è di più di 25 milioni di uomini e donne (soprattutto, appunto, uomini). Di questi, circa 3 sono disoccupati, 5 indipendenti (di cui solo parte subordinati “atipici”), 3 a tempo determinato e quasi 15 a tempo indeterminato. Per tutti si modificano mansioni, orari e composizione del salario. Aumenta l’intensità delle attività, si dilata il tempo disponibile al lavoro (sabato, domenica e festivi compresi), diminuisce la quota fissa dello stipendio e si riducono i diritti. È aumentata la precarietà, quindi, ma è diventato più precario anche il contratto a tempo indeterminato. In sintesi, peggiorano le condizioni salariali e normative della classe lavoratrice e accanto alle vecchie forme di sfruttamento si affiancano le nuove, a volte ancora più pervasive.
2. In un tempo di crisi. Questi cambiamenti sono determinati dalla grande recessione in corso e dalle politiche imposte in questi decenni. Non è un semplice ciclo, ma una crisi di lungo periodo sostenuta da tendenze profonde: la caduta dei saggi di profitto e la sovrapproduzione di merci e capitali. Per conquistare nuovi margini di profitto, per distruggere l’eccesso accumulato, le classi dominanti hanno agito diverse controtendenze. Hanno gonfiato il sistema finanziario, per impiegare e poi far evaporare grandi quantità di capitale. Hanno tagliato il salario indiretto e quello sociale, colpendo con le politiche neoliberiste pensioni e welfare. Hanno ridislocato le produzioni, deindustrializzando le aree sindacalizzate e creando nuovi poli in territori a bassi salari. Hanno globalizzato i commerci e costruito aree monetarie per salvaguardare le proprie esportazioni. Hanno inserito nei processi di valorizzazione del capitale settori che erano esclusi dal mercato: non solo i servizi industriali (logistica, manutenzione, pulizia), ma anche quelli strutturali (acqua, luce, gas, autostrade, trasporti) e alla persona (divertimento, turismo, commercio); persino quelli pubblici (scuola, sanità, assistenza). Queste controtendenze hanno aumentato le contraddizioni. Nei paesi avanzati hanno ridotto la domanda aggregata, incentivando disoccupazione e povertà. Nei paesi in sviluppo hanno plasmato una nuova classe lavoratrice, che sta conquistando salario diretto, indiretto e sociale. Nelle periferie hanno distrutto i mercati locali, spingendo masse spossessate a migrare in altri paesi o in metropoli sconfinate (oggi più del 50% della popolazione è urbana). Senza impedire la crisi, hanno prodotto disastri ambientali e sociali, incentivando le disuguaglianze, lo sfruttamento e i conflitti. Grazie allo sviluppo ineguale e combinato (crescita asiatica), al mastodontico intervento delle banche centrali (FED, BCE, PBOC e BOJ) e all’espansione del debito (da 162mila mld di dollari nel 2007 a 233mila nel 2017, più del triplo del PIL mondiale), la sua gestione ha però permesso un fragile riavvio del ciclo, con una crescita moderata e bassissimi tassi di inflazione. Un ciclo destinato nuovamente ad implodere sotto il peso dei suoi evidenti disequilibri.
L’Europa è stata un epicentro di questa crisi. L’UE delle banche e dell’austerità ha determinato una generalizzata deflazione salariale e nel contempo una polarizzazione continentale: da una parte lo sviluppo industriale del nucleo mitteleuropeo (con uno dei maggiori surplus al mondo), dall’altra l’impoverimento produttivo delle periferie. L’Italia ha conosciuto una vera e propria depressione, più che due “semplici” recessioni (2009 e 2012), successiva ad una lunga fase di bassa crescita. Il PIL è caduto del 10% e la base produttiva si è ridotta del 20%. Chi ha pagato il prezzo è stato il lavoro. Si è impennata la disoccupazione, soprattutto giovanile. In 20 anni sono crollati i dipendenti delle principali imprese: in Fiat da 240mila a 80mila, in Poste da 237mila a 144mila, in FS da 180mila a 66mila, in ENI da 127mila a 16mila, in Telecom da 125mila a 52mila, in Enel da 114mila a 33mila. Il capitale però si è riorganizzato. La crisi ha rilanciato le ristrutturazioni. L’Italia infatti rimane il secondo paese manifatturiero in Europa, con una notevole ripresa delle esportazioni. Si è scomposto il “salotto buono” (Agnelli, Ligresti, Pesenti, ecc.) e sono scomparse intere filiere (dall’Olivetti alla Montedison). Però altre sono diventate perno di multinazionali (da FCA a Luxottica) e altre ancora fanno parte di grandi gruppi (Pirelli in Chemchina, Terna in State Grid; Ansaldo STS in Hitachi) o sono state acquisite da fondi internazionali (a partire da Blackrock, oggi il principale protagonista alla Borsa di Milano). Dal crollo dei distretti sono poi emerse imprese leader continentali o mondiali nei propri settori (Mapei, Brembo, Lavazza, ecc).
3. Uso capitalistico dell’automazione. Con la crisi la fabbrica, la catena distributiva, il call center sono stati costretti a ripensare produzioni e servizi. Questi cambiamenti si stanno avvalendo dell’innovazione, in grado di integrare servizi commerciali, logistica e produzione. La loro digitalizzazione e automazione è oggi sostenuta da piattaforme istituzionali e politiche fiscali, fortemente incentivanti per le imprese, come Industria 4.0. L’innovazione non si è però concretizzata in una maggiore autodeterminazione del lavoro, ma in un’intensificazione dello sfruttamento. Le aziende infatti investono quasi a costo zero sulle nuove tecnologie, ma continuano a tagliare i salari, aumentare i ritmi, ridurre le pause e limitare i diritti. Pensiamo agli impianti FCA ed il WCM, alle isole di produzione in Brembo, alla produzione tracciabile dell’Avio Aereo, all’automazione del controllo di qualità in GKN, ai team Ducati, alla Spina Pirelli a Settimo, ai palmari dei picker in Amazon. O anche solo al monitoraggio del flusso produttivo in corso all’Electrolux, grazie a sensori lungo le tradizionali linee di montaggio. O ancora, alla digitalizzazione che ha ribaltato il processo lavorativo di alcuni uffici pubblici, come i centri unici di prenotazione, il catasto, le agenzie fiscali o le segreterie delle università. In alcune di queste realtà si smonta la rigidità delle mansioni, la ripetitività dei movimenti, il tradizionale comando gerarchico. L’automazione riduce la fatica e anche, in parte, l’isolamento. In tutte viene però comunque imposto uno nuovo sistema di controllo, più invasivo e opprimente. Il punto non è la macchina, ma il suo uso. In un processo di lavoro capitalista, ogni cambiamento è diretto a saturare macchine e uomini, a ottimizzare la produttività, a aumentare lo sfruttamento. Intensificando ritmi, controllo e stress. Anche se il lavoratore è più libero nel suo agire, anche se è inserito in una squadra e con interazioni polivalenti con il ciclo, il comando infatti è oggi integrato in un sistema di controllo che manda informazioni continue su cosa fare e quando farlo (dall’Alstom di Savigliano all’Amazon di Piacenza). Lavoratori e lavoratrici sono quindi spesso generici e persino temporanei (apprendono cosa fare dai tutorial), più cognitivi e formati ma nel contempo più dequalificati. La cifra dei cambiamenti è allora il controllo della prestazione, finalizzata all’estrazione del plusvalore assoluto (orario) e relativo (intensità del lavoro). Il conflitto tra capitale e lavoro si gioca infatti come sempre sul terreno del salario e dell’orario. Lo dice la realtà. Lo dicono i nostri contratti. Il salario, che il padrone vuole basso e soprattutto variabile: legato all’effettiva presenza e alle prestazioni (tema dei nuovi istituti stipendiali e dei premi di risultato, che devono esser sempre più legati alla produttività del singolo, della squadra, dello stabilimento). L’orario, che non solo deve essere il più lungo possibile (riducendo pause, assenze e festività, tagliando persino la pausa mensa come in FCA e Fincantieri), ma soprattutto deve essere a disposizione dell’impresa (sistemi multiperiodali, flessibilità e turni aggiuntivi secondo necessità del magazzino, fermate occasionali, variabilità della domanda). Invasivo e fuori dal controllo del lavoratore anche quando viene mascherato da maggiore autonomia (smartworking, flessibilità orarie e mancata definizione del diritto alla disconnessione).
Come in altre ristrutturazioni (ad esempio negli anni 50-60), serve allora ritessere un nostro punto di vista, un sapere operaio, una coscienza di classe. Serve cioè mantenere l’autonomia del lavoro dal capitale. Solo con questa autonomia si difendono, e si conquistano, diritti e si risponde ai bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici. Solo con un’autonomia di classe, infatti, si possono costruire forme di resistenza, rivendicazioni collettive e quindi cicli di lotta dispiegati.
4. Una stagione contrattuale sbagliata. Il ciclo di rinnovi 2015/17 ha evidenziato l’empasse della linea CGIL, che non ha fatto i conti con la crisi e le sue conseguenze. L’illusione di trovare un punto di mediazione tra capitale e lavoro in una fase depressiva, senza nemmeno conquistarlo nel conflitto, ha portato ad impostare uno scambio inconcludente, non coordinato e perdente. All’inizio della stagione, dopo l’imposizione del modello Marchionne e sotto il fuoco di Renzi e Confindustria, CGIL CISL UIL hanno definito linee contrattuali che hanno assunto nel secondo livello gli obiettivi padronali (produttività, competitività, efficienza, innovazione organizzativa), in cambio di un’ipotesi di “crescita dei salari – non solo riferita alla tutela del potere d’acquisto – che si rivolga alla generalità delle lavoratrici e dei lavoratori”, per il “rilancio della domanda interna e della produttività”. La realtà è stata completamente diversa. Ogni categoria ha individuato scambi e punti di caduta diversi. Gli aumenti, anche quelli relativamente più alti, sono stati tutti molti contenuti, ben al di sotto del rilancio della domanda o anche solo della tutela del potere d’acquisto: 100 euro ad alimentaristi (su 4 anni), assicurativi e autoferro; 90 euro a igiene ambientale (su 4 anni) e al chimico-farmaceutico (con 19 euro, però, come elemento della retribuzione ad esaurimento); 85 a bancari e commercio (che però hanno già visto sospese, o annullate, le ultime rate di 15 e 21 euro); 85 euro anche per i pubblici, che hanno perso nei 10 anni dall’ultimo rinnovo circa 300 euro mensili in potere d’acquisto; 76 euro a gomma-plastica; 70 euro ai tessili; 50 a TLC (con 10 euro, però, su un nuovo Elemento Retributivo Separato, che non concorre a TFR, tredicesima ed altri istituti indiretti). Il più basso, a oggi, quello dei metalmeccanici: sulla carta 50 euro nei tre anni e mezzo, probabilmente molto meno visto che l’inflazione rimane molto più bassa di quella attesa (nel 2017 l’aumento è stato di 1.7 euro lordi mensili, al V livello, a partire da giugno: così basso i metalmeccanici non lo avevano mai visto!). Molto diversi sono stati i meccanismi di calcolo: metalmeccanici e legno hanno usato l’indicizzazione ex post, con IPCA depurato dai costi energetici; tessili e chimici formule stringenti di recupero degli scostamenti tra IPCA atteso e realizzato (scioperando poi nella gomma-plastica e trasformandoli nella farmaceutica in Edr ad esaurimento); assicurazioni, carta e ceramica e ferrovie non hanno previsto il recupero degli scostamenti; commercio e artigianato hanno sostituito l’IPCA con un generico riferimento a dinamiche macroeconomiche e settoriali. Non solo. Alcuni (chimici e gas) hanno eliminato l’anzianità, con una riduzione della dinamica retributiva futura (Bankitalia, 2017). Per rendere più digeribili i bassi importi, diversi contratti, a partire dai metalmeccanici, hanno incluso welfare contrattuale e persino “flexible benefits” (buoni spesa dal supermercato alla benzina, fino a palestre e centri estetici). Invece che contestare la completa detassazione di questi istitituti, si è scelto di sdoganarli nella contrattazione aziendale, dove sempre più imprese propongono di sostituirli ai premi già contrattati. Si è così aperta la strada a uno strumento che contribuisce allo smantellamento del welfare pubblico, snatura la contrattazione e taglia anche i contributi, producendo quindi anche un ulteriore danno sulle pensioni. Chi ci guadagna sono i padroni: risparmiano salario, nascondono i bassissimi aumenti sui minimi e fidelizzano i dipendenti, anche indirizzandone il consumo. Senza considerare la creazione di un nuovo giro di affari per le società che gestiscono questi pacchetti, soprattutto grandi imprese, banche e assicurazioni.
Questi scarsi risultati salariali sono stati pagati a caro prezzo. Sono state ampliate le flessibilità orarie e organizzative, in molti casi indebolendo le RSU. Ormai ovunque è stata formalizzata la possibilità delle deroghe ai contratti nazionali, anche dove sino ad oggi si erano respinte (di fatto la Fiom, rinnovando il nuovo contratto, ha accettato i precedenti accordi separati di Fim e Uilm). In alcuni casi si è aumentato l’orario, direttamente (igiene ambientale, da 36 a 37 ore e 1/2) o indirettamente (chimici, con l’eliminazione del riposo di Pasqua; autoferro, con l’estensione del periodo di calcolo; tessili e assicurativi, con la monetizzazione). Sono state ridotte le flessibilità nella gestione di alcuni diritti (malattia nel terziario e legge 104 nei metalmeccanici). È stata ingabbiata la contrattazione aziendale: negli alimentaristi con la moratoria di un anno; nei tessili con la definizione di temi, tempi e procedure per gli accordi; negli elettrici e nel gas con la definizione ex-ante dei premi; nei metalmeccanici con la totale variabilità dei premi (basata su rendimento o prestazioni), altrimenti non sono cumulabili agli aumenti del CCNL (cd. assorbimento).
In molti contratti si è parlato di investimento sulla formazione. In realtà, molto poco è stato fatto, sia sulla formazione, sia sull’innovazione, sia su salute e sicurezza. Niente di fronte a quelle che sarebbero le esigenze di un mercato del lavoro e di una produzione in continuo cambiamento. Nel mentre, la “BuonaScuola” e l’introduzione della alternanza scuola-lavoro hanno spalancato la porta al lavoro gratuito, distogliendo studenti e studentesse dal loro percorso educativo e buttandoli in un mercato del lavoro usa e getta, dove di formazione se ne vede poca e comunque funzionale ai bisogni delle imprese: professionalizzazione e creazione del cosiddetto “capitale umano”.
Questa stagione segna quindi, dopo anni di rinnovi restitutivi, un’ulteriore arretramento sia sul piano salariale sia su quello organizzativo e delle condizioni di lavoro, cioè proprio su quello sul quale insistono maggiormente i cambiamenti in corso
5. Un modello di contrattazione “a trazione metalmeccanica”. Questa disarticolazione tra i contratti rischia di preparare il terreno ad un ulteriore sfondamento, come nella stagione 2006/2009 (in cui emersero nei diversi ccnl deroghe, triennalità, enti bilaterali, ecc). Confindustria vorrebbe infatti estendere il modello “metalmeccanico”: aumenti nazionali solo per recupero dell’inflazione ex-post; welfare e benefits; ingabbiamento della contrattazione aziendale; flessibilità oraria. Alcune aziende (vedi Engie) stanno persino cambiando ccnl, passando a quello metalmeccanico, per sfruttarne le condizioni di maggior favore. La FIOM negli ultimi venti anni ha spesso rappresentato un punto di riferimento per l’intera classe lavoratrice: pensiamo al principio della validazione referendaria degli accordi; al sostegno ai movimenti sociali (come a Genova 2001); allo sciopero dei 21 giorni di Melfi; agli accordi separati e la stagione dei precontratti; al contrasto a Marchionne nel 2010. Oggi, abbandonato il conflitto in FCA e firmato quel ccnl, la FIOM ha di fatto capitolato: il modello metalmeccanico ha finito per diventare il punto di riferimento del padronato. È il segno più evidente dell’involuzione dei rapporti di forza, del fallimento della linea Cgil e della stessa parabola della segreteria Landini. In questo quadro si rischia un punto di caduta: un accordo quadro che stabilisca un unico sistema per tutta l’industria. Come è avvenuto per il pubblico con l’accordo del 30 novembre 2016, emerge cioè l’ipotesi di stabilire a priori alcuni elementi della composizione salariale ed alcuni indirizzi sul secondo livello (a partire dal welfare e la produttività), centralizzando la linea contrattuale come avvenuto in altre stagioni della storia CGIL. Il padronato vorrebbe anche rilanciare il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, in cui si limita l’attività sindacale (liste e piattaforme), si controllano le RSU (decadenza), si istituisce l’esigibilità padronale (sanzioni) e la tutela sulle categorie (commissione arbitrale confederale).
6. Rivendicazioni per una Cgil indipendente, democratica, che lotta. Per noi la contrattazione e il sindacato sono un’altra cosa: la strategia contrattuale dovrebbe essere altra da una co-gestione della crisi con il padronato, dalla ricerca di competitività delle imprese e dallo sviluppo del sistema-paese. Dovrebbe invece difendere in primo luogo i bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, i salari, i diritti e le condizioni materiali di lavoro.
- Ccnl. Il contratto deve riconquistare il suo ruolo e coprire ogni rapporto di lavoro, aumentando il salario sui minimi tabellari e garantendo un sistema comune e inderogabile di diritti.
- Precarietà. Le forme atipiche devono esser ricondotte al contratto a tempo indeterminato, con l’abrogazione del Jobs act e di tutta la legislazione che ha consentito e incentivato il dilagare della precarietà.
- Salario. La contrattazione deve riconquistare aumenti significativi, a partire dalle componenti fisse e omogenee per tutt*. Gli aumenti devono quindi concentrarsi sul tabellare, rivendicando minimi intercategoriali, abrogando le attuali defiscalizzazioni (che incentivano le componenti variabili) e ridando valore a istituti omogenei, come quelli di progressione automatica (anzianità).
- Per affrontare la crisi, riassorbendo disoccupazione e sottoccupazione, bisogna ridistribuire l’orario di lavoro tra tutt*: ridurlo a chi ne ha troppo e aumentarlo a chi ne ha poco, a parità di salario. L’orario di lavoro deve poi essere definito, senza flessibilità e turni aggiuntivi obbligatori.
- Condizioni di lavoro e sicurezza. La condizione di lavoro deve tornare a essere il centro della contrattazione, difendendo il controllo sulla prestazione da parte dei lavoratori, i ritmi, le pause. Le condizioni di salute e di sicurezza devono essere centrali e non possono sottostare ad alcun compromesso. Devono esistere limiti certi all’utilizzo del lavoro nei giorni festivi.
- Welfare. Il sindacato deve tornare a difendere il sistema pubblico dei servizi sociali. La contrattazione del welfare privato non può e non deve essere un’alternativa.
- Democrazia. Le lavoratrici e i lavoratori devono avere il diritto di scegliere liberamente le proprie RSU e di votare tutte le piattaforme e gli accordi. Sempre, eccetto quando siano in discussione diritti indisponibili. Per questo va disdettato il TU del 10 gennaio e contrastato il principio per cui i diritti sindacali, o alcuni diritti aggiuntivi, spettano solo a chi firma gli accordi. Deve essere respinta ogni limitazione del diritto di sciopero e della libera iniziativa di lavoratori e lavoratrici. Il sindacato deve mantenere la sua autonomia contrattuale e finanziaria: per questo deve essere superata la logica degli Enti Bilaterali per la gestione di servizi.
- Formazione. L’alternanza scuola-lavoro non deve essere obbligatoria e va rifiutato un modello scolastico che, da un lato, consolida e diffonde la narrazione del padrone, cioè la finalizzazione della formazione all’occupazione, dall’altro crea forza lavoro gratuita, spesso senza alcun rispetto delle norme sulla salute e la sicurezza. Non si tratta di contrattare l’alternanza, ma di contrastarla e pretendere invece investimenti sulla formazione da parte delle aziende durante l’orario di lavoro, favorendo i percorsi lavorativi continuativi, piuttosto che la precarietà usa e getta.
7. Lotte interrotte e cadute referendarie. Per la ripresa di una conflittualità diffusa. La stagione contrattuale trascorsa è stata difficile e perdente anche, se non soprattutto, per il pesante arretramento nei rapporti di forza generali. I governi tecnici e quelli Renzi-Gentiloni hanno condotto un’offensiva permanente contro il lavoro: manovre e leggi di bilancio che hanno tagliato spesa pubblica e redistribuito risorse al padronato con defiscalizzazioni e bonus, la “Fornero”, il Jobs act, la “buonascuola”, la “Madia”, ecc. La CGIL ha sempre cercato in primo luogo l’intesa con governo e padronato. Quando è arrivata alla mobilitazione (quasi sempre a provvedimenti approvati), l’ha poi interrotta nel vuoto, senza indicazioni o spiegazioni. Drammatiche le 3 ore di sciopero sulla Fornero, la conclusione della lotta contro il Jobs act, l’assenza di scioperi sulla 107 dopo l’estate 2016. Sbagliata di nuovo la strategia di questo autunno, senza uno sciopero contro l’aumento automatico dell’età pensionabile e senza una vera mobilitazione che mettesse al centro uno dei principali bisogni di chi lavora: l’abrogazione della Legge Fornero. L’ennesima occasione mancata, per tenere in piedi un’unità sindacale con CISL e UIL del tutto inutile ai lavoratori e alle lavoratrici, per non forzare il rapporto con il Governo ai margini della prossima campagna elettorale.
La CGIL ha sostituito il conflitto sociale con i banchetti e i referendum. Anche questa strategia si è rivelata perdente. I referendum sono stati condotti astrattamente, senza collegamento con i conflitti nel paese e senza riunire in un unico fronte l’opposizione alle politiche renziane (come poteva esser fatto anche solo con i quesiti contro la “buonascuola”, che avrebbero potuto cambiare il quadro della primavera). Il risultato è stato che il governo ha dribblato l’ostacolo, senza nessuna conseguenza, prima sull’articolo 18 (non ammesso dalla Corte costituzionale), poi con i voucher (rientrati dalla finestra con decreto dopo la sospensione dei referendum).
Bisogna trarre un bilancio delle sconfitte. Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso: chi dice di lottare, ma poi non lo fa, riunisce due tragedie in un corpo solo. È ora di una svolta. È necessario riprendere il conflitto e condurlo con determinazione. Per ottenere l’abrogazione del Jobs act, (riconquistando l’articolo 18 e il divieto del controllo a distanza) e imporre una nuova politica economica (una ripresa degli investimenti e della spesa pubblica). Non solo. Per fermare le privatizzazioni e nazionalizzare le imprese in crisi (a cominciare dal settore dell’acciaio e del trasporto aereo), difendere previdenza e pensioni, riconquistare servizi pubblici e beni comuni.
8. Un sindacato di classe. Il mondo del lavoro e della produzione cambia, è vero. La contrattazione deve sapersi adeguare ai cambiamenti e il sindacato dovrebbe essere capace di anticiparli. Ma il cambiamento non può significare arretramento. La tecnologia intensifica lo sfruttamento, ma alla base c’è lo stesso rapporto sociale di prima: la contrapposizione tra capitale e lavoro. E anche a Milano, capitale italiana dell’innovazione tecnologica, gli operai continuano a morire soffocati in un pozzo, o schiacciati in un treno di pendolari, come dimostrano i recenti e drammatici fatti.
Noi pensiamo allora che ai lavoratori e alle lavoratrici serva una Cgil diversa da quella di questi anni. Serve un sindacato che ridefinisca i suoi obiettivi e le sue pratiche, capace di organizzare la lotta per ottenere risultati concreti. Per questo ci vogliono democrazia, partecipazione, conflitto. Per costruire il sindacato di domani, si devono prima di tutto recuperare le parole d’ordine di ieri. Le trasformazioni di questi decenni sono spesso servite ai padroni per alimentare le disuguaglianze all’interno della classe lavoratrice, far introiettare a lavoratori e lavoratrici il senso di sconfitta, l’illusione di una maggiore autonomia del lavoro o l’idea che la conquista di un proprio diritto passasse per la cancellazione di un “privilegio” per altri. Il sindacato deve contrastare queste tendenze e tornare a essere un sindacato di classe, rivendicativo e di lotta.
Per noi il sindacato deve esser generale (di tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici) e plurale (con pari dignità per tutte le posizioni e tutti i lavori). Capace di far decidere in primo luogo lavoratori e lavoratrici (libere elezioni delle rappresentanze e voto sulle piattaforme e le ipotesi di accordo). Capace di organizzare luoghi di discussione e rappresentanza autonoma e autodeterminata delle donne, per costruire una mobilitazione generale contro la violenza, le molestie e tutte le discriminazioni sui posti di lavoro. In grado di dare rappresentanza ai migranti all’interno dell’organizzazione e soprattutto rispondere ai loro bisogni, sui posti di lavoro e nella società, a partire dalla lotta contro razzismo e discriminazioni e per l’abrogazione della legge Bossi-Fini e dei precedenti pacchetti sicurezza. Capace di favorire il protagonismo, dando vita a comitati di lotta e consigli di delegati/e. Abbiamo bisogno di un sindacato meno burocratico, che dia più spazio e protagonismo ai delegati e alle delegate e che rompa con i palazzi del potere, delle istituzioni e della politica. Un sindacato profondamente democratico, un sindacato indipendente dai padroni e dai governi. Per noi il sindacato è un’altra cosa. Per questo siamo Opposizione in Cgil.
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