CCNL metal: una sconfitta oggettiva. Intervento all’attivo FIOM ER.
Intervento di Giovanni Iozzoli (RSU PFB Modena) al CD FIOM allargato dell'Emilia Romagna del 11/09/17
Pubblichiamo l’intervento del compagno Giovanni Iozzoli, dell’OpposizioneCgil, all’attivo Fiom dei delegati e delle delegate dell’Emilia Romagna, alla presenza della Re David. Intervento tra i più applauditi della riunione, se non quello più applaudito in assoluto.
Bene ha fatto la Fiom ER ha organizzare una riflessione sul futuro della contrattazione, in un livello di discussione larga che coinvolga i delegati. E quanto mai urgente è oggi questa discussione, con un contratto alle nostre spalle, dai contenuti assolutamente inediti e per certi versi estranei alla nostra storia; e con una stagione congressuale che si apre davanti a noi, in cui il tema della contrattazione dovrà avere un ruolo centrale.
Dico subito che io sono uno di quei compagni che ha votato contro l’impianto che è poi diventato il ccnl, per una somma di motivi che non voglio stare qui a ripetere. Un po’ perché questa è una platea informata, che conosce l’articolazione del dibattito e anche le sue asprezze, nei mesi scorsi; un po’ perché ribadire le criticità davanti al nostro gruppo dirigente mi sembra superfluo: Maurizio Landini e tutti gli altri compagni che hanno condiviso quella scelta, avevano piena consapevolezza degli strappi, delle lacerazioni, rispetto alla nostra storia che quella firma comportava. Gli importi irrisori schiacciati sull’indice IPCA, lo scambio tra quote di salario ed erogazioni di altro genere, il superamento del salario fisso nella contrattazione aziendale, l’accettazione dell’impianto del 2012, la sostanziale la rinuncia a tutto il nostro patrimonio di parole d’ordine e di elaborazione, ebbene di tutto questo sono sicuro, il gruppo dirigente è sempre stato pienamente consapevole, non c’era bisogno che arrivassimo noi a scoprire l’acqua calda.
C’è stata piuttosto una differenza di valutazione della condizioni politiche che hanno portato alla firma: per Landini e gli altri compagni quel contratto rappresentava evidentemente un’ultima spiaggia inevitabile, perché “non c’erano le condizioni per continuare a stare fuori, perché dovevamo rientrare nel gioco, perchè così altri quattro anni non reggiamo…”.
Dette così, sono valutazioni di buon senso, delle quali si potrebbe anche discutere. SE INVECE SI DICE CHE SIAMO DAVANTI A INNOVAZIONI CORAGGIOSE, allora no, non va bene, vuol dire che ce la stiamo raccontando. Perché una cosa è dire: non reggiamo più, siamo stati sostanzialmente isolati e sconfitti non ci resta che firmare; e una cosa è dire che siamo “coraggiosi innovatori e che abbiamo difeso e rafforzato il contratto nazionale”. Le due versioni non stanno insieme – e in questi mesi le abbiamo sentite entrambe…
Io credo invece che ci troviamo davanti a una sconfitta oggettiva delle nostre ragioni, ma credo anche che ai piani alti della Fiom non ci sia nessuno che abbia voglia di discuterne, perché in Italia come al solito, in politica e nel sindacato, la sconfitta è sempre senza padri. E così rischiamo di passare in cavalleria da un congresso all’altro: nel congresso del 2014 diciamo certe cose molto chiare sulla contrattazione – in mezzo si realizza uno scenario catastroficamente opposto alle nostre previsioni – e nel 2018 ripartiamo disinvoltamente con la nuova discussione congressuale, dando per acquisito questo colossale arretramento come se niente fosse successo. E dimostriamo non solo di svalorizzare il contratto nazionale, che è la nostra storia, ma anche di non prenderci sul serio nel dibattito congressuale, che in teoria dovrebbero essere il punto più alto della nostra elaborazione.
Se sconfitta c’è stata: a) qualcuno deve assumersene la paternità; b) bisogna parlarne per capire come e da dove ripartire. E sappiamo quanto è maledettamente difficile ragionare delle sconfitte. In tanti, infatti, ci dicono anche in buona fede: basta parlare di ciò che è stato firmato, “cosa fatta capo a”, i lavoratori hanno votato e buonanotte. Guardiamo avanti, ci si dice. Dobbiamo guardare avanti? Ma è proprio perchè guardiamo avanti – e siamo preoccupati da ciò che vediamo – che vogliamo continuare a tenere aperta la discussione sul contratto nazionale appena firmato. Per capirci: Bruno Papignani ha appena evocato un nostro ruolo di protagonismo e cogestione nei grandi processi di innovazione tecnologica che stanno venendo avanti nel settore; ma perché i padroni dovrebbero “cogestire” alcunché con noi, soprattutto costosissimi investimenti e processi di riorganizzazione del lavoro, se da anni abbiamo bagnato le polveri del conflitto e non facciamo più paura a nessuno? Cosa li dovrebbe indurre a condividere con noi il comando d’impresa? Dobbiamo guardare avanti? Allora parliamo del prossimo rinnovo, quando tra tre anni si riaprirà la partita. Ma noi pensiamo che nelle condizioni attuali – qualora fosse necessario mobilitarsi – troveremo qualcuno che è disposto a scioperare e lottare per difendere questo tipo di contrattazione? E’ molto difficile pensarlo, nel paese di area Ocse che più ha sofferto la compressione dei salari, negli ultimi vent’anni, nel paese in cui il basso salario è diventata emergenza di massa ( e anche qui non ci siamo mai assunti la nostra parte di responsabilità in questo massacro sociale che ha ridisegnato la società italiana). Tra l’altro noi , con questo tipo di contratti, recidiamo il rapporto tra contrattazione e salario, che è la cosa più antieducativa che possiamo fare per le giovani generazioni: la retribuzione agli occhi dei lavoratori diventa un mix fumoso di bonus, pseudo welfare, componenti variabili, quote individuali, in cui nessuno ha più ben chiaro cosa prende e in base a quali meccanismi; e l’istituto contratto collettivo nazionale, che è costato lacrime e sangue alle generazioni precedenti, diventa un dispositivo barocco, estraneo al sentire dei lavoratori comuni, che sarà impugnato più facilmente dai padroni che da noi. Questa io la chiamo una sconfitta e un arretramento. Definirla coraggiosa innovazione è profondamente sbagliato.
E’ chiaro che la Fiom con questo contratto ha, come dire, ulteriormente abbassato l’asticella del dibattito interno alla CGIL sul nuovo modello contrattuale; ed è altrettanto chiaro che il contratto di Federmeccanica sarà il riferimento rivendicato da tutte le organizzazioni datoriali. A onor del vero, bisogna dire che comunque in CGIL nessuno, in questi ultimi due anni, aveva mai lontanamente pensato di unificare in una grande battaglia democratica i tanti rinnovi rimasti irrisolti; e a questo punto è lecito chiedersi: cosa resta dell’idea di confederalità, se milioni di lavoratori senza contratto, con la stessa tessera sindacale in tasca, non mettono in comune la forza, le idee, la mobilitazione, per rivendicare il diritto alla contrattazione? In che cosa consiste la confederalità? E’ un argomento da tirare in ballo solo quando c’è da scrivere i bilanci delle camere del lavoro, solo allora è lecito parlare di confederalità, è diventata una questione di contabilità?
La verità è che manca un attore importante, nel dibattito politico e sociale, dentro il sindacato e dentro il paese: manca la Fiom, manca la voce dei metalmeccanici, manca da anni quello che è stato un protagonista che per 15 anni ha dato spessore alla vita democratica del sindacato e anche all’agenda politica di questo paese. E questo rientro nei ranghi, permettetemi, è il lascito peggiore della stagione che ci lascia in eredità Maurizio Landini. Quanto ci sarebbe bisogno, oggi, di un sindacato forte, autorevole, che prendesse ad esempio in mano con vigore la battaglia contro la legge Fornero, su cui ancora oggi i lavoratori ci chiedono di intervenire, ci domandano dove siamo, perché non diciamo niente davanti all’allungamento più pesante dell’età lavorativa in Europa. Nelle fabbriche, dove ormai c’è un’età media molto alta, non si parla d’altro. C’è gente che doveva uscire dal lavoro anni fa: li abbiamo traditi con la riforma Dini, li abbiamo traditi con la Fornero, adesso subiamo gli allungamenti automatici senza muovere un dito, ma che razza di sindacato siamo? Se non contrastiamo la disumanità di un lavoro che si trascina verso i 68 anni, che razza di sindacato siamo? A che serviamo? E abbiamo anche il coraggio di dire che la “fase uno è fatta, passiamo alla fase due”, come abbiamo scritto sui volantini prodotti per l’APE? La fase uno è fatta? L’Ape (che tra l’altro è tutta farina del sacco di Poletti e si sarebbe fatta anche senza l’esistenza della CGIL ) l’Ape, rivendicata come risposta al problema drammatico dell’allungamento dell’età pensionabile?! Ma nell’ultimo congresso non si era scritto: “profonde modifiche alla legge Fornero”? Perché non c’abbiamo neanche provato? E ritorna la domanda, compagni: i congressi che li facciamo a fare, se niente trova applicazione nei quattro anni successivi, di quello che scriviamo e facciamo votare? La adesione della CGIL al modello APE spacciata per intervento sociale, è stata un errore e un’autentica debacle nel rapporto con la nostra gente e non potrà che favorire lo sradicamento dai luoghi di lavoro che purtroppo, senza conflitto e senza risultati, diventa tendenza inevitabile e già misurabile.
E senza un sindacato autorevole in campo vediamo qual è l’agenda politica dei diversi governi: una camionata di miliardi appena regalata alle banche, altri che saranno regalati a CONFINDUSTRIA per la prossima ondata di decontribuzioni, altri regalati alle multinazionali del settore farmaceutico con la balla dell’emergenza vaccini; solo per noi, per i nostri figli, per i nostri anziani, per il diritto alla casa o alla salute, per la coesione sociale, i soldi non ci sono mai!
E in assenza di misure di lotta alla povertà si mette in campo la “lotta ai poveri”, che è più facile da fare. Abbiamo appena passato un’estate di sgomberi e ossessivi richiami alla sicurezza e alla “lotta al degrado”; stiamo attenti, queste campagne securitarie hanno un obiettivo ben preciso e il target di riferimento siamo proprio noi: con questi messaggi (neanche tanto subliminali) le classi dirigenti del paese ci stanno dicendo: “..se la vostra condizione come cittadini e come lavoratori sta peggiorando ed è destinata sempre più ad arretrare, la colpa non è nostra, di chi comanda, la colpa è degli ultimi arrivati, dei migranti, dei profughi; sono loro che succhiano risorse altrimenti destinate a voi; sono loro che mettono addirittura a rischio la tenuta democratica”..(anche questo ci è toccato di sentire, da un ministro della Repubblica). Dobbiamo contrastare questi messaggi, rifiutarli e dire con forza che la tenuta democratica in questo paese non è messa in discussione dall’arrivo di quattro barconi, ma dal fatto che lavoriamo 40 o 50 ore alla settimana e non riusciamo ad arrivare alla fine del mese! Questa cosa, mette in discussione la tenuta democratica del paese!
Dato che questa è anche l’occasione di in cui la nuova segretaria si presenta alla platea dell’Emilia, vorrei rivolgerle un augurio di buon lavoro e rivolgere anche un augurio a tutti noi. Io spero francamente in un approccio diverso nel governo di questa categoria, se è vero che la differenza di genere deve marcare anche una differenza di metodo, di stile, di cultura politica. Spero in un approccio meno muscolare, rispetto al passato, in cui non si minaccia nessun colpevole di dissenso, non si mette nella condizioni nessuno di lasciare, si abbandona la cultura del nemico del popolo che spesso è solo colpevole di dire pubblicamente quello che tutti pensano ma pochi hanno il coraggio di esternare per qualunquismo e quieto vivere.. Chi dissente su questa o quella questione, non è un nemico interno, non è un parassita, spesso è un delegato che fa del volontariato e dell’attivismo “a gratis” magari da trent’anni, dentro questa organizzazione e, a buon diritto, si sente un po’ in casa sua, qua dentro, libero di dissentire e opporsi, quando è necessario.
Giovanni Iozzoli (RSU PFB Modena)
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