Svizzera – Sul salario minimo
Poche settimane fa è stato largamente bocciato l’iniziativa popolare che chiedeva l’introduzione di un salario minimo per legge in Svizzera a 3.270 euro (4 mila franchi). Oltre il 75% degli Svizzeri si è espresso contro.
1) Ci spieghi prima di tutto da chi era promosso l’iniziativa popolare e su quali argomentazioni?
L’iniziativa popolare è stata lanciata dall’Unione sindacale svizzera (USS), la principale federazione sindacale elvetica che rappresenta 16 sindacati, ossia un totale di 380’000 lavoratrici e lavoratori. All’interno del movimento sindacale, un ruolo di primo piano nella raccolta delle firme è stato giocato da Unia, il principale sindacato elvetico. Hanno poi sostenuto l’iniziativa tutte le forze politiche che, realmente o sulla carta, si rifanno ancora al movimento operaio: dai social-liberali del Partito socialista fino alle piccole organizzazioni della sinistra radicale e rivoluzionaria, come anche la Sinistra anticapitalista. Dunque, l’iniziativa godeva di un ampio sostegno. Le argomentazioni ufficiale erano sostanzialmente due: nel paese più ricco al mondo non si possono più tollerare salari inferiori ai 4’000 franchi e il salario minimo costituisce un strumento importante per combattere il dumping salariale, rafforzatosi con l’introduzione della “libera circolazione delle persone” con l’Unione europea (UE).
2) Cosa prevedeva la proposta?
L’iniziativa era molto semplice: si chiedeva l’introduzione di una salario minimo in tutta la Svizzera pari a 22 franchi l’ora, 4’000 franchi lordi per 12 mensilità. Nessuna lavoratrice e nessun lavoratore attivo in Svizzera avrebbe potuto avere una salario inferiore ai 4’000 franchi. Aldilà del dibattito sulle cifre – si sarebbero potuti chiedere 5’000 franchi e, soprattutto, che questo salario minimo fosse calcolato su 13 mensilità… in modo da imporre nella legge anche questo diritto, non obbligatorio in Svizzera -, l’iniziativa costituiva un elemento relativamente nuovo: l’introduzione di un dispositivo legale valido per le lavoratrici e i lavoratori di tutti i settori economici e su tutto il territorio nazionale. Questa semplice rivendicazione avrebbe avuto il merito di andare in controtendenza rispetto ai sacri principi elvetici della pace sociale del lavoro assoluta – difesa storicamente dal padronato e dalle direzioni sindacali – e del forte potere politico e legislativo demandato ai cantoni, fattore importante di divisione della classe lavoratrice svizzera. Non vogliamo assolutamente dire che l’iniziativa del salario minimo cristallizza un inizio di cambiamento dell’orientamento politico delle direzioni sindacali. Più semplicemente, si trattava di una piccola occasione per iniziare a porre, almeno sul piano istituzionale, una logica diversa rispetto a quella dominante, anche in seno al movimento operaio.
3) Per noi italiani, 4.000 mila franchi sono circa 3.270 euro al mese sono, più che il doppio di un salario medio! Ci fai capire il valore di una cifra di questo tipo in Svizzera in rapporto con il costo della vita? Quale è più o meno il salario medio in Svizzera? Ci sono grandi differenze regionali?
Per la maggior parte dei lavoratori dei paesi dell’UE, un salario minimo di 4’000 franchi può sembrare una cifra spropositata. Per la Svizzera, si tratta di un minimo veramente minimo… È stato infatti calcolato che 330’000 lavoratrici e lavoratori, ossia il 9% di tutta la forza lavoro elvetica, guadagnano meno di 4’000 franchi al mese o 22 franchi l’ora, pur lavorando a tempo pieno. Il 70% di questa forza lavoro è rappresentata da donne. Quindi, l’introduzione di un salario minimo di 4’000 franchi non avrebbe sconvolto il sistema salariale svizzero e, soprattutto, avrebbe inciso in maniera marginale sul tasso di profitto delle imprese. Nel 2012, il salario mediano era di 6’118 franchi (4’970 euro). Una cifra enorme? No, se si tiene conto del costo della vita. Nel 2011, per esempio, su 37 paesi europei, la Svizzera si collocava al primo posto rispetto all’indice dei prezzi della spesa totale per consumi delle famiglie: 100 l’indice dell’UE, 160 quello della Svizzera. Nel 2012, un paniere-tipo di utilità equivalente costava 185 franchi in Svizzera, 103 in Germania, 100 euro in Italia. Affitti e sanità (privatizzata e con costi elevati e crescenti) sono i principali fattori di erosione e di ridimensionamento dei salari elvetici apparentemente “straordinari”.
In un’economia capitalista, però, i salari vanno commisurati alla produttività. Il padronato elvetico ricorda sempre alla sua forza lavoro di godere dei salari più alti al mondo. Ma lo stesso, si dimentica sempre di dire che la produttività è pure estremamente elevata, molto più del livello dei salari. La dinamica comparata salari/produttività non lascia dubbi in questo senso: dal 1994 al 2010, i salari reali sono cresciuti in Svizzera del 6,7%, mentre la produttività è aumentata del 19,5%. In sostanza, la forza lavoro svizzera ha moltiplicato quasi di tre volte la ricchezza da lei prodotto per quasi lo stesso salario…
4) Sempre rispetto al contesto, anche la Svizzera è un paese in crisi? Se non sbaglio il tasso di disoccupazione è bassissimo, quasi impensabile se visto dall’Italia!
La Svizzera non è assolutamente un paese in crisi economica. Meglio: i padroni elvetici se la passano alla grande. Le lavoratrici e i lavoratori, invece, sono sottoposti a un tasso di sfruttamento crescente: salari stagnanti, ore straordinarie in crescita, aumento dell’intensità del lavoro, diritti del lavoro praticamente inesistenti, forte crescita del precariato, ecc. Il tasso di disoccupazione, oggi al 3% e pari a 130’310 persone (contro 184’436 persone in cerca d’impiego), è in parte intrattenuto perché al padronato è utile mantenere un esercito di riserva industriale, quale strumento di pressione sui salari e di messa in concorrenza dei lavoratori. Le ore supplementari prestate in Svizzera, in continua crescita dal 2007, hanno superato i 230 milioni. Queste ore equivalgono ad almeno 115-120’000 posti a tempo pieno. Detto altrimenti, il tasso di disoccupazione potrebbe essere praticamente eliminato. La crescita costante delle ore supplementari è anche un indizio importante della buona salute del capitalismo svizzero. Potremmo citarne una serie infinita. Ci limitiamo a uno solo: nel 2014, le imprese svizzere dovrebbero versare 33,7 miliardi di soli dividendi, ossia il 5% in più rispetto al 2013.
5) Ci spieghi brevemente come funziona il sistema contrattuale in Svizzera? Esistono i contratti nazionali e quanta parte del mercato del lavoro coprono?
In Svizzera esistono dei contratti collettivi di lavoro (CCL) nazionali e cantonali. I problemi principali sono però tre: secondo le cifre ufficiali, solo il 50% della forza lavoro è coperta da un contratto collettivo di lavoro. E solo il 42% delle lavoratrici e dei lavoratori sottoposti a un CCL dispongono di un salario minimo. Infine, molti di questi salari minimi sono inferiori ai 4’000 franchi (per esempio nell’orologeria). E non dimentichiamoci di un altro fattore: per i padroni svizzeri esiste il diritto assoluto al licenziamento. Anche in caso di licenziamento illegale o abusivo, il licenziamento è comunque valido, controbilanciato solo da 2 o 3 mensilità! Una situazione disastrosa per la forza lavoro elvetica ma che dà la misura della forza del padronato e della sua possibilità di estrarre plusvalore.
La vera colonna portante del sistema contrattuale svizzero è però rappresentata dalla “pace del lavoro”. Questa cristallizza la subordinazione strutturale degli interessi del Lavoro a quelli del Capitale. Formalmente, la pace del lavoro – introdotta nel 1937! – è una convenzione nella quale le parti contraenti s’impegnano a non ricorrere a nessuno strumento di lotta – sciopero o serranda – durante l’intera sua validità. Nei fatti, però, la convenzione non è simmetrica. Infatti, la pace del lavoro significa il divieto per la classe di operaia svizzera di usare lo sciopero quale strumento fondamentale per modificare i rapporti di forza con i padroni al fine di migliorare le proprio condizioni socio-economiche. Invece, ai padroni è lasciata intatta la facoltà di licenziare, ristrutturare e di peggiorare le condizioni di lavoro non incluse nella convenzione, come i salari, per esempio. La pace del lavoro si è trasformata in un vantaggio concorrenziale di rilievo per il capitalismo svizzero: si è estesa a tutti i settori economici; è stata (ed è) praticamente sempre rispettata dalle organizzazioni che dovrebbero difendere gli interessi dei lavoratori; infine, la pace del lavoro è diventata un valore positivo difeso dai sindacati nella misura in cui costituirebbe una condizione fondamentale alla base della prosperità della Svizzera. Nei fatti, questa capitolazione del movimento operaio, ha permesso al capitalismo svizzero di mantenere e difendere il tasso di profitto (la supremazia del profitto) sia nelle fasi di recessione che di crescita.
6) Che valutazione dai del risultato negativo dell’iniziativa popolare? Vi aspettavate un esito di questo tipo?
Sì, ci aspettavamo questo risultato. La pesante sconfitta subita va ricercata negli effetti deleteri e cumulativi di oltre 70 anni di pace del lavoro. Per vincere una battaglia importante come quella del salario minimo – come anche altre, per esempio il passaggio da 4 a 6 settimane di vacanza, iniziativa votata e persa due anni fa – è fondamentale contare su una coscienza di classe primaria da parte delle lavoratrici e dei lavoratori. Di fatto la coscienza di classe è determinata, a un primo livello, dal grado di militanza, di attivismo e di esperienze di lotta maturate dalla forza lavoro, attraverso le battaglie condotte da e con il movimento sindacale. In Svizzera questa configurazione non esiste, se non in alcune rarissime eccezioni. La coscienza di classe maturata nella lotta è stata estirpata dagli apparati sindacali, i quali hanno preferito fiancheggiare, naturalmente in una posizione subordinata, gli interessi del padronato, nel quadro della pace del lavoro, in cambio di briciole. Storicamente le direzioni sindacali non hanno fondamentalmente mai contrastato i padroni, né sul piano sociale, né tanto meno su quello politico. È così che i padroni hanno potuto sviluppare la loro supremazia ideologica fuori e dentro le fabbriche. In questo contesto di assenza sindacale, di rinuncia e di “criminalizzazione” della lotta, è ovvio che i valori borghesi si sono consolidati e sono diventati egemoni anche fra la classe lavoratrice elvetica. Ai padroni è bastato ricorrere allo spauracchio della perdita dei posti di lavoro in caso d’introduzione di un salario minimo per stravincere. Non ci sono scorciatoie: se il movimento sindacale vuole vincere con iniziative come quella del salario minimo, è necessario rompere con la pace sociale e ricostruire una coscienza di classe attraverso l’apprendistato della lotta, del conflitto sociale sui posti di lavoro.
7) Ultima domanda. La sconfitta a questa iniziativa popolare, segue di poco la bruttissima vicenda dell’iniziativa popolare contro i transfrontalieri, passato per pochissimi punti percentuali. L’iniziativa, proposta dall’Unione Democratica di centro e dalla Lega dei Ticinesi, il partito affine alla nostra Lega Nord, ha imposto un contingentamento annuale a quelle decine di migliaia di lavoratori frontalieri – tantissimi dei quali leghisti a loro volta in Italia! che paradosso! – che ogni giorno varcano la frontiera fra Italia e Svizzera, alla ricerca, appunto, di stipendi più remunerativi. Che giudizio dai su quella vicenda? Sono in qualche modo in rapporto i due episodi?
Prima di tutto permettimi una correzione. L’iniziativa popolare “Contro l’immigrazione di massa” non concerne solo i lavoratori frontalieri. In effetti, l’iniziativa prevede l’introduzione di contingentamenti (dei tetti massimi) annuali di permessi di lavoro per tutti gli stranieri. Quindi, i suoi effetti riguardano un numero ben più elevato di lavoratori.
I risultati delle due iniziative rispondono alla stessa logica esposta nella domanda precedente. L’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa” ha avuto una dimensione politica più complessa rispetto a quella sul salario minimo. Infatti, si è anche assistito a uno scontro, a una divergenza strategica fra settori della borghesia attorno alla libera circolazione delle persone – in realtà la libertà di mettere in concorrenza i lavoratori e di scardinare il mercato del lavoro elvetico – con l’UE. Da un lato c’era la quasi totalità del fronte padronale, sostenuto dalla “sinistra istituzionale” e dalle direzioni sindacali, dall’altra, l’Unione Democratica di Centro (UDC), il principale partito svizzero, il quale presenta fra le sue fila un settore importanti di padroni. Sul fondo, si sono scontrate due strategie borghesi: quella dell’UDC per la quale la difesa della piazza economica elvetica e dei suoi vantaggi concorrenziali passa attraverso la non adesione, diretta o indiretta, all’UE e quella delle principali organizzazioni padronali e politiche, per le quali lo scenario futuro è quello di un rafforzamento politico e istituzionale con l’UE. Il legame con quanto sviluppato più sopra, è che l’UDC ha vinto la battaglia soprattutto facendo leva sulla
politica anti-stranieri sviluppata storicamente dalla borghesia svizzera per dividere i lavoratori. L’UDC ha giocato sulla capacità di fornire delle risposte “rassicuranti”, in particolare attraverso l’idea di un ritorno a una Svizzera “indipendente”, quasi “mitica”, in cui ordine e benessere erano alla portata di tutti, al profondo smarrimento, al sentimento d’insicurezza sociale, all’assenza di prospettive che costituiscono ormai l’orizzonte quotidiano di una parte significativa della popolazione. Il voto esprime, quindi, l’egemonia dei valori della destra in Svizzera, anche fra i lavoratori e le lavoratrici. In questa sua azione, l’UDC è stata aiutata dal movimento operaio che da un decennio difende la libera circolazione delle persone, non capendo che la posta in gioco non è il valore fondamentale di ogni essere umano di spostarsi dove desidera, ma la messa in concorrenza dei lavoratori per aumentare i profitti dei padroni. L’ostinazione del movimento operaio nel non contrastare gli interessi di classe della borghesia ha ancora una volta contribuito a rafforzarne l’egemonia.
(per chi volesse approfondire la questione sul voto dell’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa”, rimandiamo al nostro bilancio pubblicato sul nostro sito: http://www.sinistra-anticapitalista.ch)
8) Che prospettive vedi ora per il futuro?
Domanda difficile che meriterebbe diversi congressi di discussione. Schematicamente, crediamo che due siano le priorità. Da una parte, dobbiamo cercare di costruire una coscienza di classe primaria fra le lavoratrici e i lavoratori. Per fare ciò è fondamentale partire dall’apprendistato della lotta sui posti di lavoro, sfruttare ogni occasione per sviluppare il conflitto sociale classista, per aumentare il numero di lavoratrici e lavoratori che subiscano una trasformazione attraverso la militanza sindacale e, soprattutto, la lotta. In questo senso, per quanto la degenerazione sia totale, i sindacati svizzeri rappresentano ancora il canale privilegiato attraverso il quale entrare in contatto con un numero elevato di lavoratrici e di lavoratori. Dall’altra parte, è fondamentale costruire un’organizzazione politica rivoluzionaria, risolutamente anti-capitalista. In quest’ottica, l’accumulazione primaria di nuove forze è vitale, come anche la formazione di quadri politici rivoluzionari. Questo lavoro deve essere realizzato unendo simultaneamente due livelli: l’attività politica militante – l’apprendistato politico della lotta – e l’attività di formazione politica di base marxista quale chiave per comprendere la realtà nella quale siamo chiamati ad agire. La fase storica in cui ci troviamo ci obbliga ad avere dei militanti rivoluzionari capaci agire nella lotta sociale con una solida preparazione politica.
Intervista realizzata da Eliana Como per il sito
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