Vuoto a rendere. La stagione dei rinnovi contrattuali 2015-2017.
di Eliana Como (introduzione al seminario del Sindacatoaltracosa-OpposizioneCgil, Rimini 19-20 maggio 2017)
Una analisi complessiva sull’indebolimento dei contratti nazionali negli ultimi due anni.
Relazione introduttiva alla prima giornata del seminario nazionale dell’OpposizioneCgil
Venerdì 19 e sabato 20 maggio, si è tenuto a Rimini il seminario nazionale della nostra Area programmatica (“Spazio di Opposizione: verso il congresso, per un’altra linea contrattuale”), di cui potete vedere qui i lavori (con qualche foto), oltre che scaricare qui uno dei materiali di approfondimento (Sette note sul salario globale, 1992/2017, a cura di L. Scacchi).
Questa invece è la relazione del primo giorno di lavoro, dedicato ad un’analisi ed un bilancio degli ultimi rinnovi dei CCNL, che potete anche scaricare qui in .pdf.
Tra 2015 e 2017 sono stati rinnovati molti dei più importanti contratti nazionali, per oltre 10 milioni di lavoratori e lavoratrici. Restano ancora da rinnovare il contratto del settore pubblico e della scuola, fermi ormai dal 2010, così come quello delle telecomunicazioni, delle poste, della logistica, delle pulizie, della grafica e dell’editoria, dell’edilizia e del legno[1].
In ogni modo, considerando quelli firmati, si può ben dire che negli ultimi due anni ci sia stata a una intensa stagione contrattuale. Intensa per quantità, purtroppo, niente affatto per qualità.
Il contratto nazionale è stato storicamente il più importante strumento solidaristico e universale di difesa di diritti e del salario. Ma dai primi contratti nazionali firmati tra fine 2014 e inizio 2015 (quelli degli operai agricoli[2] e del terziario[3]) fino agli ultimi in ordine di tempo (i tessili e gli assicurativi[4]), i recenti accordi hanno un filo conduttore comune, che rende legittimo il dubbio che riuscire a firmarli sia servito più alle controparti che ai lavoratori.
In questa stagione di rinnovi, il contratto nazionale ha, infatti, finito per essere lo strumento attraverso il quale, in cambio di poco o niente, le imprese tengono bassi i salari, mentre ottengono maggiore flessibilità della prestazione e in alcuni casi l’aumento dell’orario di lavoro (come nel trasporto pubblico locale e nell’igiene ambientale). Uno scambio senza contropartita, quindi, con l’aggravante di far leva sempre di più sul welfare privato e sugli Enti Bilaterali, a danno di una più generale visione universale dei diritti e dello stato sociale.
Questo filo conduttore ha poco a che fare con una strategia complessiva da parte del sindacato, né sul terreno dei contenuti, né tanto meno su quello della mobilitazione generale. Mai in questi ultimi anni è stato proposto alle diverse categorie un terreno di lotta comune che provasse a farle uscire dall’isolamento della propria condizione e tentasse di costruire le condizioni per uno sciopero generale di tutto il mondo del lavoro.
Il modello proposto da CGIL CISL UIL il 14 gennaio del 2016[5], che pure avevamo criticato nella sua impostazione complessiva, è rimasto poco più che un documento di intenti, ad oggi nemmeno discusso con Confindustria, bloccato per quasi tutto il 2016 dal tentativo di Federmeccanica di dettare dal tavolo dei metalmeccanici le regole per tutti.
L’impressione generale è che ogni categoria si sia mossa più o meno per conto suo, provando a reggere come poteva una offensiva padronale, al contrario, molto più coordinata e comune. Ai tavoli di trattativa, le associazioni delle imprese hanno preteso di trattare su loro contro-piattaforme: contenere gli aumenti retributivi (quasi tutte le associazioni hanno aperto le trattative chiedendo la restituzione di aumenti già contrattati nei precedenti rinnovi), cancellare gli scatti di anzianità, rendere il salario maggioramente variabile a livello aziendale e sempre più legato al rendimento e alla prestazione, ottenere maggiore flessibilità dell’orario di lavoro e minori vincoli nel confronto con le Rsu.
Da questo punto di vista, il vero sfondamento è avvenuto nella categoria dei metalmeccanici, quella che più delle altre partiva da condizioni di difficoltà, anche a causa dei precedenti accordi separati. Invece che essere l’avanguardia dei lavoratori, come in altre stagioni contrattuali sono stati, i metalmeccanici hanno finito per essere quelli che hanno pagato a Federmeccanica il prezzo più alto. Certo, il contratto nazionale è stato approvato dall’80% della categoria, mal digerito però da larga parte della base militante, in particolare quella delle grandi fabbriche, dove oltre il 40% dei lavoratori ha provato a bocciare l’intesa unitaria.
Il bilancio provvisorio di questa stagione contrattuale è quindi amaro, tutt’altro che “l’espansione della domanda interna”, “la tutela e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro” e “la maggiore inclusività” che, a parole, predicava il modello di CGIL CISL UIL.
Il salario
Dal punto di vista salariale, i rinnovi sono stati tutti ben lontani dalla difesa del potere d’acquisto, anche quelli “a tre cifre”, come quello degli alimentaristi (105 euro, ma in 4 anni e con un anno di moratoria sui contratti integrativi di secondo livello), degli assicurativi (103 euro, ma con un contratto scaduto da 3 anni) e del trasporto pubblico locale (100 euro).
È stato contenuto anche il risultato dei chimici, seppure firmato a fine 2015, prima della scadenza e senza una vera e propria trattativa (90 euro il chimico-farmaceutico e 76 euro la gomma-plastica).
A marzo del 2015, il commercio (inteso come terziario, distribuzione e servizi) aveva ottenuto 85 euro, già congelate, però, nella busta paga di novembre 2016, con la sospensione della terza tranche. Per non parlare dell’introduzione del salario di ingresso per i lavoratori “svantaggiati” (assunzioni con due livelli in meno per i primi sei mesi e uno in meno per i successivi sei, poi ripresa dal ccnl degli studi professionali) e la nuova declaratoria degli informatici, con inquadramenti anche inferiori di due o tre livelli rispetto a oggi.
Anche gli 85 euro in 4 anni dei bancari, ottenuti a marzo del 2015, sono ben al di sotto delle normali aspettative e ben lontani dai normali andamenti della categoria.
Così come sono ben pochi i 90 euro in 4 anni del contratto nazionale dell’igiene ambientale. Anzi, quasi una restituzione, a fronte dell’aumento dell’orario di lavoro contemporaneamente ottenuto dai padroni.
Nel corso del 2016, gli aumenti sono poi via via persino diminuiti e i contratti hanno assunto quasi tutti la durata di 4 anni (fa eccezione soltanto quello degli assicurativi recentemente firmato su 3 anni), attestandosi tra i 70 euro dei tessili e i 50 euro dei metalmeccanici. Anche gli 88 euro del contratto nazionale del turismo a novembre del 2016 non sono stati certo una eccezione, considerando che il contratto, scaduto da tempo, copre un periodo di ben 6 anni (peraltro, questo contratto interessa soltanto una minima parte delle imprese alberghiere e del turismo, quella rappresentata dall’associazione Aica. La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici sono ancora senza contratto).
Quelli dei tessili e dei metalmeccanici sono aumenti solo stimati, poiché entrambi sono calcolati sull’IPCA ex post. Quello dei tessili prevede però un meccanismo che garantisce comunque il valore delle prime due rate e stima quelle del 2018 e 2019. Quello dei metalmeccanici è interamente affidato all’andamento anno per anno dell’inflazione reale. Dopo il congelamento degli aumenti nel terziario, è un fatto di assoluta rilevanza che per la prima volta si firmino accordi in cui non c’è certezza sugli aumenti futuri. Altrettanto rilevante che una categoria come quella dei metalmeccanici ottenga un aumento persino inferiore a quello già contenuto dei tessili, settore in crisi da decenni. Altro che la tanto decantata “industria 4.0”! In questa stagione di rinnovi contrattuali, se le stime e gli andamenti inflattivi saranno confermati[6], gli operai metalmeccanici finiranno per prendere ancora meno degli operai agricoli (55 euro di aumento in 4 anni).
Ancora più basso rischia di essere il futuro aumento del pubblico impiego. Stando alle linee guida approvate a novembre del 2016, a pochi giorni dal referendum costituzionale, gli aumenti medi per i lavoratori e le lavoratrici pubbliche non saranno superiori a 85 euro. E non è escluso che siano comprese quote di welfare in questa cifra. Quasi niente, quindi, per una categoria che non vede aumenti dal 2010.
Il welfare contrattuale
In parte, i bassi aumenti retributivi sono stati resi più digeribili dal cosiddetto welfare contrattuale. Quasi ovunque, pur di tenere bassi i salari, i padroni sono stati disponibili a concedere aumenti sulle quote della previdenza e della sanità integrativa, rendendola in alcuni casi obbligatoria, come nel contratto nazionale dei tessili e in quello dei metalmeccanici, con il quale, dopo anni di contrarietà, anche la FIOM è entrata nel fondo sanitario Metasalute (accettato talmente tanto da averlo persino chiesto nella piattaforma rivendicativa!).
Nel principale contratto nazionale dei chimici, l’aumento del contributo sul fondo pensione ha persino portato all’abolizione della giornata di riposo della Pasqua, determinando di fatto un aumento complessivo dell’orario di lavoro.
È quasi paradossale che persino nel contratto dei pubblici – cioè quei lavoratori e quelle lavoratrici impiegati nella sanità e nel welfare pubblico – si stia discutendo di concedere parte degli aumenti sotto questa forma. Un po’ come chi taglia il ramo sul quale è seduto.
Peraltro, il welfare contrattuale non è nemmeno più soltanto previdenza e sanità complementare. Sdoganato dal contratto dei metalmeccanici e agevolato dalla legge di stabilità del 2016 e dalla modifica del TUIR[7], il welfare sarà sempre di più in futuro quello dei cosiddetti “flexible benefits”, ossia buoni carrello e benzina, ma anche asili, centri estivi o invernali, dopo-scuola, tasse, testi, gite e trasporti scolastici, baby sitter, interessi su mutui, servizi di cura per gli anziani, attività culturali e di formazione, persino pellegrinaggi (incredibile a dirsi!).
La possibilità di erogare una somma in buoni benzina o spesa è sempre esistita, ma si trattava di una elargizione unilaterale e paternalistica delle aziende, fuori dagli accordi sindacali. Oggi invece questi pacchetti sono contrattati con il sindacato nel contratto nazionale (quello dei metalmeccanici stanzia 450 euro nei 4 anni di vigenza dell’accordo), con il rischio che, come già sta accadendo, si estenda sempre più anche alla contrattazione aziendale, anche in sostituzione degli attuali PdR (volontaria o meno che sia da parte del lavoratore).
La flessibilità e gli orari di lavoro
A fronte di bassi salari, per di più sostituiti da quote di welfare, le controparti hanno ottenuto quasi ovunque una maggiore disponibilità alla flessibilità oraria, con l’aumento delle ore possibili e in molti casi con l’esautoramento del ruolo delle rsu nella gestione degli orari[8]. In alcuni casi, hanno ottenuto un vero e proprio aumento degli orari complessivi: esplicitamente nel contratto dell’igiene ambientale (l’orario passa da 36 a 38 ore) o indirettamente, come nei chimici (trasformazione della Pasqua in welfare), nel trasporto pubblico locale (con l’estensione del periodo di calcolo per la media delle 39 ore settimanali), nei tessili e negli assicurativi (con l’eventuale monetizzazione delle ore di flessibilità nella fase di discesa).
Quello della flessibilità è un tema straordinariamente caro ai padroni, che così possono aumentare o ridurre l’utilizzo degli impianti a seconda degli andamenti dei mercati, utilizzando la forza lavoro quando più gli serve, senza le corrispettive maggiorazioni dello straordinario. Con buona pace delle condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici, costretti a una maggiore disponibilità del proprio tempo, oltre il normale orario di lavoro.
Senza considerare, per completare il bilancio, l’assenza di qualsiasi norma di contrasto al Jobs act e alla precarietà, il peggioramento di aspetti normativi (come il trattamento della malattia nel contratto del terziario e la legge 104 in quello dei metalmeccanici) e, pressoché ovunque l’accettazione delle deroghe (in molti casi, già dai precedenti rinnovi).
Se questo è il quadro, il bilancio non può certo dirsi positivo. E rischia di essere anche peggiore quando, tra qualche tempo, potremo tirarlo anche sulla stagione di contrattazione integrativa che da esso prenderà le mosse. Gli effetti sul secondo livello rischiano di arrivare da più parti: dagli alimentaristi (che hanno bloccato i rinnovi integrativi per un anno), ai tessili (che hanno stilato vere e proprie linee guida per la contrattazione di secondo livello, inviduando temi, tempi e procedure), all’igiene ambientale (nel cui contratto nazionale si è convenuta la necessità e l’impegno a rivedere il diritto di sciopero) fino ai metalmeccanici (che inserendo l’assorbibilità dei minimi retributivi e cancellando dal vecchio testo la sola parola “anche” hanno ceduto quasi interamente la possibilità di ottenere aumenti fissi nei futuri premi contrattati in azienda) e con buona probabilità ai pubblici (per i quali il testo unico già limita la contrattazione di secondo livello, assegnando ampio potere unilaterale alle amministrazioni e l’obbligo di prevedere una significativa differenziazione di premi e incentivazioni).
Certo, rimarrà la possibilità nelle aziende più grandi di mettere in campo rapporti di forza tali da sovvertire le nuove regole e ottenere garanzie per tutti, come hanno già interamente fatto con il contratto aziendale della GKN a Firenze. Ma questo avverrà nonostante il contratto nazionale, che quindi rinuncia al ruolo di base universale dei diritti, da cui partire per provare poi nelle aziende dove c’è maggiore forza sindacale a contrattare condizioni di miglior favore.
Così il contratto nazionale rischia, al contrario, di essere una gabbia anche per la contrattazione aziendale. E lo sdoganamento del welfare, da questo punto di vista, non aiuterà, diventando casomai il vero e proprio cavallo di Troia che consentirà ai padroni di destrutturare anche l’attuale sistema dei premi di risultato.
È vero, quindi, che in questi ultimi due anni sono stati rinnovati tanti e importanti contratti nazionali. Ed è vero che questa condizione che non era scontata nell’epoca del modello Marchionne, delle deroghe e dell’articolo 8 della legge Sacconi. Il punto, però, è che le condizioni salariali e di lavoro non sono tutelate dalla firma di un contratto purché sia e in questa stagione il rischio è che i contratti – a tal punto svuotati – siano serviti ai padroni e alle associazioni padronali, che da essi si legittimano, molto più che ai lavoratori. E ai sindacati, certo, ma molto più per il sistema della bilateralità che per un avanzamento delle condizioni della classe lavoratrice.
Ecco allora a cosa serve il Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio e le sanzioni che esso ha introdotto. Rendere esigibili contratti nazionali che non rispondono agli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, ma a quelli dei padroni. Ad oggi, le sanzioni non sono state recepite in nessun contratto nazionale. Speriamo che anche su questo i metalmeccanici non siano i primi, visto che il punto è proprio ora in discussione con Federmeccanica…
Uno schema riassuntivo dei principali contratti firmati in questi ultimi anni
[1] Ne cito soltanto alcuni, quelli più importanti e di grandi dimensioni. Quasi impossibile nominarli tutti, vista la frammentazione contrattuale di cui soffre il mondo del lavoro italiano. In tutto i contratti nazionali sono oltre 250.
[2] Ottobre 2014.
[3] Marzo 2015.
[4]Entrambi a febbraio del 2017.
[5] A gennaio del 2014 erano già stati firmati importanti ccnl (commercio e chimico, in particolare) e altri erano in discussione (quello dei metalmeccanici era appena stato avviato).
[6]Comunque è difficile che siano superiore, perchè, anche in caso di ripresa inflattiva, il parametro utilizzato è quello dell’IPCA, cioè depurato dall’aumento dei costi energetici.
[7]La modifica dell’art.51 del Testo Unico sulle Imposte e sui Redditi ha stabilito la totale detassazione del welfare contrattuale, in quanto non è considerato reddito da lavoro dipendente (fino a 258 euro nel caso di buoni carrello e benzina, senza limite per gli altri pacchetti).
[8]Fino a 85 ore per gli operi agricoli (con il superamento dei limiti giornalieri a 3 ore, settimanali a 18 e annuali a 300); 88 per gli alimentaristi; 80 per i metalmeccanici (e fino a 120 con lo straordinario obbligatorio); 104 nei tessili. Inoltre, il ccnl del terziario ha riconosciuto la possibilità di lavorare fino a 44 ore a settimana.
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