1966 e 2017: due contratti…
Una riflessione di Luca Scacchi, CD CGIL.
Nel 1966, dopo una lunga vertenza durata più di un anno, fu firmato il contratto dei metalmeccanici. A suo modo fu un contratto storico. Perché Fim, Fiom e Uilm erano riuscite a varare, per la prima volta, un piattaforma unitaria, costituito da cinque punti principali. La Cisl però aveva sposato la “politica dei redditi” e voleva che le sue federazioni fossero prudenti sul piano delle rivendicazioni salariali. In quegli anni stava infatti iniziando a rallentare il lungo boom del dopoguerra e Guido Carli, dalla Banca d’Italia, tracciava le sue politiche di contenimento dell’inflazione e della spesa, centrate sui vincoli della bilancia di pagamenti, con qualche “inevitabile costo in termini di redditi e occupazione”. Così, per garantirsi l’unità, l’ultimo punto della famosa piattaforma era intitolato, laconicamente, “modifica delle tabelle salariali”. In ogni caso, nel suo piccolo fece storia anche il materiale di propaganda preparato dai tre sindacati per gli scioperi: aveva come segno grafico una mano aperta, in cui ogni dito rappresentava un capitolo della piattaforma.
Fu, secondo molti, il peggior contratto della storia per i metalmeccanici.
Non lo fu tanto per il salario (alla fine, si ottennero aumenti del 5%). La criticità esplose soprattutto sulla contrattazione “di secondo livello” (come diremmo oggi), ed in particolare sul premio di produzione. Dopo molte ore di sciopero (ne furono proclamate circa 200), nel quadro della ripresa di conflittualità operaia che ha segnato quegli anni (dal natale degli elettromeccanici a Milano nel 1960 agli scontro di Piazza Statuto a Torino nel 1962, sino agli scioperi per il rinnovo del Ccnl nel 1963), il padronato pretese di mettere la camicia di forza alla contrattazione dei premi: le dinamiche e le modalità della loro erogazione vennero infatti predeterminate e “imbragate” nel contratto nazionale.
La FIOM decise subito di firmare (contenta in ogni caso del successo politico di una “gestione unitaria” di tutta la vertenza, oltre che della conquista delle “deleghe sindacali”). Paradossalmente, quel rinnovo creò però notevoli problemi in FIM: la maggioranza del suo Direttivo nazionale inizialmente era contraria alla firma e fu convinta, dopo un lunghissimo dibattito, da Pierre Carniti (allora appena entrato in Segreteria nazionale e rappresentante della sua sinistra). Per questa posizione, e per questo suo ruolo, Carniti litigò aspramente con una parte significativa di quella FIM del nord che aveva sostenuto la svolta conflittuale dei metalmeccanici CISL. Si racconta addirittura che Franco Castrezzati non gli rivolse la parola per un anno.
Castrezzati è un personaggio che forse oggi pochi ricordano, ed è un peccato. Per molti anni è stato segretario FIM a Brescia. Era sua la voce che si sente in Piazza della Loggia quando esplode la bomba, il giorno della strage, proprio mentre stava parlando delle trame della destra (Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obietti precisi. A Milano…State fermi…state calmi, state calmi. State all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone intorno alla piazza, state all’interno della piazza. Invitiamo tutti a portarsi sotto il palco, venite sotto il palco, state calmi, lasciate il posto alla Croce Bianca, lasciate il passo, lasciate il passaggio delle macchine, tutti in piazza della Vittoria, tutti in piazza della Vittoria). Appena eletto, nel 1958, indisse il primo sciopero unitario con la FIOM (il primo in Italia): all’OM di Brescia, contro il premio antisciopero (un premio concesso della FIAT solo a chi non faceva neanche un ora di sciopero nell’anno precedente). Parteciparono solo in 21 (ventuno!), su 3500 operai. Fu un disastro. Un disastro, però, che segnò una fase, perché quella linea fu perseguita testardamente, in direzione ostinata e contraria, costruendo il decennio successivo.
Comunque, alla fine il contratto del 1966 fu firmato, ed appunto fu definito per molti anni il peggior contratto metalmeccanico della storia.
Sino al 2017. La FIOM quest’anno ha firmato, “tutta contenta”, un pessimo contratto: contenta in particolare del “successo politico” di una conclusione unitaria, dopo la lunga stagione degli accordi separati. In previsione della prossima entrata di Landini in segreteria CGIL (oramai imminente). Il rinnovo del CCNL di quest’anno non ha solo evidenti problemi salariali (1,70 euro di aumento per quest’anno, appena erogato!), prevedendo a livello nazionale il semplice recupero ex post dell’inflazione reale (una scala mobile al contrario, in un periodo di bassissima inflazione), senza alcuna redistribuzione della produttività o della ricchezza (in un momento di crisi e aumento delle disuguaglianze, in cui tutti, da Draghi ad economisti di ogni colore, sottolineano la necessità di aumentare i salari). Non solo istituzionalizza e generalizza sanità integrativa e welfare come parte degli aumenti salariali (i famosi “90 euro” complessivi nel quadriennio).
Come nel 1966, questo CCNL ingabbia la contrattazione integrativa. Anche qui, sui premi di produzione. Questa volta non ne fissa il tetto economico, ma stabilisce che deve esser, senza eccezione alcuna, totalmente variabile. Per capirsi, i premi (che oramai coprono una parte significativa dello stipendio, talvolta superiore al 15%) devono tutti esser legati ad indici di qualità, produttività, fatturato o risultato economico. Quindi erogati sulla base dei risultati aziendali. Questo comporta due cose: primo, che questa quota di stipendio diventa totalmente flessibile (oggi c’è, domani chissà), sulla base delle esigenze di profitto dell’impresa; secondo, si rischia di perdere una quota di salario (in linea generale, tredicesima e TFR sono calcolati anche sui premi quando questi fanno parte in maniera prevedibile dello stipendio lordo annuo; quindi quando sono fissi, non variabili).
Non è un problema teorico: in molte aziende ad alta sindacalizzazione, proprio la FIOM aveva fatto della conquista almeno di una parte fissa dei premi l’elemento caratterizzante della propria azione nell’ultimo quindicennio (a partire, direi, dalla battaglia dei precontratti nel 2002/2003, contro il primo accordo separato FIM-UILM, in cui furono aperte circa 3000 vertenze e firmati circa 1000 accordi). Oggi Landini ed il gruppo dirigente nazionale della FIOM, all’Assemblea dei 500 di tre giorni fa, varano invece delle linee guida sull’applicazione del nuovo CCNL in cui ribadiscono che non c’è più spazio per i premi fissi e che questi quindi devono esser smantellati nella prossima stagione di rinnovi.
Ieri, infine, i tre segretari FIOM FIM UILM sono andati all’assemblea nazionale di Federmeccanica. Ho già espresso, personalmente, quanto trovo metodologicamente inopportuna e sbagliata questa scelta, in un post personale su FB: …”se prima di Landini e C. nessuno segretario FIOM era mai andato ad un’assemblea di Federmeccanica, e tantomeno vi aveva preso la parola, ..beh secondo me aveva un senso. Non perché non si riconoscesse l‘interlocutore. Anzi. Era proprio il contrario. Si riconosceva Federmeccanica, e quindi se stessi, come due controparti: uno a difesa del capitale; l’altro a difesa del lavoro. Se aveva senso incontrarsi, era al tavolo di trattativa (o al limite, a casa di terzi, dove ognuno esponeva il suo punto di vista). Perché i punti di vista sono opposti, avversari, essendo capitale e lavoro soggetti contrapposti nella produzione e nella società. Non si andava quindi ai reciproci congressi (o seminari), dove ognuno mette a punto le sue strategie, le sue tattiche, le sue scelte. Non ci si andava proprio per un reciproco riconoscimento, per un minimo di chiarezza: dentro di sé, verso i propri iscritti e persino nei confronti del mondo. Un elemento di pulizia mentale, direi. Spiace la si stia perdendo. Nella forme e forse, purtroppo, anche nella sostanza.”
Landini (FIOM), Bentivogli (segretario FIM) e Palombella (segretario UILM) non si sono però limitati a partecipare. In questo particolare parterre, come riporta l’articolo della Stampa di oggi (vedi sotto), hanno sottolineato insieme a Stefano Franchi (DG di Federmeccanica) che si è firmato un contratto che farà storia, senza modelli di riferimento, che archivia per sempre le prassi del novecento (non più controparti, ma interlocutori!!!) e che a sua volta servirà come punto di riferimento per tutto il mondo del lavoro. Un contratto che adesso bisogna solo far marciare.
Ecco, speriamo di no. Speriamo che non marci. Che faccia storia solo ed esclusivamente come ha fatto storia il contratto del 1966: come una caduta di tono, un inciampo della storia, superato rapidamente dall’esplosione di una conflittualità diffusa che ne ha travolto ogni ingabbiatura.
Certo, sappiamo bene che siamo in un altro tempo. Non fosse per altro, ce lo ricorda il diverso clima con cui è stata condotta la discussione nelle organizzazione sindacali. Non so se qualche segretario territoriale ha tolto la parola a Landini. Non credo. Certamente, il clima da caserma che si respira oggi in FIOM ha compresso ogni confronto nel merito. In Direzione, nel CC e nell’Assemblea generale, gli interventi critici sono stati subito stigmatizzati.
La sinistra, poi (sia quella politica, sia quella sociale) è oramai persa dietro ai suoi miti ed ai suoi riti, all’eterna ricerca di un nuovo inizio costituente in cui parlare di cose e non di nomi. Per questo, non trova neanche trenta secondi per provare a riflettere su un contratto di lavoro, che pure vede Landini come protagonista e che pure si definisce storico. Come mai tanta reticenza? Forse che quando la discussione sulle cose rischia di metter in imbarazzo i nomi, si preferisce evitare? …chissà che possa partire qualche fischio, meglio scansare ogni rischio.
In ogni caso, una parte della FIOM si è opposta. Nel contempo, sappiamo che nei posti di lavoro, tra i delegati, il dissenso è ampio. Nelle grandi fabbriche, con più di 500 addetti, ha raggiunto quasi il 40%. Già si segnalano rinnovi dove si è mantenuto il premio fisso, anche dopo la sigla del CCNL. Molti lavoratori e lavoratrici, delegati e persino sindacalisti, si rendono conto che è importante costruire un argine: dopo le sconfitte su Job Acts, Buonascuola e referendum, che hanno segnato i rapporti di forza generali tra le classi nel nostro paese, si rischia uno sfondamento del padronato nei posti di lavoro, su salari, diritti e organizzazione del lavoro. Questo è anche il segnale dei recenti licenziamenti e repressioni persino in grandi fabbriche sindacalizzate (il licenziamento di Augustin Breda e le lettera di contestazione a Cinzia Colaprico in Electrolux, il trasferimento da Trieste a Taranto di Sasha Colautti alla Wartsila). Alla repressione padronale, subito è seguita la reazione e la resistenza dei lavoratori e delle lavoratrici (con scioperi e cortei).
I contratti allora sono pezzi di carta: come ha detto Palombella, poi devono marciare. Ecco, proviamo a farli inciampare. Facciamo in modo che la sua applicazione concreta sia la più contrastata e complicata possibile. Archiviamolo nella storia, ma per davvero, come quello del 1966.
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